Quid novi?

La Bella Mano (121-130)


La Bella Mano di Giusto de' ContiCXXISe pria non torneran suo corso al monteIl Tebro et l'Arno, et mentre il Sol più coceRodano agghiaccerà nella sua foce,E il Ren si asconderà nel proprio fonte:Se pria non fermerassi all'OrizonteCiascun pianeta, qual sia più veloce;Et se chi m'ha allacciato et posto in croceNon mi scapestra dalle man sì pronte,Non fia giamai che avanti agli occhi mieiNon sia quell'atto, che affrenò l'ardoreDella vaghezza, che oltra mi sospinse.Benedetto il consiglio di colei,Che essendo già sì prossimo all'erroreColla sua mano il mio voler restrinse.CXXIIOcchi del pianger mio bagnati et molli,Perché il gran duolo in voi non si rinfresca?O foco dispietato giunto all'esca,Per che la vita tosto non mi tolli?Almo gentil paese, o selve, o colli,Che rimirando par che il mio mal cresca,Felice terra, dove Amor m'invesca,Et dove per destin piagar mi volli:O sasso aventuroso, che il bel piedePreme sì dolcemente: o dolce piano,Dove, pensando, spesso rinamoro:O cielo, o movimenti, onde procedeVirtù che regge chi mia vita ha in mano,Siavi raccomandato il mio tesoro.CXXIIIHora che 'l freddo i colli d'erba spoglia,Et vansi colmi i fiumi nei lor giri,Zefiro tace, et Euro par che spiri,Et non si vede in ramo verde foglia:Di pace nuda, l'alma ognior m'invogliaA morte, e il petto m'empie di sospiri,Onde trabocca il cor, ma i miei disiriVerdeggian sotto al caldo di mia doglia.Et tanto ho posa, quanto al cor mi vieneL'alta sembianza del bel guardo alteroChe dolce per natura fa il mio pianto,E il caro riso che più volte in speneGià mi ritiene; et l'alto mio pensieroAl mondo, se no il mio, non scorge tanto.CXXIVAnima, che sì tosto et sì soventePur là, ritorni et siedi co 'l pensiero,Dove è viva colei, per chi sol speroTrovar riposo a la mia pena ardente,Come te mena l'affannata menteAd ora ad or per sì dritto sentiero,Così sapeste il corpo tutto interoPortar, per far le mie voglie contente;Et discoprir le piaghe ad una ad una,Che chiuse dentro al doloroso petto,Morto, sì lungamente, il mio cor hanno,Havriami ancora il Ciel tanto a dispetto,Che quell'ingrata non avesse alcunaVolta pietà del mio non degno affanno?CXXVQuando l'alta tempesta in me si aventa,Et un pensier mi assale a poco a poco,Conosco i segni dell'antico foco,Che piglian forza nella fiamma spenta;Et mentre questo al cor mi si appresenta,Una favilla piu là non ha loco,Che tutto ancor m'infiamma sì che un giocoMi pare ogni altro duol che al cor si senta.Et come suole all'apparir dei rai,Se all'Orizonte spunta la gran luce,Che l'alba nasce, et fugge la grand'ombra;Così quando un pensiero al cor traluce,Amor mi risospinge ai primi guai,Et ogni altro volere indi mi sgombra.CXXVIQuando sarà quel giorno, o cor dolente,Che agli occhi miei sia reso il proprio sole;Quando sarà che oda le parole,Che mi sonan sì care nella mente?Vedrò mai il dì, che dal mio cor si allenteL'acceso nodo, che infiammar mi suole:Et chi senza fallir morto mi vuole,Volga la vista in me più dolcemente?O passeggiare altero onesto et tardo,Per che il mio cor tradito a te si diede,Sì che io non spero omai, che più sia mio,Quando sarà che il bel leggiadro piedeVer me si mova, et si giri il bel guardo,Che mai per tempo non porrò in oblio?CXXVIINon sa Fortuna in sì terribil portoCondur la stanca et fral mia navicella,Che pur dinanzi non mi veggia quella,Per chi scolpito Amor nel fronte porto:Né porrà mai recarmi tal conforto,Per volger di sua rota, o di mia stella,Che come già gran tempo, così d'ellaNon parli sempre, et scriva vivo et morto.Con lei mi sto se io dormo, qual se io veglio;Et di lei penso, se la lingua tace,Che ragionando sempre d'ella dice.Amor, che a sì bel foco mi disface,Così mi gira per divin conseglio,Per farmi più nel mio martir felice.CXXVIIIQuel sol, che mi trafisse il cor d'amore,Che di sua rimembranza ancor si accende,Fortuna a gli occhi miei veder contende,Et gelosia mi cela il suo splendore,Onde infinito in me cresce il dolore,Talché nostro intelletto nol comprende:La lingua è muta, et già più non s'intende,Mercè chiamando per pietà del core.Misero me che del mio grave stratioPietà non si ebbe mai, onde or sospiraLa mente, quando tardi sia il soccorso,Et fu il mio affanno tal, che avrebbe satioNon pur Medea nel maggior colmo d'ira,Ma d'un spietato tigre e il cor d'un orso.CXXIXGli occhi, che fur cagion pria del mio male;Et le parole che poi morto m'hanno,E il riso et le maniere che mi stannoConfitte al cor con sì pungente strale,Mi son pur tolti, et son condotto a tale,Pensando al grave irreparabil danno,Che altro gli miei che lagrimar non fanno,Così gli rota il corso suo fatale.Lagrime ardenti di fontana accesaGià l'infiammata vena in tutto spenta,E i cocenti sospir m'hanno arso il core;Ma calda spene, del gran pianto offesa,L'alma conforta in sì soave ardoreChe il pianto ne l'angoscia par che senta.CXXXQuelli suavi et cari occhi lucentiChe furno un tempo ai miei verace sole,Le ardite et belle braccia, et le paroleChe ad una ad una par che mi rammenti,Con quella crudeltà mi son presenti,Che Amor già volse, e il rimembrar mi dole;Così dove io mi sia far di me soleLa ricordanza dei passati stenti.Gli occhi che m'ardon d'un spietato lume,Le braccia che mi tiran dove è morte,Et le parole che abagliato m'hanno,Le tre faville son che han per costumeFar sì ch'io pianga, et mai non mi conforte,Sempre sì accese in mezo al cor mi stanno.