Quid novi?

Rime inedite del 500 (XXXIX-3)


Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)[27 Di Latino Latini]Alla signora Marchesa di Mortara quando la rividdi perche' già quindici anni non l'avevo veduta.La suprema beltà che in voi fiorivaNella più fresca e più tenera etade,Congiunta con mirabile onestadeVeggio ora in voi più che mai verde e viva. Mercè del gran splendor che dentro arrivaGrazia, onestà, bellezza e majestadeE alluma l'alma, onde per ampie stradeNell'amata sua spoglia esce e deriva. Ben si può dir che a sì gradita e bellaVirtù che a pochi il ciel largo destinaNon si dovea men onorato albergo. Ond'io per voi, come mia fida stella,Mirando la sembianza alta e divinaOgni mia speme a fin più felice ergo.[28 Di Latino Latini]Né fra' Greci Platon seppe mai tanto,Né di Roma l'oracol Cicerone,Né fra gl'Ebrei quel saggio SalomoneChe lodò più che 'l riso, il mesto pianto, Quanto sapete voi, prudente e santoRiformatore della religione,Che d'esser tale con giusta ragionePotete sovra ognun sol darvi il vanto. Poscia che contro il precetto divinoChe n'astringe ad amar come fratelliL'un l'altro, e figli dell'eterno padre Ardite d'insegnarci che 'l LatinoCosa commune aver non de' con quelliA cui la Duera, o la Garonna è madre.[29 Di Latino Latini]Chi sarà mai, signor, che ponga manoAll'osservanza di tua santa legge,Che per salute dell'amata greggeDesti, e per fren dell'appetito umano, Se 'l Tosco, Umbro e Latino, e se 'l Romano,Che 'l vero successor di Pietro regge,E con pietosa verga ognor correggePer barbaro terrà 'l Gallo e l'Ispano? Scancellasti col sangue tuo, signore,L'orrendo scritto, ch'all'empio tirannoNe fe' soggetti dal peccar d'Adamo. A fin che l'un con l'altro, per amoreCosì stessem' uniti col dolce amoCome in un corpo molte membra stanno.[30 Di Latino Latini]Indarno, signor mio, scendesti in terraPer farne tutti eredi del tuo regno,Vincendo col morir su l'aspro legnoL'empio tiranno nostro in giusta guerra, E col dare a san Pietro, ond'apre e serraDel ciel la porta non per vano segno;Ma per sicuro indubitato pegnoLe sante chiavi con che mai non erra. Se sarà mai vero che al LatinoLecito sia per barbaro e nemicoTener Gallo, Tedesco, Inglese, o Ispano, E che contro il precetto tuo divinoNon faccia chi non abbia per amicoCome sé stesso ciaschedun cristiano.[31 Di Latino Latini]Indarno, signor mio, squarciasti il veloDel già famoso tempio con tua morte,E indarno dissipasti l'alta e forteMaceria per aprirne il passo al cielo. E 'ndarno acceso d'amoroso zeloPatisti in questa vita ogn'altra sorte,Seminando per vie lunghe e distorteLa nuova legge del santo evangelo; Poiché nato è Dottor, che con altieroCiglio c'insegni esser vano il seguireL'esempio scritto del Sammaritano. Anzi di proibirci ha preso ardireL'amico conversar con uomo 'Spano,Ch'ei per barbaro tiene e per straniero.[32 Di Latino Latini]Da che 'l grande Appennin le genti straneScurò da questa chiara e bella parte,Quelle doti ch'agli altri il ciel comparteTutte in lei giunse, compite e sovrane. Vinser il mondo già l'armi RomaneOnd'illustri lasciar' mille e più carte;Successe poi alla città di MarteQuella, che fa stupir le menti umane. Chiudesi il mare, ove 'l pie' pone e spandeChe la riga, circonda e la difende,E reverente a lei senz'onda giace. Quivi è quel secol sempre, che le ghiandeVider già prima, et hor Venezia rende,Cui senza fin die' Giove imperio e pace.[33 Di Latino Latini]La più salda colonna, e la maggiore,Che sostenesse l'edificio intero,Che fondò Cristo e consegnollo a Piero,È rotta, e seco è spento il bel valore. Piangene Roma, e mostrarà doloreFin ch'in mar corra il Tebro, e che l'altèroTarpèo si nomi, o mentre il santo imperoConservarà da Cristo il preso onore. Mille e mille anni volgeransi pieniPria che di morte si ristauri tantoDanno, che col crudel colpo n'ha fatto. Degno fu delle chiavi e del gran manto,Già il ciel non volle, invido ai nostri beni,Hor le nemiche parche se l'han ratto.