Quid novi?

La Bella Mano (141-147)


La Bella Mano di Giusto de' ContiCXLICaro conforto a mie dolenti pene,Onde han sua pace le mie voglie stanche:O labre mie vermiglie, o perle bianche,Di rose et d'armonia celeste piene:Alta colonna et ferma, che sostieneMia vita perché affatto ancor non manche:Parole, sopra le altre accorte et franchePer darmi sol baldanza et darmi spene;Se il Ciel non prende mio concetto a sdegno,Et se anima gentil d'amor sia presaEt giusto priego impetri omai mercede,Io spero alla magnanima mia impresaNon mancherà vittoria, perché è degnoChe acquisti gratia per sì ferma fede. CXLII Ritorna al foco, o mio debil coraggio,Et l'anima gelata omai riscaldaLa tua virtù che il tempo omai risaldaStruggendo al caldo del possente raggio:Et s'esser può, quel freddo cor selvaggioDi lei, che sta ver me sì ferma et salda,Al vento acceso dei sospir miei scalda,Che lagrimando notte et giorno traggio:Ritenta se pietà fiorisse maiNell'aspra mente, gravida di sdegno,Che vedermi languir sì poco appreza:Che se debbeno eterni esser miei guai,Piacemi, almen pensando che ogni ingegnoAl tempo usasse contra sua dureza.CXLIIIViemmi la fiamma antica, e i dolci affanniA mente, onde giamai non sia sbandita,E il discoprir dei colli ancor m'invita,Et dice: Or piangi dei passati inganni.Et par, che un'altra volta Amor condanniNella prigion tra' ferri la mia vita,Et giunghi al fianco mio nova feritaAll'altra che non salda in cotanti anni.Et se con tanta forza le favilleNon escon dal soave et puro lume,Come al principio del mio stato rio,Non son già le mie pose più tranquille,Spesso interrotte per lungo costumeDalla stagion che nacque il gran disio.CXLIVMentre che io m'avicino al bel terreno,Dove per forza Amor mi riconduce,Apparir sento i raggi della luce,Che fa, dovunque splende, il ciel sereno:Et l'esca sfavillar dentro al mio seno,Raccesa dal piacer dove mi adduceL'imagine, che viva al cor mi luceEt mi fa vaneggiando venir meno.Et spesso risospinto dal disio,Pensoso fra me stesso et con parole,Conforto con speranza l'alma trista:Et tacito ne prego Amore et Dio,Che nel primo apparir del vivo Sole,Io sia possente a sofferir la vista.CXLVAncor vive, Madonna, il bel disioChe nel cor mi accendeste ne i primi anni:Non ho la luce mia per tanti affanni,Né per fortuna mai posta in oblio.Cangerà nanzi il ciel suo corso, ch'ioNon segua ognior de i vostri onesti panniL'ombra leggiadra, et gli amorosi inganniDe gli occhi, che fan foco nel cor mio.Lasso, non fu, dal dì spietato, un giorno,Che nanzi non mi fusse per mia penaL'aspetto, onde disdegno m'ha diviso;E il caro sguardo sovra ogni altro adorno,Donde ho la mente stanca ognior sì piena,L'andare, et le parole, et il dolce riso.CXLVIVa, testimon della mia debil vita,Nanzi all'altero et venerabil fronte,Appiè del bel fiorito et sacro monte;Mira se l'alma nostra indi è partita.Ivi è la vista, che a ben far m'invitaEt d'ogni mia salute il vero fonte;Ivi son, lasso, quelle man sì pronte,Ond'io soffersi l'immortal ferita.A lei t'inchina et di, ch'io più non posso:Il core è stanco, et stanchi i miei pensieri,Vivendo sempre dal mio ben lontano:Ma pur l'usanza con la morte addosso,Vuol che in tanta aspra guerra pace io speriDalla benigna et sua pietosa mano.CXLVIIUdite, monti alpestri, li miei versi,Fiumi correnti et rivi,Udite quanto per amar soffersi.Udite i miei lamenti, anime dive;Et voi, che infino al sommo colmo seteDel nostro lagrimar, fontane vive.O boschi ombrosi et voi riposte et cheteStrade selvagge, a cui il mio stato è chiaro:O chiuse valli, a sospirar segrete.Soave colle: o fido porto et caroNelle tempeste quando Amor mi assale,Mentre ardere et tremare insieme imparo.Udite come l'amoroso strale,Quando al cor passa, poi non sana maiIl colpo, che difesa far non vale.Et poi che avrete intesi i nostri guaiPiangete meco sì, che il senta quella,Che avermi morto non gli pare assai.Ascolte nei miei pianti