Quid novi?

Rime inedite del 500 (XXVIII)


Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)XXVIII[Di Orazio Vecchi]Come suol ch'alla patria fa ritornoDal mondo nuovo, o dalle fortunateIsole, che gran turba ha sempre intorno;Questo è quell'altro i passi e le pedateSceglion di lui che son pur curiosiD'udir novelle di quelle contrate.A tal son' io, così son qui bramosiD'intendere ch'andò, chi ste', chi venneCostì alle nozze di sì illustri sposi.Pensate or voi se tutto quel ch'avvenneDegno d'historia il possi dir con voceS'allo scriver non bastan mille penne.Stanno per pormi, s'io nol dico, in croce;Voglion saper de l'opra il gran lavoroE gran disio per ciò gli sprona e coce;Tal ch'io sono nel mezzo di costoroChé del mio ragionar pendono intentiCome parlasse il papa in concistoroTutti gli rendo docili et attentiE talor dò risposta a più d'un paioChe m'intronan' l'orecchie d'argomenti.Fatti lingua, dico io, fatti d'acciaioCh'a ragionar de' vostri chiari gestiBisogna ch'io mi stracci e cavi il saio.Né pur avvien ch'un'ora mai m'arrestaPer far palese a chi creder non voleQuanto ogn'altro signor dopo voi resti.Descrivo prima la superba mole,Il regal edificio in varie forme,Ornato sì ch'ognun strabiliar suole.Ché il Castellan non teme anco se dormeChi possi a quella Rocca insidia farsi,Che non si temon del nemico l'orme.Né gl'uomini dovranno essere scarsiAl creder mio, se col tempo predicoSassuol potrà a ogni città agguagliarsi.Io son, signor, per dirla in grand'intrico,S'a tutti bado, nondimen m'ingrassoDi voi parlando come un beccafico.E poi soggiungo che cotesto Sasso(Gran miracol lor par) produce in copiaTale che ciaschedun può andar a spasso.Egli è pur ver quando vi fu, ma inopiaV'è pur formento quivi, che trarebbeLa fame, ho quasi detto, all'Etiopia.E chi già mai vin più eccellente bebbe,Che scaturiscon da quei santi colli,Chi non dice com'io pazzo sarebbe.Che malvagie! Che Greco! Che fan molliGli animi ben robusti e questi ponnoChi un sorso sol ne gusta far satolli.Dirò di me che più non trovo il sonnoDa che son privo di sì buon liquore,Dico da senno, se mi sete donno.Domandatelo al fido servitoreDel vostro paesano, che mi feceBerne di quel che tocca il vivo core.È ver ch'un ne gustai come la pece,Che mi de' il canovaio, anzi Caronte,Che chi ne trinca le budella rece.Che diavol d'uomo è quel, che brusca fronte,Che zeffo è il suo, che razza d'uom salvatico!Possi egli pur volar come Fetonte.È forza pur ch'io 'l dica: ei non è pratico,Vuo' ch'egli sappia la mia complessione,Né darmi il vin fumoso, o troppo acquatico.Pregalo pur, se sai, fagli un sermone,Dagli anco del Messer, digli che MarcoMi vuol gran bene, in fin non vuol canzone.Ma ritorniamo ove lasciai, al varcoDico che a questi vado descrivendoIl tutto, benché a me sia troppo carco.L'ordine poi vi espongo arcistupendoCh'era diviso a varï della terra,E di tutti gli uffici il conto rendo.D'uomini mostro il numero da guerraChe su la nobil piazza in ordinanzaFer' col rimbombo scuotere la terra.Militia eletta, che il gran Xerse avanzaDi numer no, ma ben di disciplina,Di coraggio, di fede e di baldanza.Su le muraglie poi fer' gran ruinaMuschette, artigliarie, schioppi e bombardeTosto che la signora fu vicina.Di mille e mille lumi avampa et ardeLa terra, che 