Quid novi?

Rime inedite del 500 (XXXVII)


Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)XXXVII[Di Pier Giovanni Silvestri]A lo Spaventato Intronato.Quanto più veggio e provo a la giornata,Spaventato, e più guardo e pongo menteA questa mia grandezza smisurata,Più mi par disonesta e impertinente,E ch'ella sia vergogna e vituperoDi me e di qualch'altro mio parente. Fu poca discrezione, a dire il vero, Di mio padre, mia madre, o di natura, O se d'altro istrumento fu mestiero, E si versoron tutti oltra misura A cavar sì di sesto e proporzione, Com'hanno fatto, una lor creatura, Però, s'io me ne doglio, io ho ragione, Poi ch'io mi trovo, per lor grazia, tale Ch'io non posso capir fra le persone. Beato voi, che nasceste cotale Da ficcarvi per tutto, e con ognuno E sete a mille vostri pari uguale. Anch'io fui già dei vostri, e da ciascuno Ero veduto bene, anzi braccato; Potete farne fede voi per uno. Hoggi da molti a pena son musato E da molti per scherno, o meraviglia Come cosa trasforme riguardato. E nel guardarmi in alto alzon' le ciglia Molti, che basterebbe a mio parere S'io fussi alto, o lontan, quattro o sei miglia. Voglion' hor questo, hor quell'altro sapere Cose che per la noia e per l'affanno Non ci posso risponder, né tacere. Domanda un (verbi gratia): quanto panno Più di lui metto a far calze e mantello E quel che questo importa in capo a l'anno. L'altro cercando mi rompe il cervello Quanti de la mia stirpe ha conosciuto, E se più m'assomiglio a questo, o a quello. E tal, che mille volte m'ha veduto, Che s'io ne sto lontan sol per un mese Vuole, a dispetto mio, ch'io sia cresciuto. Ognun fa dall'arguto alle mie spese, E mi trafigge con qualche bel detto, E se ne ride poi, tanto è scortese. Mi richieggono in fin, s'io son nel letto, Non essend' ei capace ov'io raggiri Tutto quel che m'avanza, o dove io 'l metto. Non val poi ch'io sbadigli, o ch'io sospiri, Che, se non hanno in man la cosa chiara Indarno è ch'io stia queto, o ch'io m'adiri. Che bordello è talor! Che quasi a gara Alcun mi sta d'attorno e mi ringrazia Ch'io gli serva per ombra o per ripara. Altri n'è che più accorto, e con più grazia Non vorrebbe, mi dice, essermi a canto Per assai s'io cadesse per disgrazia: Però si scosta, e mi procura intanto Dal capo ai piedi, e vuol sapere aponto S'io sono a peso, o pur a canna un tanto. Di queste e simil cose ch'io non conto Che mi fan venir meno, anzi morire Mi bisogna tenere e render conto Parvi poca faccenda avere a dire A piazza e con ciascun dei fatti miei Il passato, il presente e l'avvenire. Li dirò 'l ver, qualche volta io vorrei Poterci far quistion con onor mio, Ch'io ne farei tal giorno quattro o sei. Dove per non parer scempio, o restìo E di far troppo il savio e 'l continente Se ben ridon' di me, ne rido anch'io. E da rider di questo è veramente Ch'appresso a quel ch'io ne potrei contare Tutto quel ch'io n'ho detto è poco o niente. Han per grazia i par' miei particolare Che gli altri uomin' piccini, o comunali Non vorrebber mai seco aver da fare, Perché vedendo sì sconci animali Fan subito pensier d'aver trovati Costum' e modi alla statura uguali. Però gli han per disutili e mal' nati E come son del corpo ognun li stima Lunghi nell'altre cose e trascurati. E che vicino a caso e non sia prima Oggi ch'a pena si ricordin d'ieri Di doman non bisogna fare stima. Che in tutti gli esercizi è lor mestieri Sien agiati, sozopra, e disadatti Fin' a quel ch'ognun fa sì volentieri. Confesson ben che sarebber molt'atti A servir per iscala, o per uncino, O per altri strumenti così fatti. Dicon fin che persona han da facchino. Anzi costumi, poi che così spesso Usati son d'andare a capo chino. Aggiungon altre cose a queste apresso Che, se dicono il vero, io posso or' ora A posta