Quid novi?

La Bella Mano (148-150)


La Bella Mano di Giusto de' ContiCXLVIIIAmor con tanto sforzo omai m'assale,Che a mal mio grado al fin pur me conduceOve io non voglio, et contrastar non vale.Mosse dai due begli occhi pria la luceChe mentre al cielo mi scorgeva, un tempoEra d'ogni mia fè colonna et duce,Poi le speranze mie di tempo in tempoDisperse, e in cor mi accese quel disio,Che già m'infiamma quanto più m'attempo.Et or quanto in me possa il furor mio,Et quanto fuor d'usanza il mio core arda,Sassel chi n'è cagion, Madonna ed io.Ogni altra aita omai per me fia tarda,Se non questa una, ove il dolor mi mena,Se pianti né sospiri il ciel riguarda.Dall'una parte la ragion mi affrena,Dall'altra mi combatte sempre, et premeL'oltraggio et l'onta, et la mia ingiusta pena.Ma perché il cor vacilla, et perché teme,Non debbo una fiata uscir d'affanno,Et vendicarmi innanzi l'ore estreme?Ecco la notte inchina; et, senza inganno,All'Oriente torna omai l'Aurora:Il tempo è accetto, et la stagion dell'anno.Finché il dolce silentio, et la dolce oraFra il dolce sonno gli animi adolcisca:Ecco la luna spenta, eccola fora,Perch'io contra mia voglia incrudelisca:Che biasmo fia se ciò da Amor procede,Da Amor procede, che la mente ardisca?Ponti dinanzi a gli occhi la tua fede,Et poi ripensa al suo spietato core:Merita tanto affanno tal mercede?Merita questo il mio fedele amore?E questo il ristorar de i miei tormenti;E il refrigerio dell'antico ardore?Deh forse meglio fia che ancor ritenti,Se pietà mai piegasse tal dureza;Et pensi pria che a tanto mal consenti.Ma che giova il pregar se lei nol preza,Se lei di me, né del martir mio cura,Se della morte mia prende vagheza?Non sa la vita mia quanto ella è dura?Or come io spero, che il parlar la pieghi,Se pur d'un picciol cenno ella ha paura?Essi commossa mai dai nostri prieghi?O mente stolta, quanto or sei ingannata.Et, benché la cagion per me si nieghi,So ben perché : deh, prendi una fiataL'arme al bisogno, come far si suole;Che troppo è innanzi già la piaga andata.Così facciamo: et mentre il giorno e il soleSi celano a ciascun, che alberga in terra,Comincio: poiché il cielo ed Amor vuole,Tu Notte, et voi Tenebre, che sotterraNasceste eterne giù nell'altro polo,Dove il nostro emisperio il giorno serra,Or muovati a pietade il mio gran duolo,Qual tu sai ben quanto al mio cor si accoglia,Quando me vede sconsolato et solo.Più volte mi vedeste per gran vogliaDi lagrimar, giacer tra i fiori et l'erba;Et poi mancar le lagrime per doglia.Proserpina, che fede anco mi serbaAgli notturni et queti miei sospiri,O testimon della mia vita acerba,Tu sola puoi saper dei miei martiriIl pondo et la graveza; et sola saiQuai siano et quanti tutti i miei disiri.Tu d'ogni tempo, nel girar che fai,Mi vedi come Amor mi sprona et volve,Et nulla è a te celato nei miei guai.Ombre amorose, et spirti ignudi et polve,Che al doloroso fine Amor sospinse;Et Pluto or sotto a noi danna et assolve,Per quella fe' che già al morir vi strinse,Per quella stessa fede io vi scongiuro,La qual come ora me, così voi vinse:Con voi, non solo l'animo sì duroVincer potrem di quella, per cui arsi,Ma il sole a mezo 'l dì vedere oscuro;Ristare i fiumi, e i colli al Ciel levarsi,Il mar turbare, et acquetarsi poi,L'aquile et le colombe amiche farsi.Debbon gli prieghi miei dinanzi a voiEsser sì santi, che il mio cor si vedaDella passata fede i frutti suoi.Qui son dell'erbe, che lodò già LedaTanto a sua figlia; onde il pastor TroianoVinto da lor virtù fe' la mal preda:De l'altre, onde già Circe un corpo umanoIn rigido orso trasformar solea,Sì che ad