'l troiano incendiò pare,Fra le picche, le lancie e l'alabarde.Oh che vista! soggiungo, al vagheggiareTante e varie pitture, che nel chiaroPareano a' riguardanti opre sì rare.E dame e cavaglier venìano a paro:Prima molti cavalli alla leggiera,Ben in arnese innanzi a questi andàro.Così, dopo una lunga e nobil schiera,Apparve Clelia, e sotto a' trionfaliArchi passò di tanti onori altèra.I motti arguti e gravi quanti e quali,Ch'erano su i proverbi, io non potreiDir le prefisse cose a questi tali;Ma bene il contenuto e dei trofeiE de l'imprese dissegli i concettiChe sol nel senso pago gli rendei.Facil mi fu poi dirgli i varî effettiDi trombe, squille, tamburi e concertiMusici che s'udian con dolci affetti.Con parole ch'espressero i gran' mertiDi sì gran donna e le sue lodi altereDa poeti di nome e d'arte esperti.Ma quel che fu mirabile al vedereEra coperto il ciel di tante stelleChe sembravan per dio tante lumiere.E ragion che a mirare opre sì belleNon pur occhio mortal vi sia concorso,Ma mille occhi del ciel, mille fiammelle.Qui forte mi riprese, il signor Borso:Che naso hai d'ogni cosa! Perché troppoIo poeteggi essendo in ciel trascorso.Che basta ben s'io vado di galoppoSenza volare, non avendo io l'aliPerò il mio ragionar strinsi in un groppo.E diedi a dirmi cose generaliCome di sontuosi e gran convitiChe ai Luculli ed ai Gracchi andàro eguali.Che i paggi e gli scudieri eran vestitiCon nobili livree, et altri ancora,Staffier, guattari, cuochi eran forbiti.E dopo cena senza altra dimoraSi stava in suono, in canto, in danza e in balloFin che spuntasse fuor quasi l'aurora.Dei prodi cavaglier e dei cavalliGli dissi ancor, che ponno star a provaCo' Scipï in giostra, o pur con gl'Annibali.E par che nell'Iddea mi si rinnoviD'Amadio quella lunga diceriaDi tanti campioni a far la prova.Ma troppo lungo inver' stato sarìa,Se tutti avessi detto i colpi fieriCh'eran fatti con core e maestria.De' Barbari gli dissi più leggieriChe cervi al corso, ch'emuli di gloriaPrestamente volar fra quei sentieri.La scena alfin dipinsi ch'un'istoriaMerita certo, e lor mostrai in fattoL'Arcadia vera degna di memoria.L'abete, il faggio, il pin fur' messi in attoE tanti altri arboscelli, e tanti riviE frutti natural al gusto, al tatto.Si vider colti allor i gigli vivi,E tante varietà d'erbe e di fiori,E armenti che pareano fuggitivi.Dai lauri l'ombre avean dai mirti odoriSpecchi di fiumi e canti d'augellettiScherzi di pesci e strilli di pastori.Di belle ninfe i vezzosetti aspettiE di bifolchi agli abiti e a' sembianti,Un tempio solitario, in rozzi tetti.Non v'eran l'aure estive a noi spiranti(Questa mancò), ma delle donne il fiatoDolce esalava fuor fra i circostanti.V'era il Vrato istrïon, così nomato,Nacque per recitar, e credo certoCh'a Plauto et a Terenzio abbia insegnato.