Quid novi?

Il Dittamondo (2-29)


Il Dittamonado di Fazio degli Uberti LIBRO SECONDO CAPITOLO XXIX Mille dugento sessantotto appuntosi carteggiava, quando Curradinotradito fu e per Carlo defunto.Sol non si vide a sí crudel destino,ché il conte Calvagno e Gualferano 5seguitâr lui a l’ultimo cammino.Similemente a quel tormento stranosi vide lagrimar Bartolomeocon due figliuoli e Gherardo pisano.Ancora al gran dolore acerbo e reo 10li fece compagnia quel di Sterlicchi,che senza reda il ducato perdeo.E perché l’occhio dentro al mio dir ficchi, * Rodolfo né Albertonon funno mai d’animo sí ricchi, 15 che ’n contro a Carlo o in contro a Ruberto movesson pie’ a far l’alta vendetta, ai quali appartenea per doppio merto. Ma qui di ricordarti mi diletta di Fiandra il conte, che ’l giudice uccise, 20 come per lui fu la sentenza letta, dicendo: - Questo ghiottoncel si mise a giudicar sí nobil sangue e degno, sappiendo ben che ’l fallo non commise -. Non mostrò Carlo di questo disdegno, 25 come che i suoi pensier fosson acerbi, sí piacer vide il colpo a quei del Regno. Ben vo’ che quello che or ti dico serbi, ché tale asempro è buono a ricordarlo quando i signor nel ben si fan superbi. 30 Tu hai udito come questo Carlo quanto piú si vedea in grande altura, piú venia aspro e fiero a riguardarlo. Onde Colui, ch’a tutto pone cura, dov’era in maggior pompe sí ’l percosse, 35 ch’assai con danno li fece paura: ché mai trattato non credo che fosse sí lungo e piú secreto, che quel fue che Gian di Procita contro a lui mosse. Lo Paglialoco il seppe e qui fun due, 40 Gregorio papa e Piero d’Aragona, e ne l’isola tre e poi non piue. Miracol parve a ogni persona ch’a una boce tutta la Cicilia si ribellò da l’una a l’altra nona, 45 gridando: - Mora, mora la familia di Carlo; moran, moran li Franceschi -. E cosí ne tagliar ben otto milia. Oh, quanto i forestier, che giungon freschi ne l’altrui terra, denno esser cortesi, 50 fuggir lussuria e non esser maneschi! Qui piú non dico; ma, per quel ch’io intesi, Carlo ben la Cicilia racquistava, fosse stato pietoso a’ Messinesi. Un poco prima, dove piú si stava sicuro Arrigo, il conte di Monforte l’alma del cuor con un coltel li cava. Non molto poi vid’io ch’a Nuova corte morto e sconfitto fu quel de la Torre, lasciando di Melan palagi e porte. 60 Pensa che ’l tempo al mio parlar sen corre e ch’io non posso, come si digrada di novella in novella, l’anno porre. Colui che seppe tanto de la spada e sí trovare in guerra ogni ricovero, 65 che ’ndarno d’un migliore allor si bada, fe’ de’ Franceschi mucchi senza novero, per sua franchezza e per sua maestria, per Forlí, dico, e di sotto dal rovero. Costui sconfisse la cavalleria 70 a San Procolo e il popol di Bologna, che con tanta superbia fuora uscia. Qui fu lá dove disse, per rampogna, quel da Panago: - Sozzo popol marcio, or leggi lo Statuto, ché bisogna -. 75 Cosí come tu odi, e non par ciò, i grandi mal contenti, quand’han possa, volentier fanno del popolo squarcio. La nobiltá di Pisa e la gran possa si cadde in questi tempi a la Melora, 80 che convenne rifar di gente grossa. Pur seguitando questo tempo ancora, la sconfitta fu fatta a Campaldino, che ’l ghibellin per mezzo il core accora. In questo tempo il conte Ugolino 85 morir si vide coi figliuol di fame, che fu sí grande e nobil cittadino. E cominciâr le parti tristi e grame in Fiorenza e in Pistoia, Bianchi e Neri, e venne Carlo ad acquistar reame; 90 ma trovossi ingannato del pensieri.