Ulixe un tempo parve strano:De l'herbe, che da Pindo ebbe Medea;Et la radice, che d'Olimpo svelse,Quando all'età sua prima Exon rendea:De l'altre che fra mille erbette scelsePer iscampar Giason, quando lui volseMonstrar per oro sue virtuti eccelse:Dei versi, donde Orfeo le selve accolse,Et Sisifo del sasso lassò l'opra,Nel tempo che Euridice a morte tolse.Raccolto insieme ho quanto, qui di sopra,Si possa fra noi miseri mortali,Quando Vendetta contro Amor s'adopra.Ma benché sian queste arti tante et tali,Pur l'alma sconsolata altronde speraIl suo soccorso, per quetar suoi mali.Si affida tanto nella fe' sincera,Che in voi sempre ebbe, che per suo sostegnoFia assai vostra mercè senza preghiera.Et, benché il cor villano fusse degnoDi mille et più vendette insieme aggiunte,Non voglio al tutto armarmi ancor di sdegno:Sempre sì ben saran le mie man pronte,Ch'io potrò ritornare alla vendetta,Per vendicar gli oltraggi et punir l'onte.Deh sciocco et vano, or così sia: aspettaCol tuo sì tardo et facile costume.La morte nostra nanzi tempo affretta.Or dunque come io stirpo le sue piumeA questa mia colomba a poco a poco,Così di tempo in tempo si consume:Lei si consume come cera al foco;Et, quale io già nel rassembrar di lei,Per aver pace, mai non trove loco.Io parlo lagrimando, et ben vorrei,Che udisse ne' miei prieghi pieni d'iraIl Tigre dispietato i dolor miei.Et come fra i miei denti più non spira,Così il gran foco del mio cor si allente,Per chi tanto or si piange et si sospira.Tengami sempre solo nella mente,Come io già tenni lei gran tempo prima,Che in me l'alte faville fussin spente,Amor con quella dispietata limaIl cor gli roda, onde egli Dido accese,Il cor che di virtù sì il ciel sublima:Contra ella aduopri Amor tutte sue offese:La luce, morte, il sol, le paia un angue;Le notti, piene d'angoscia in ciascun mese.E, come già morendo questa langue,Così languendo lei se altrui disia,Rimanga senza vita et senza sangue.Né resti mai lagnarsi già, se priaIl nodo che qui faccio non discioglio,Che adoppio acciò che indissulibil sia.Che più dirò, non so: ma ben mi doglio,Che le parole mie non son più folteDi sdegno et d'ira, et pien di più orgoglio.Domandemi perdono, et non l'ascolteS'esser potesse: et quanto più s'infiamme,Al suo gridar mercè l'orecchie volte.Et veggia spente l'amorose fiammeChe or sovra ogni altro fanno altero il viso,Che sempre vivo nella mente stamme.Né più, qual suole, germine il bel risoIntra le nevi, le viole e i fiori,Che fanno in terra un altro Paradiso.Senza sperare, il disiar l'accori:Ogni suo fallo ogni pensier raggrave,Sempre pensando dei passati errori,Et come il suo parlar tanto è soave,Quanto sa ben chi l'ha nel cor dipinto,Si faccia altrui noioso, et a sé grave.Veggia nel bel sembiante un pallor tinto.Che pietà faccia a me, che più domando?Da poi che il mio signor da sdegno è vinto.Su questo foco alfine a voi non spandoNé lauro già né mirto, che non lice;Ma gli ultimi sospiri; et lagrimando,Atti dolenti, misera e infeliceVita angosciosa, et triste ricordanze,Che lieto consacrar non si condice.Non si condice a me false speranze,Né più leggiadre lode, ma tal verso,Che di pietate ogni lamento avanze.Quel poco di mie lagrime qui verso,Che ancor mi resta: et del buon cor le porgeLo spirto doloroso a voi converso.Ma per troppo dolor l'uom non si accorgeChe il tempo fugge: et come il Sol dà voltaEcco la notte cala e il giorno sorge.Or basta, io spero che la spera voltaDue volte non arà Proserpina anco,Che l'alma mia verà da amor disciolta.Quel Corno, che mi canta a lato manco,Dice che tosto si apparecchia il giorno,Che