È di bianca lanugine copertoCon barba lunga al petto e sembra a puntoUn satiro che vada pel deserto.Ride, se torna ben, piange in un puntoSi fa tutto orgoglioso e a un tempo istessoUmil diviene a i gesti ha 'l saper giunto.Due ninfe ha seco, e se le tiene appressoIn custodia, cioè gli serba il fruttoChe a Diana pudica hanno promesso.Hanno più d'un amante arso e distrutto,Che in penitenza il padre Pan LinceoQuattro giorni le tenne a pane asciutto.Degl'intermedii poi stupir gli fèo,Che il carro della luce era guidatoDa Fetonte, che in Po tosto cadèo;E del miser garzon mal consigliatoPiansero le sorelle al miser casoCon un canto che i sassi avrìa spezzato.Sorse dal palco il monte di ParnasoCol Pegaso, e la fonte d'EliconaChe a tutti di stupor s'affilò il naso.Le Muse e Apol' facean lieta corona;Ma con dolce concerto quei di dentroIn lor vece ingannar' ogni persona.V'era una nube, che dal cielo al centroScese tre volte, o quattro, in varï casi,Notate più, ch'ora nel bello io entro.Da l'arte furon tutti persuasiChe pregna nube fosse e d'acqua piena,E l'architetto istesso il credea quasi.Ne l'ultimo apparir si fe' sereno,A poco, a poco l'aria e il ciel s'aperseMostrando ciascun dio letizia piena.Nove armonie là sù s'udìan diverseE stavan per l'udito e per la vistaLe folte genti nel stupor immerse.E a quella gloria che pur là s'acquistaPer merto e per virtù fu richiamataQuella ch'è Pia e così bella in vista.Vieni di gigli d'oro incoronata,Vieni, gloria del Tebro, anzi del cieloVien pur, che la tua sede è qui parata.Questo invito con santo e puro zeloDa cinque ninfe con bel canto s'ode,Che fuor de' boschi uscir' con aureo telo.Molte altre cose degne di gran lodeLasciai, che nel più bel della leggendaLa campana di terza ecco che s'ode.A questo suon tralascio ogni faccenda,Che suono di leuto, o d'epicordo,Non v'è che più di questo il cor m'accenda.È pur gran cosa quando mi ricordoChe questa campanella mi nutriscePiù che ginepro non fa 'l merlo, o 'l tordo.E chi sprezza il suo suono impoverisce,Che del poco un'assai si fa pian pianoS'or oggi, e s'or domane altri fallisce.E l'impetrar perdono è tutto vano,Ché a nissuno già mai si fa ristoro,Anzi se gli fa un Vespro Siciliano.Non Posso poi contendere con loroChe sfodrano il Concilio e 'l ViguerioChe toglie il pane a chi non serve il coro.E s'io facessi un furto, o un adulterio,Più facilmente spararei perdono;Ma questo è solo ingiusto desiderio.E ch'ho da far nel mal? S'io parangonoLo stato mio con quei di manco stimaTrovo che Dio mi fa troppo del dono.Tanto, o misero l'uom quanto si stima,(Dice colui) non starò già per questoDi non cantar e scriver prosa e rima.Ma udite ben, signor, vi fo un protesto,Che non badiate a quel ch'io scrivo in carta,Ché a' vostri cenni sarò sempre presto.Ch'io vi son servo già la fama è sparta,Son qui a sua posta, né mi cur che suoniLa campana di terza, anco di quarta.Perché, s'altri s'acquista de' patroni,Fruttano più con l'aura del favoreChe le stentate distributïoni.Massime voi (dico per Dio) signore,Che mai non comportasti ch'alcun servoTolto gli fosse il pan del suo sudore.Io per me il so che la memoria servoNel seno, e lo san quei che costì furoA servirvi, e chi il niega è un uom protervo.Oh!, dice il Paesan', che troppo curoQualche utile che vien da questa chierca;Ma s'inganna per certo, ch'io vel giuro:Io ben il dovrei far, ché lo ricercaIl carico degli anni che io mi trovo,E sin qui la fortuna m'è noverca.Tre croci ho su la schiena, e una ne covoChe a partorir non starà un lustro intero,E pur un soldo in borsa non mi trovo.Né mai n'havrò, se non fo come Homero,Che l'opre sue vendeva a suon di liraPer con star di danar sempre leggiero.Qui par che il paesan meco s'adira,Dicendo: e dove spendi tanta entrataChe 