[34 Di Latino Latini]Quando mi volto tutto in quella parteDove l'immensa tua bontà riluceMercè del raggio dell'eterna luceCh'agli occhi ciechi tua bontà comparte, S'infiamma sì di lei la fragil parteCh'al lungo errar mi fu ministra e duce,Che d'ardenti sospir, ch'ognor produce,E di lagrime al duol faccio ampia parte. Poscia mirando indietro il gran periglio,A cui lontan da te fui sì vicinoRaddoppio il pianto e con temenza grido: Pietoso padre, che all'unico figlioPer me non perdonasti, e 'n cui mi fido,Volgi i miei passi al tuo dritto camino.[35 Di Latino Latini]Che fai, alma, che pensi? Avrà mai treguaL'avida sete delle furtive acque,Che già gran tempo in sul fiorir si nacque,O fia ch'all'ultim'ora ancor si segua? Non vedi che per essa si dileguaOgni onesto pensier, che pria ti piacque,Quando agli orecchi del tuo cuor non tacqueQuella ch'a cori angelici n'adegua? Che fia d'onde di te gravoso pondoPoscia che per saziar l'ingorda seteAssai fiume non t'è stagno, o palude? Porrai forte la bocca al mar profondo,Ove amo mai non penetrò, né rete,E che la terra in te raccoglie e chiude?[36 Di Latino Latini]Quando ai bei raggi dell'eterno lumeAlzerai gli occhi, alma smarrita, e quandoDel lungo error accorta, lacrimandoSarai breve ruscel, non ch'ampio fiume? E quando dal tiranno empio costumeIl pie' veloce indietro ritirandoDarai pur finalmente un giorno bandoAl pigro sonno, all'ozïose piume? Destati, neghittosa, anzi che l'ombraDella perpetua notte agli occhi veteIl mai più riveder l'amata luce; Ch'aver non può la cieca infelice ombraDopo l'eterno oblìo del freddo LetePer addietro tornar ministra, o duce.[37 Di Latino Latini]L'ardita lupa, che da' crudi artigliDell'aquila rapace ha scosso il dorso,E rotto 'l duro e insopportabil morsoChe la tenea fra tanti perigli. Tutta sanguigna, e lieta ai cari figliDicea rivolta: hor'è pur tronco il corsoDelle miserie nostre, or' che soccorsoNe vien' sì fido dagli aurati gigli. Guardate come dagli acuti et empiMorsi ne tolgon dell'augel' nemicoTante ferite nel mio corpo impresse. Ergete dunque a questi altari e tempi,Ove scritto si legga: al grande EnricoLiberator delle cittadi oppresse.[38 Di Latino Latini]Ne la venuta di Monsignor di Potentia a monsignor Tommaso Sperandio da Fano.Prendiam dell'odorate e pure frondePer far con riverenza al sacro altareSolenne festa; poiché grazie rareL'alto signor ai nostri voti infonde. Falde di vaghi fior d'ambe le spondePendano, e sovra prezïose e careSpoglie, che dotte mani, e non avare,Abbian tessuto e d'arte, e d'or feconde. Quivi stendendo insieme al ciel le palmeCantiam lode al fattor, ch'oggi ne rendaIn patria salvo il nostro car' signore. E tu dalla cui man benigna pendeOgni ben, longo tempo in tuo favoreLo serba a glorïose, eterne palme.[39 Di Latino Latini]A monsignor Maffei per monsignor mio. Risposta.Un Semiviterbese (un) ArcipretaNella guardia degli orti molto dotto,Monsignor mio, ha tutta Roma indottoA tenerlo per vero e gran profeta. Ei scrisse già, che la carota acquetaDolor di corpo senza mosto cottoPrendendone unce sedici, o diciottoPer dietro pasto, a guisa di cupetta. E che da questa gli animi egri e stanchiDallo spettar riceve(v)a più sostanzaChe d'infinito numer(o) di baiocchi.Né fu mai vero che Germania, o FranzaNe mandasse a Tiberio, anzi balocchiSon stati questi chiosator sì franchi.Se non avete granchiPigliatene ad ogn'or, ché in questa vitaFa i sani ella gioir, gl' infermi aìta.Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)