l'alta mia tempesta verrà manco:Et quella fiamma, che a quell'altra intornoSpesso si aggira, et spesso inrossa e inbruna,Segno è, come ora in libertà ritorno.Conoscolo a le stelle, ed alla Luna:A non so che nel petto, che predireMi suole l'una et l'altra mia fortuna,Vedi che al ciel dispiace il mio martire. CXLIX La notte torna, et l'aria e il ciel si annera,E il sol si affretta a fornire il viaggioDietro alle spalle avendo omai la sera.Et come intorno al fugitivo raggioSparisce altrui, così dentro m'infoscoPer lo novello in me commesso oltraggio.Iteve a casa, et noi lassate al boscoPasciute pecorelle: et voi d'intornoPastori omai venite a pianger nosco.Et benché l'ora a noi ne cele il giornoSotto il gravoso velo della terra,La luna ha pieno l'uno et l'altro corno.Ma tu vicin perdio la mandra serraSì tosto come a noi di su sì oscura,Et la gran luce se ne va sotterra:Né qui, né altrove è ben la fe' sicura:Et chi nol sa si specchi nel meschino,Che per fidarsi tal tempesta dura.Un altro Cacco qui sotto Aventino,Con orme averse et disusati inganniFura gli armenti di ciascun vicino.Hercole è morto già, che di tanti anniGli rammentò l'offese, et punì l'onte,Et fe' vendetta dei passati danni.Et già il carro stellato tocca il monteCon la sua punta, sicché l'ora è tarda:Mira che oscura tutto l'orizonte.Di che, per Dio, sta desto, et ben ti guarda.Ira di stelle, et di fortuna colpoUman provedimento pur riguarda.Ma chi ne incolpoIn tanta mia ruina?Sententia divina, et mia scioccheza,El volto, et la dureza di chi io adoro.Se il serpe, che guardava il mio tesoro,Fusse dal sonno stato allor più desto,Quando per Damnae Giove si fe' d'oro;Né quel né questo, ond'io mi lagno ogni oraIn guisa che mi accora, et è ragione,Savrebbe la cagioneAl duol ch'io provo.Ah! ch'un novo Sinone! or basta omai,Amor, che assai tai guai per noi son pianti,Et gli occhi santi, donde ancor mi struggi.Ma tu, per chi mi fuggi, cor di sasso?Deh ferma il passo, e i miei lamenti ascolta;Prendi una volta del mio mal cordoglio.Io sarò pur qual soglioInfin che MorteLe corte mie giornate no interrompa.Soperchia pompa di vederti bellaTi fa sì fella contra me et te stessaIn cui mai speme ho messa.Ahi crudo AmoreNon hai del mio dolore ancor pietate?Del verno estate fa per forza il tempo;Et tu di tempo in tempo stai più salda;Et men ti scalda l'amoroso foco;Et parti un giocoIl gran martir ch'io sento:Deh, per che il mio tormento a te non duole?Ben son le mie parole senza senso;Ch'io penso far d'un Orso un cor pietoso,Et per trovar riposo, guerra chieggio.Ma se chi il pote il vole,A che ripenso?L'immenso suo volere el mi è nascoso:Et pur cercar non oso miglior seggio.Se io veggio che costeiMi cela il suo bel viso, e il vago lume,Che fe' Natura per mio mal sì adorno,Sol perch'io mi consume,Deh, cor tradito et vani pensier miei,Perché, smarrito, dal camin non torno?Lasso, la notte e il giornoMi vo struggendo, et pur l'ingorda vogliaPer tutto ciò non sbramo;Né del cor levo la tenace spene.Così tra due mi teneAmor, che dall'un lato morte io chiamo;Dall'altro, cerco d'acquetar la doglia;Se d'ogni ben mi spogliaLa fiamma che mi rode nervi et polpeNé so, chi, lasso, del mio mal ne incolpe,L'astuta volpe che svegliò per forzaIl topo che dormiva,Quando vi penso a lagrimar mi sforza.Venga Siringa all'infamata riva,Dove la canna nacque et fece i fiori,Perché convien che in mille carte scriva.O tu che al mondo ancor Certaldo onori,Deh maledetto sia quando mostrastiTale arte nel trattar de' nostri amori:Per più mia pena lasso tu informastiQualunque dopo te nel mondo nacqueAllor che di