Quid novi?

Fabbruzzo


Ho già parlato di Fabbruzzo (da Perugia), del quale nessuna notizia avevo trovato. Sono ora in grado di rettificare quanto da me in precedenza affermato.La potente ed illustre famiglia Lambertazzi ebbe molti individui di nome Fabro, i quali per vezzo consueto venivan chiamati Fabruzzo. Uno di questi fu l'esimio poeta del quale verremo a recar qui le notizie, e che al dire dell'imolese Benvenuto Rambaldi fu nobile cavaliere, e uomo sapiente e di gravissimo consiglio.Egli nacque di Tommasino Lamberlazzi, più tardi al certo del 1250, non tanto perchè dall'Alighieri vien posto sempre dopo il Guinicelli e l'altro Guido, de' quali fu alquanto più giovine, ma perchè nel memorando anno 1274, tanto funesto ai Lambertazzi per la lor cacciata da Bologna, soscrisse contratti civili, per la validità de' quali gli fu mestieri dell'assistenza d'un curatore: il che significa non aver egli in quel tempo compiuti ancora i venticinque anni d'età. Dov'egli studiasse le lettere non è chi l'accenni; nè di lui nè degli altri illustri bolognesi di quel secolo remoto ci sono cogniti i maestri. E però a supporre che la dotta Bologna, madre celebrata degli studi scientifici, quelli pur anche letterari a' figli suoi insegnasse. Certo è che molti uomini segnalati uscirono allora dalla Sapienza bolognese, fra i quali il nostro Fabruzzo fu certamente uno de' primi; nè molto da lungi gli tenne dietro il fratello Azzone, canonico della chiesa cattedrale e dottore in Decreti.Del 1266 perdette il padre, e dopo otto anni la patria; poichè venendo cacciati, come s'è detto, i Lambertazzi e tutti i seguaci che n'aveano preso le parti, Fabruzzo non fu in miglior condizione degli altri, leggendosi il nome di lui in tutti i libri de' banditi, così della prima come della seconda cacciata dei Lambertazzi e de' consorti Ghibellini; a cui forse alludeva esso Fabruzzo con que' suoi versi eptasillabi, che al dir di Dante incominciavano: Lo mio lontano gire ecc. Secondo l'opinione più verosimile pare che Fabruzzo si ritirasse a Perugia, ed ivi uscisse di vita, non trovandosi più memoria nei pubblici libri ch'ei ritornasse alla patria. La sua dimora di ben cinque lustri nella gentile e cordial Perugia, diede luogo alla falsa opinione espressa da qualche scrittore, ch'egli fosse perugino.Del 1289 e del 93 e del 98 il nostro Fabruzzo ancora vivea; poichè nel primo di questi anni essendo morto in esiglio il fratello di lui Azzone canonico, all'assente poeta ne toccò una parte dell'eredità; nel secondo riscosse dall'Arciprete della Cattedrale una poca somma di cui era questi debitore ad Azzone; e nel terzo trovasi notato il nome di Fabruzzo di Tommasino fra quelli de' capi fuorusciti di parte Lambertazza che si radunarono in Imola il 30 ottobre dell'anno suddetto, facendo compromesso nelle autorevoli persone di Matteo Visconti e di Alberto della Scala, circa le differenze che avevano colla città di Bologna. E avvegnaché per la sentenza pronunciata dai due arbitri fosse a molti dei Ghibellini conceduto l'anno appresso di ritornare alla patria, non si ha però nessuna prova che Fabruzzo entrasse di quel novero. Nè oltre a questo tempo si trova più memoria della sua vita ma solo delle opere sue: delle quali riportiamo qui un sonetto, tratto dalla raccolta di Rime antiche pubblicate già da Leone Allacci, il quale insiem con altri (siccome abbiam detto) cadde nell'errore di ritener perugino il bolognese Lambertazzi.Uomo non prese ancor sì saggiamenteNessun affar, se talor gli addivenneChe l'usanza che corre in fra la genteIl tenga folle, poi che mal sostenne.Mentre colui che adopra follementeBeato andrà, se per ventura avvenneChe tornasse a buon fin quant'ebbe in mente,Onde poi d'uomo saggio in voce venne.Questa nel cieco mondo è grande erranzaChe fortuna fa il folle parer saggio,E ciascuno che piace al suo volere.E non guarda ragion, non misuranza,Anzi fa bene, a cui dovila dannaggio,E male a quei che ben dovrebbe avere.Questo Sonetto, dettato con passione, allude senza dubbio all'impresa de' Ghibellini d'Italia, che nello scorcio del secolo XIII. avversando il prepotente indirizzo de' Guelfi, che tutto toglieva alla nazione per dar tutto ai Pontefici, tentarono una riscossa, nel concetto di farsi forti; se non anzi d'unificar la Penisola, all'ombra del vessillo d'Impero. Ma toccata la peggio ad essi Ghibellini, e nelle Romague, e in Lombardia ed in Toscana, que'medesimi che sarebbero stali dichiarati saggi ed eroi, trionfando, furono chiamati folli e ribaldi, soccombendo: e questo avviene sempre nelle geste ardimentose degl'individui e de' popoli; in quelle che in moderno linguaggio appellansi colpi di stato, e che ti prostran nella polvere o t'innalzano in sugli altari. Tal è il concetto che Fabruzzo (probabilmente ne' primi giorni d'esilio) svolse nel Sonetto morale di cui sopra, il quale se non ha l'eleganza delle rime del Guinicelli e dei toscani contemporanei, non manca però di naturale condotta e di lodevole chiarezza.Tratto da: "I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici", Salvatore Muzzi, Speirani, 1863 - 51 pagine