mia gittarmi entro 'n un cesso È tra gli altri un difetto che m'accora Per un testo che prova essere il giusto Che gli habbin tutti un poco senno ancora. Perché troppo crescendo e gamba e busto La natura, che sente essere offesa, Fa che ne perde l'intelletto, il gusto. Or questo sì che più ch'altro mi pesa: Che gli abbia più di tutte l'altre cose Che gli dan tutto 'l dì disagio e spesa. E del miglior di che Dio ne compose Sien' da lui stati in buona parte privi Quando negli altri abastanza ne pose. Io non posso pensare onde derivi Se non perch'egli sia lor poco amico E gli dispiaccia a pena che siam' vivi. Par che riserbi ancor' lo sdegno antico Ch'egli ebbe contra quei primi giganti Che l'andaro assalir come nemico. Però gli ha in odio, e porge a tutti quanti Questi ch'io dico et altri impedimenti, Acciò non sien mai più tanto arroganti. Trovo che tutti gli altri mancamenti Di persona, di robba e di cervello Qualche remedio han trovato le genti, E quel ch'è troppo, o poco, o brutto, o fello Per ispazio di tempo, ingegno et arte Fan parer più e meno, e buono, e bello. Ogni mal' fatta, ogni storpiata parte Si ritorna, si copre, e si rassetta Se non in tutto, pure almeno in parte. Sol questa mia disgrazia maledetta, Come più sconcia ancor dell'altre tutte Medicina non pate, né ricetta. Però dispiacque già fino a Margutte, Nel qual, come sapete, fu congiunto Infinite tristitie, e le più brutte. Trascorse in tutte e non le curò punto Nel crescer solo ebbe ritenitiva E si pentì quand'al mezzo fu giunto. S'anch'io trovato avessi questa stiva, Voi vi potete imaginar che questo Che m'intervene non m'interveniva. E se 'l dicesse il mondo: egli era onesto, Se si providde a tant'altre sciagure Ch'a quest'ancor si ritrovassi sesto. E mettiam caso, e si poteva pure Aggiustar membra et ossa di sua mano Come si fanno i pesi e le misure, O com'han privilegio el vino e 'l grano Di cambiare alle volte stanza e vaso Tramutar' uno in un altro cristiano. Dico cristian, ma non lo dico a caso; Fussi pur Turco, o Saracino almeno Ch'io per un n'avrei fatto poco caso. Pur ch'io fussi a misura un palmo meno, Che questo è che m'importa per adesso E basterebbe a consolarmi a pieno. Odo pur d'altri, a chi fu già concesso (Che si concedesse or volesse Dio) Di mutar ben due volte e forma e sesso. Quante donne son' oggi, e conosch'io Che del suo volentier farìen baratto A chi per grazia avrei di darle il mio. Dite or voi ch'io trasandi e ch'io sia matto Ch'anch'io dir voglio, e in carta ve lo spiego, Che di me, fare' oggi ogni contratto. E renunzio me stesso, io non vel nego, E mi porto odio così capitale Che manca poco più ch'io non m'aniego. E altro impaccio questo et altro male Che mettersi e cavare or dentro, or fuore, Un par di calze che ti faccin male. Altro che trar di capo a tutte l'ore Una berretta, o aver nome Giovanni, Di che fece alcun già tanto romore. Io non so ritrovar quei loro affanni E pur anch'io portato ho brache ognora E berretta e quel nome già tant'anni. Ben per averne due credo talora Che fu buona cagion ch'io crebbi poi Doppio così della persona ancora. Però consiglio alle mie spese voi E ciascun che figliuoli aver disegna Che con un nome sol battezzi i suoi; Perché messer Domenico si sdegna Con chi vuoi più che non se li perviene; E come ha fatto me, li nota e segna. Or s'io v'ho detto più che non conviene, Ditemi voi ch'io sia poco discreto E troppo lungo ancor che mi si viene. Purché quel ch'io v'ho detto stia segreto, Perché il mio primo e principale intento Fu, s'io ciarlavo, almen voi stesse cheto. E mentre io mi dispero e mi lamento, Rallegratevi voi, che sete privo Di tutto quel ch'io provo ognora e sento,E sentirò perfin ch'io sarò vivo.Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)