Guiscardo tu trattasti.Rise la mia speranza et poscia tacqueVedendo dentro come il core ardeaDel bel messer, che a lei cotanto piacque.Seco leggendo tutta si struggea,Di faville d'amor nel volto accesa,Poi sorridendo l'occhio li porgea .Allor credette il topo averla presa;Né si accorgeva che a sì poca forza,Al parer mio, troppo alta era la impresa.L'astuta volpe, che svegliò per forzaIl topo che dormivaQuando vi penso, a lagrimar mi sforza;Talché da gli occhi un fonte mi deriva.Solea nel petto mio già viva vivaPietosa et schiva starsi la mia Donna,Come ferma colomba in loco posta;Et or posto ha in oblio, come a sua postaSon posto in croce, et tormentato a torto;Né spero mai conforto,Né trovar posto in tanta mia tempesta.Questa sirena al suo cantar m'arrestaFinché m'investa l'onda, che m' affonda:Non sento chi rispondaAl mio gridar, che par già mi consume:L'altero et dolce lumeDegli occhi, che mi fur governo et vela,Fortuna, isdegno, et gelosia mi cela.Rotta è la tela, che con tanto affannoGià più d'un anno avea piangendo ordita;Compiuta è la mia trama in sul fiorire.Chi mi rivela come andò l'ingannoChe tanto danno a lagrimar m'invita,Sicché di vita l'alma vuol partire:Non pote più soffrire,Che quella, per chi ancora ella respira,Ver me si è volta in ira:Ond'io dì et notte piango et non mi stanco,Perché mia vita tosto venga manco.Ha manco il manco: et forse, chi sa? il ritto;Et così manco lui, tal guerra famme.Deh, cieco Amore, or non l'hai tu a dispitto?Io fuggirò in Egitto,Perché il tuo sguardo ingrato non m'infiamme,Poscia che qui riposo mi è interditto.El ne è già scritto sì che mille carteNe ingombra il fiero inchiostroDella mia pura fede.Il sempre sospirare, e il pianger nostroRimbomba in tanta parte,In quante il sol ne salda, e il Ciel si vede:Né te han mosso a mercedeNé miei lamenti, né miei giusti prieghiAnzi a colui ti pieghiA cui più manca quel che più si chiede:Chi l'ha veduto il crede:Se io dico il vero, deh perché me nieghi?Stolto, tu prieghi il sordo:Non ha ricordo delle sue impromesseGiurate et spesse, che già lei ti fe':Et che mi vale? il mio voler se ingordoNon vole accordo, che ragion gli fesse;Ma spesse volte duolme di sua fe'.Di ciò ne incolpo te,Amore amaro, et quella falsa vista,Che nel pensier mi attristaCol fuggir che or mi fan gli occhi sereni;Colla qual forza come vuoi mi meni.Niccolò vieni, or chi fia chi m'intenda?Comprenda mia ragion colui a chi tocca,Che scocca la balestra senza legge,Corregge il servo, et regge il sire, et menda.Venda la donna, et l'uom prenda la rocca:Sciocca et sinistra cosa a chiunque legge;Ei par che mi dileggeMesser quanto vaghegge allor per casoIl giorno, che di fresco lui sia raso.La mosca che mi vola intorno al nasoNon altramente da mattina a terza,Che quando il sole è già presso all'occaso,Con altro creda, che con debil ferzaLei minacciando quindi scacciarò .Mira che a guisa d'asinello scherza.Così noi avrem pace, et poi faròDel guardo traditor crudel vendetta,Che quel che in cor non era mi monstrò .Ahi falsa, intendi, io dico a te, aspettaVedi che volan l'ore et gli momenti,Et come il tempo al trapassar si affretta.Apollo non avrà d'intorno ventiVolte trascorso tutto in giro il mondoChe d'esser viva converrà ti penti:Io parlo chiaro, et non mi nascondo. CL Grandezza d'arte, et sforzo di naturaAl tutto fan costeiSimile in sua sustanzia agli altri Dei:Senno, valor, virtute et gentilezzaSon tutte insieme aggiuntePer adornar sua natural bellezza.Et quelle sopra ogni altre altere et pronteSoave parolette, anzi armoniaFanno che l'alma mia,Come beata omai, d'altro non cura.