Quid novi?

La Bella Mano (081-090)


La Bella Mano di Giusto de' Conti LXXXI A che mi fuggi, o perfida, tutte ore,Perché della mia impresa io mi distoglia?Non sai, che tanto più m' arde la voglia,Quanto per tuo fallir cresce l'errore?Convien, che meco pria s'appaghi Amore,Et dalla luna il sol sua luce toglia,Che l'alma vista in me non sia qual soglia,Donde sì dolcemente acceso ho il core.Non poran farlo tutti i rei pensieri,Che parturisce la sdegnosa mente,Che ognior non tenga in te l'usato stile:E che te, sola amando, in te non speri,Et notte et giorno non mi sie presente,Tanto la fiamma donde ardo è gentile.LXXXIIIo non so se costei, per ch'io sospiro,Se infinga o tema, o pur di me non curaCh'io mora affatto: et lei per mia sventuraConsenta il mio non degno aspro martiro.Tu sai se già la piansi, et or m'adiroSe più che le lusinghe la pauraGiamai potesse: et lei, pur ferma et dura,Tanto mi sforza più quanto più tiro.In questo il tempo perdo immaginando,Finché un pensier geloso il cor mi strugge,Che questa ingrata per altrui sospire:Che, se non come vien sparisce et fugge,Alla mia pura fede ripensando,Veracemente io ne vorria morire.LXXXIIITanto m'ingombra Amor, tanto m'affannaSotto il gran peso dell'antica arsura,Che, come Circe già con sua pastura,Dell'intelletto il mio vedere appanna.Ben veggio l'esca ascosa, che m'inganna,Al gusto dolce fuor d'ogni misura:Ma par che mi trasmuti di naturaMedusa, che a seguirla mi condanna.Il filo è rotto, ond'io regger soleaNell'ampio laberinto il cieco passo,Sì che giamai non spero uscirne in vita.Non mi val di Ariadna, in ch'io credea,L'alto consiglio: ond'io dubioso et lassoVo palpitando per la via infinita.LXXXIVSe la memoria dei passati affanni,Che mi stan sì confitti in mezo il core,O per mia sorte, o per pietà d'Amore,Mi fusse tolta, o per virtù degli anni,Un tal riguardo avrei da i nuovi inganni,Dall'un fuggendo, et poi dall'altro errore,Ch'io ne farei del gran tormento fore,Che par che a pianger sempre mi condanni.Ma pria cascaran dal ciel le stelle,Che in l'alto laberinto l'uscio trove,Che non mi annode a più possente laccio.Così convien, che sempre rinovelleAmore in me, con sue vaghezze nove,L'antica febre o d'uno in altro impaccio.LXXXVAmor, mia stella, et l'aspre voglie e tardeDi lei, che del mio mal sì poco cura,Mi fanno ad ogni or guerra: Amor mi furaIl cor, pur disiando quel che m'arde. Fortuna altro giamai par che non guarde,Se non che l'alma mia non sia sicura;Et la spiatata voglia acerba et duraPar che ogni mia speranza a venir tarde. Che poss'io più : volendo il Signor mio,E il ciel, che armato contra me s'ingegna,Durando al cor feroce il pensier rio? La mente fra gli oltraggi si disdegna,Onde, a dispetto, segue quel disio,Che in tutto a mia salute disconvegna.LXXXVIIo sento senza inganno omai mia vita,Che il tempo caccia verso l'ultime ore,Monstrar per segno dentro il suo valoreLanguido nella faccia scolorita. Amor, che a consumarmi il tempo aita,L'acceso stral confitto nel mio corePer tutto ciò nol tragge ancor di fore,Compreso nella fiamma tramortita. Sento natura omai vincer da gli anni,Che mi trasportan ver la stagion dura;Et per doppio martir fiaccar l'etade: Né ancor per tutto questo dagli inganniDi lei guardar mi so, che il cor mi fura;Tanto m'abaglia l'alta sua beltade.LXXXVIIIo non posso fuggir l'ascose ragne,Che Amor contra mia vita ha tese et sparte:Né qui sicuro sto, né in quella parte,Dove paura et duol l'alma trista agne. Onde la mente mia dì et notte piagne;Né sa star qui, né quinci si diparte,Abandonata da Ragione et d'Arte,Che fur nei dubi suoi fide compagne, Et come augel che pria s'aventa et teme,Stassi fra i rami paventoso et solo,Mirando questo et or quell'altro colle. Così mi lego et mi ritengo insieme,L'ale aguzando al mio dubioso volo,Ch'io prego che a Dio piaccia non sia folle.LXXXVIIIDeh, non più cenni omai, non falsi risi,Se tanti prieghi et lagrime non curi,Non, falsa disleal, che tu mi furiGli spirti ad uno ad un dal cor divisi: Non più lusinghe omai, non lieti visiIn vista, che al tornar mi rassicuriNon subiti sospir sopiti, et furi;Non atti pien di froda, o sguardi fisi; Non tendere altra rete a gli occhi miei,Che quella che gran tempo intorno hai spartaA pigliar l'alma che in te sol s'affida; Né temer che giamai da te mi parta:Et benché alcuna volta in vista io rida,Non son sì sciolto, non, come vorrei.LXXXIXTutto il quarto anno il cielo ha già rivolto,Et già del quinto scalda il mezo ApolloDal dì, che io porto il grave giogo al collo,Che all'ultimo dì sol me sarà tolto. Et nella rete di Cupido avoltoTremo l'estate, et quando inverna io bollo,Pur senza una fiata anco dar crolloDall'aspro giogo, ond'io mai non sia sciolto. Ma ben porrò sì carco andar mille anni,Et altretanto stretto al fiero laccio,Tremando, ardendo, calcitrando invano: Ma non sì che dì et notte, come or faccio,Per far pietosa, indarno io non m'affanni,La cruda sopra ogni altra et bella mano.XCSolo, cacciando un dì come Amor volle,Un candido armelin tra i fiori et l'erba,Seguendolo una fera aspra et superba,Mi apparve a pie' d'un fresco et verde colle. Stanco parea, con gli occhi e il viso molleChieder soccorso alla sua pena acerba,Talché un cordoglio in mente ancor mi serbaQuell'atto sì che ogni piacer mi tolle. Et giunto al passo, ove poi morte il vinse,Fermossi qui, per non macchiar nel fangoSuoi casti piedi, e le innocenti membra: Allor sì forte una pietà mi strinse,Che alfin ne piansi, come ancor ne piango,Piangerò sempre infin che mi rimembra.