Quid novi?

Il Dittamondo (3-14)


Il Dittamondodi Fazio degli UbertiLIBRO TERZOCAPITOLO XIVSempre parlando, lungo la marinaandavam per le parti di Peloroin fin che fummo lá dov’è Messina. Dubbio non è, e fama n’è tra loro, che da Mesen, che fu d’Enea trombetta, 5 lo nome prese, al fin del suo lavoro. "Qui puoi veder, disse Solin, la stretta lá dove Silla si converse in mostro e puoi udire i mugghi che vi getta. E guarda come col dito ti mostro: 10 vedi Reggio in Calavra, lo qual mira con diece miglia e men dal lato nostro. Ma vienne omai, ch’altro disio mi tira e fa che spesso muovi la pupilla al dolce e bel paese che qui gira. 15 Etna vedi, che il fuoco sfavilla per due bocche, con mugghi, in su la vetta, sí che vi fa tremar presso ogni villa. E, con tutta la fiamma che fuor getta, veder si può canuto in tutto l’anno, 20 sí come un vecchio fuor di sua senetta. Quei di Catania in contro al fuoco vanno col corpo di Colei, che per dolore vinta non fu da Quinzian tiranno". Nel prato fummo, dove fior da fiore Proserpina scegliea, quando Pluto subitamente ne la trasse fore. E poi che ’l lago fu per noi veduto de’ cigni, ci traemmo a Siracusa per quel cammin che ci parea piú tuto. 30 Questa cittade per antico è usa d’essere prince e donna di ciascuna altra, che veggi in questa isola chiusa. Dedalo fabbro, dopo la fortuna acerba del figliuol, qui si governa 35 con altri Greci che seco rauna. Miracol pare a uom, che chiar dicerna, che qui udii che mai giorno non passa che ’l sol non apra chiara sua lucerna. Due monti vidi, de’ qua’ ciascun passa 40 gli altri d’altezza, Etna ed Erice; a Venus l’un, l’altro a Vulcan si lassa. E vidi ancor, cercando le pendice, Nebroden e Nettunio alti tanto, che due mar veggon, per quel che si dice. 45 Passato ca’ Passaro e volti al canto di Pachino, vedemmo andare a frotta tonni per mare, che parea un incanto. Passato Terranova e le sue grotta, e Gergenta, puosi a l’Africa cura, 50 che guarda in vèr Libeo e parne ghiotta. Dubbio non è che per la sepoltura di Sibilla, che fu sí chiara e vera, al castel di Libeo la fama dura. Ne l’isola dir posso che Cerera 55 sí per li cieli e sí per gli alimenti sí come donna, quanto altrove, impera. Uomini sottili ed intendenti v’ingenera natura e temperati con bei costumi e con buoni argomenti; 60 volti di donne chiari e dilicati, con gli occhi vaghi quanto a Venus piace, onesti e ladri in vista, se li guati. Poco par posto il reame a aver pace per le male confine e per la gente 65 aveniticcia, che dentro vi giace. Maraviglia mi parve, a poner mente, lo sale agrigentin fonder nel foco e in acqua convertir subitamente. E vidilo, ch’ancor non mi fu poco, 70 gittatolo ne l’acqua, con istrida scoppiarne fuori e non trovarvi loco. Cosí andando dietro a la mia guida, notava de le cose, ch’io vedea e ch’io udia da persona fida. 75 Io fui tra i monti, dove si dicea che Ciclopis venia alcuna volta a donneare e pregar Galatea. Apresso, noi venimmo a dar la volta dove trovata fu la comedia, 80 secondo che per molti lá s’ascolta. Diverse cose ragionare udia di natura di canne, tanto sono dolci a sonar ciascuna melodia. Non vo’ rimanga ascoso e senza sono 85 il campo agrigentin, ché, se non erra colui con cui dí e notte ragiono, quivi sempre esce terra de la terra. L’isola tutta, a chi gira il terreno, vede, per vero, che si chiude e serra 90con tre milia stadi e non con meno.