'l tuo canonicato ogn'anno tira?Io l' dirò, facciam pur buona derrataCentocinquanta scudi ho di guadagno,E in capo a l'anno io devo la corata.Chi, mi risponderà qui il buon compagno,Assotiglia la spesa soffre e stenta,Digiuna per piacer, questo è sparagno.Oh questo no, e dirò ch'ogniun' senta;Vengan(o) pur le petecchie e 'l mal franciosoA chi per arricchir miser diventa.Prodigo non son già, non son goloso,E 'l conto vi farò per far vederviCh'io non m'avanzo un bagatin' tignoso.In primis vuo' una fante che mi servi,Quest'è il dovere, e quivi vuol salarioE un paggio che l'ufficio fa de' servi.E poi v'è sempre un sopranumerario,E ogn'un senza pensier mangia e tracanna,Ché il pane non si chiude nell'armario.Ho casa a fitto buona, e ogni capanna(Si sa pur dov'è grosso, e buon pressidio)Paga un occhio, e 'l terren si vende a spanna.Il vitto mio è honesto, e non invidioA nissun cittadin, che per havereDel buono anch'io farei un'homicidio.Vuo' su la mensa mia sempre vedereVittella, e se si può qualche augel grasso,Tosto come cominciano apparere.E talor anco vado passo passoSpolpando un buon cappone, o pollastrelliPer ogni gran denar mai non li lasso.Da magro vuo' de fiumi o de ruscelliE pesci, o pescarie, che vanno in stampaE spesso le Morene, o Tarantelli.Due fuochi voglio, e godo che la vampaIn alto saglia in camera, o in cucina,Che una massa di legna sempre avampa.Usano gli Spagnoli ogni mattinaAl sol scaldarsi longo le muraglie;Ma il VECCHI a questa strada non camina.Et a' suoi tempi d'altre vittovaglieProcuro, e viver voglio da par mio,E lasciamo stentar alle gentaglie.Di pernici, o fagian non mi cur' io,Né pavoni e hortolani, ch'io so beneChe questo si conviene a Marco Pio.Ogn'anno vuo' che sian le botti piene,E sopra tutto s'è possibil, voglioDel vin che tutto l'anno il dolce tiene.Di tutte queste cose nulla i' coglio,E conforme al mio grado par più giustoE onesto se talor vestir mi soglioQuando un paio di calze e quando un busto;E s'io voglio vestirmi questo verno,Mezza l'entrata spendo a conto giusto.Ho una pelliccia che più non discernoSe sia volpe, o castron, varo, od agnello:Contende fra l'antico e fra 'l moderno;Ma par che si sostenta col duello,Che di martore sia; poi ch'io la veggioMartirizzata a colpi di flagello.Compro ogni giorno libri, e quel ch'è peggioMi vuol un Brevïario alla moderna,Se no' ch'io fo sclamar tutto Correggio.E dove lascio la pietà paterna?Qualche aiuto vuol pur fra l'anno almancoChe spense già degli occhi la lucerna.Sempre mi trovo poi (dio grazia) al fiancoForestier' che mi mangiano le coste,Né d'animo per questo io vengo manco.Oh fate il conto un poco, o messer oste,Dico a voi, paesan', s'al tutto bastaQuest'entratella, e s'al dover m'accoste.Il mal conosco al mover della testa(Disse il Falloppia) e 'l fisico provvedeLa febbre, s'a l'infermo il polso tasta.Hor per troncar alle mie ciancie il piedeQuesta vita qual sia mi godo in pace,Ché chi vive contento assai possiede.Mirate il Braida, che sogghigna e tace,Come che dica quel teston sì sodo:L'umor del VECCHI col mio si conface.Così al mio ragionar ficcando il chiodoLe man vi bacio, e alla signora assai,Piegando il ciel per così illustre nodo.Non mi offro più, ché già mi vi donai.Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)