Quid novi?

Il Dittamondo (3-01)


Il Dittamonadodi Fazio degli UbertiLIBRO TERZOCAPITOLO IOmai è tempo ch’io drizzi lo stilea trattar de’ paesi, ch’io cercai,ciascuna novitá o cara o vile. Solino in prima e io apresso entrai per quella fabbricata e lunga strada 5 che fa parlare di Vergilio assai. Di dietro ci lasciammo la contrada, dove Saturno ammaestrò a noi piantar la vigna e seminar la biada. Vidi dove Catillo visse, poi 10 che lasciò Tebe, e ne la cittá fui che a la balia d’Enea dá fama ancoi. Vidi Vesuvio, che dá lume altrui, e vidi i bagni antichi, buoni e sani, dove annegò Baia e gli ostier sui. 15 Soavi colli e piacevoli piani noi passammo e trovammo molte selvi di pomi ranci e d’altri frutti strani. E, sempre andando, spiavamo se ’l vi fosse pur da notare cosa alcuna 20 d’uccelli, di serpenti e d’altre belvi. Vidi quel monte, ove stette digiuna Circes piú volte a far suoi incantamenti al lume de le stelle e de la luna. E vidi quelli, onde parlan le genti, 25 che la sorore visitando andava, l’erbe cogliendo a far soavi unguenti. Passai la Mora, che ’l paese lava, la Verde, e non ci fu la terra ascosa dove Medea, morto il figliuolo, stava. 30 Pur dietro a la mia guida, che non posa, andai tanto, che ad Aversa giunsi, dove trovai la gente dolorosa. E poi che con alcun lá mi congiunsi e seppi la cagion del disconforto, 35 forte nel cuor per la pietá compunsi. Detto mi fu che un giovinetto accorto, bello e gentil, ch’aspettava il reame, a tradimento v’era stato morto. Non credo che mai fosse in gente brame 40 aguzza per disdegno, come quella mostrava a la vendetta d’aver fame. La gran cittade lacrimosa e bella, la qual fu detta giá Partenopea, sconsolata piangea per la novella. 45 Quivi l’infamia di Caserta rea e de li Infragnipani e de la Cerra per questa crudeltá morta parea. Io fui nel castel, che, se non erra, la gente quivi un uovo ci mostraro, 50 ch’esso rompendo, il muro andrebbe a terra. Tanto è il paese piacevole e caro di belle donne e d’altra leggiadria, che piú che non dovea vi fei riparo. Apresso questo, prendemmo la via 55 cercando Puglia e Terra di lavoro, le novitá notando, ch’io udia. In Arpi e in Benevento fei dimoro per riverenza a Diomedes, il quale porta ancor fama del principio loro. 60 Apuglia è detta, ché ’l caldo v’è tale, che la terra vi perde alcuna volta la sua vertú e fruttifica male. E come quel che va e sempre ascolta, seguitava, orecchiando, il mio disio, 65 che prese in vèr Salerno la sua volta. Siler, Vulturno e uno e altro rio passammo e vidi novitá, ch’a dire lascio, per non far lungo il parlar mio. Apresso questo, ci mettemmo a ire quasi tra il levante e ’l mezzogiorno, ognora dimandando per udire. Cosí volgemmo a la punta del corno che guarda la Cicilia, dov’è Reggio, cercando la Calavra poi d’intorno. 75 Vidi Tietta, dove giá fu il seggio de la madre d’Achilles e di questo per testimon quei del paese cheggio. Vidi lá dove ancora è manifesto che le cicale diventaron mute, 80 perché Ercules dal suon non fosse desto. Vidi la boa con le sanne acute, che la bufola allatta e di tai fiere non son di qua fra noi altre vedute. Passato avea dove fun le schiere 85 ardite d’Annibal di sopra Canni, quando cadde di Roma il gran podere. Ma non cercammo senza molti affanni Isquillaci e Taranto e Brandizio, perché v’èn malandrin da tutti inganni. 90 In quella parte ci fu dato indizio che Bari v’era presso, ond’io divoto di Nicolao visitai l’ospizio. Similemente, quando ci fu noto monte Galganeo, lá dov’è Sant’Agnolo, 95 in fino a lui non mi parve ire in vôto. Con lo studio che fa la tela il ragnolo, ci studiavam per quel cammino alpestro e passavam or questo or quel rigagnolo. Noi andavam, tra ponente e maestro, 100 lungo ’l mare Adriano, in verso il Tronto, lasciando Abruzzo e ’l suo cammin silvestro. Entrati ne la Marca, com’io conto, io vidi Scariotto, onde fu Giuda, secondo il dir d’alcun, di cui fui conto. 105La fama qui non vo’ rimanga nuda del monte di Pilato, dov’è il lago che si guarda la state a muda a muda, però che qual s’intende in Simon mago per sagrare il suo libro lá su monta, 110 ond’è tempesta poi con grande smago, secondo che per quei di lá si conta.