la novella,Che aspetta et chiede ognior cotal disioL'alma spietata et di mercè rubella.Et tu, crudel Signor, del dolor mioPrendi vagheza, poiché sì diversiMiei prieghi non ti fer mai dolce, o pio.Piangano insieme gli angosciosi versi:Spirti gentili e gnudi,Udite quanto per amar soffersi.Chi vide mai dolor tanti et sì crudi?Chi mai l'udì nei nostri, o nei primi anni?Qual mente è tal, che nel pensier gli chiudi?Nacque favilla d'amorosi inganni,Et d'un crudel voler che a poco a pocoOgnior si fa più forte nei miei danni.Quinci si accese poscia quel gran focoChe il mondo tutto ha già mosso a pietadeSe non la Fera a cui soccorso invoco.Né fuggir valmi a tanta crudeltade,Se lei, dovunque io vada, venir suole;Né mi abandona mai per mille strade.Sì come stanco peregrin che il soleDi poggio in poggio per la via accompagnaInfinché il giorno all'altra gente vole:Et poi che al tardo in mare il Sol si bagnaTornami in sogno, et del mio gran martireTra sé ragiona, et del mio mal si lagna,Sol perché nulla manche al mio languireEt corra sempre più bramando l'escaCon gli occhi avolti in fasce al mio morire.Oimè che lamentando si rinfrescaLa fiamma, accesa in mezo i nervi et l'ossa;Et par che il gran dolor dolendo cresca.Veggio la mia virtù fiaccata et scossa;Et sotto il peso mancar mia possenzaCome la neve dal gran sol percossa.Veggio fuggirmi inanzi ogni speranza;Et radoppiando le infinite voglie,Che più, che sospirar, sempre m'avanza?Perché piuttosto forza non ci accoglie,Che mi consume al foco, in che io sempre ardo,Per fuggir, ben morendo, tante doglie?O cruda voglia: o dispiatato sguardo,Donde la mente fra il pensier vien menoO presto ingegno, nel mio ben sì tardo:O fiero passo: o sacro et bel terreno,Là dove al gentil lume gli occhi apersi,Che del disio sì di veder son pieno.Ricominciamo i nostri usati versi,O vaghi pensier mieiCagion di quanto amando mai soffersi.Che giova a me se il ciel pose costeiSovra ogni altra beltà ? poi che naturaLa fe' sdegnosa più, ch'io non vorrei.Vera angeletta, una innocente et puraColomba, che è discesa allor dal cielo,Pare, a veder l'angelica figura:Spirto Celeste avolto in un bel velo,Cosa più che divina in forma umana,A passion sugetta, a caldo, a gelo:Cor d'un diaspro in vista umile et piana:Dolci parole, et sopra l'altre accorte,Da far gentil per forza alma villana:Corde amorose intorno al cor mio attorte:Possenti arder d'amore un uom selvaggio:Belleze sol create per mia morte:Pensar troppo alto, et per mio mal sì saggio,Che la mia vita dentro et di for vede,Come traluce in vetro vivo raggio;Deh, perché non piutosto più mercedeTi dié Natura, et poco men belleza,Per far contento in parte tanta fede?Havrei tue laudi poste in tanta alteza,E il mondo pien di sì soavi accenti,Che i monti sarien mossi per dolceza.Che ben felici troppo son le genti,Che per fortuna a te compagne fersi:Beati gli occhi che ti son presenti.Udite ancora i miei dolenti versi,Rose, viole et fiori,Udite quanto per amar soffersi.Qual forza, qual destin vuol ch'io m'adoriCostei, che mille volte il dì mi uccide,Et che della mia morte io m'inamori?Se del mio sempre lagrimar si rideChe mi conduce all'esca acerba et fiera,Col foco in man che nel mio cor s'annide.Non veggio come indarno omai si speraDi mia salute: et come sta contentaVedermi lagrimar mattino et sera:Vedrò mai lasso una favilla spentaDi tanto mal, quanto al mio cor si accende;O lei di simil fiamma in parte tenta?Che allor poria nel foco che m'incendeGiacer contento, et fra pungenti spine;Ardendo il laccio, che mercè contende.Però, Signor gentil, nanzi al mio fineFanne vendetta un dì ; prendi a dispetto,Che a sempiterno affanno mi destine:Spira virtù nel freddo et crudel petto;Che meco insieme sforze ella a dolersi,Rompendo il velo all'indurato affetto.Poi seguitando gli amorosi versiIn più dolci sospiri,Non mi dorrà quantunque mai soffersi,Non per mio ben, ma per gli altrui martiri.