Quid novi?

Rime inedite del 500 (L-2)


Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)L[6 Muse padovane]Muse padovane.Voi, che 'n fiamma amorosa acceso 'l core Nel sen di Brenta le vestigia sparse Delle nimphe cercate a tutte l'ore Ne' dolci lumi ond'elle son sì scarse, Desïando temprar lo 'ntenso ardore, Venite meco, e le vedrete far se Dive del sacro umor, che 'n cedro e myrra Consacra chi ne bee 'n Parnaso e Cirra. Fiamma gentil, che co' tuoi raggi ardenti M'accendesti nel cor nuovi desiri Se giammai ti fur' grati i mesti accenti Che per te sparsi 'n mille versi miri, Hor mi scorgi 'l camin', m'aqueta i venti Cruciosi, e fa ch'una dolce aura spiri; Né t'incresca che quanto io m'alzo et ergo Fia sua loda, a cui sol le carte vergo. Era nella stagion che l'erbe e i fiori Muoion languendo nel materno seno, Arsi dalli soverchi, gravi ardori, Che muove 'l sol nel mezzodì sereno, Quando Febo già carco di sudori A veloce destrier raccolte il freno, E mentre quei pascendo all'erbe intorno Gìano errando, in Parnaso fe' ritorno. Quivi 'n mezzo le nove alme sorelle Sovra le fresche, verdeggianti sponde D'Hippocrene, le chiome aurate e belle, Cinto della sua santa, armata fronde, Rinfrescossi la fronte, e ambe le stelle Col beato liquor de le sacre onde; Indi la lira in mano e 'l plettro tolse E 'n dolci note la sua lingua sciolse. Al dolce suono, all'armonia celeste, Gli alberi, i sassi 'ntorno alle fresche acque Si ragunaro, e di purpuree veste Si copriro le piazze, e intento giacque Ogni animal, né in ciel veduta avreste Pur' una nube, et ogni vento tacque; Sol la fontana, qual risponder voglia; Nel chiaro fondo mormora e gorgoglia. Ei cantava sì come il sommo Giove D'acqua, di terra, d'aere, di fuoco Creò ciò che quà giù si ferma e muove, E che di tal semenza a poco, a poco Il mondo crebbe in varie forme e nuove, E come dal diluvio fu ogni luoco Sommerso, e che da Pirra poi di duro Sasso i mortali reparati furo. Così diceva Apollo, a cui le Muse Ripetendo con rime dolci e terse Quel che egli nell'estremo suon concluse Respondieno; ma sì varie e diverse Dall'armonia ch'aver prima eran' use Che non cantar', ma più tosto dolerse Parieno, e qual tra cigni roca turba De' corvi che gracchiando il canto sturba. Due e tre volte quei medesmi metri Iterar' per ridurli al vago stile, Che da chiari cristalli, puri vetri Del Castalio liquor, dolce e gentile S'infonde a chi ne gusta; ma più tetri Furno gli accenti, et ogni rima umìle Onde qual fu al stillar del nuovo elettro Sul Po la lira gittò Febo e 'l plettro. Indi s'accese di tanta ira e sdegno (S'ira e disdegno può cader ne' dei), Ch'a' feroci corsier senza ritegno Ripose i morsi, e quattro volte, e sei Con la sferza gli strinse finché 'l regno Passò di Spagna, e i popoli che lei Hanno da tergo, e giunse ove già pose Hercole i segni ed entro 'l mar s'ascose. Né perché sia dal piè fin sovra al collo Bagnato, spegner può la mente accesa, Anzi ha fermo 'l pensier che non dia crollo Etho dal giogo che sì 'l grava e pesa Con gli altri tre, finché non sia satollo D'aver trovato da chi meglio impresa Sia la sua mente, e chi 'l Castalìo umore Guardi 'nvece dell'alme nuove suore. E così poi che di Titon' la sposa Del mar degli Indi trasse il robicondo Volto, e di gigli, e di vermiglia rosa, E di mille fioretti sparse il mondo, Senza aver mai potuto trovar cosa Che gli piacesse il di primo e 'l secondo, Togliendo al mondo il manto umido e nero Tutto Febo trascorse l'hemispero. Il terzo dì sopra la verde piaggia D'Euganea, ove 'l Troian riposò 'l piede Dopo la crudel strage, empia e malvaggia, E 'l grave incendio della patria sede Come passando il suo bel lume raggia Tra ramo e ramo una gran turba vede Di pastoral' sampogne e note alpestri Risonar sente i bei luoghi silvestri. E vago di veder che questo sia Lascia nell'aria l'infiammate ruote E ratto in terra scende per la via Ch'apre il cerchio macchiato in bianche note Verso la turba, verso 'l suon s'invia; Ma prima le vermiglie bianche gote Di lunga barba veste, e 'l bel crin d'oro Cuopre e si spoglia del divin decoro. La sampogna dall'un, dall'altro fianco Pende la tasca senza legge e norma, Le lievi membra quasi lasso e stanco Appoggia ad un bastone, e si trasforma Tutto in pastor, come già più volte anco Per le Tessale rive seguir l'orma Lo vide 'l vago Amphirse della greggia Che Batto cangiar fece in dura scheggia. Indi, poscia che fu al bel luogo giunto Là 've da cridi pastorali et alle Rozze sampogne dolce canto aggiunto Ribomba il monte, e la vicina valle, Tacito passa ove di fior trapunto Appar segnato il rugiadoso calle, E vede che con rito e patria legge La turba onora il Dio che Brenta elegge. Presso ove spiega il Dio le altiere corna Giace un prato che mai greggi, né falci No 'l tradiro, ove sì che altrui distorna Non entra il sol, s'abbassi 'n capro, o s'alci Nel marin' granchio, perché 'n vista adorna Velo diffendono alni, abeti, e salci, Quercie frondose e co' rami ritorti Abbenché 'l canto piacque al Dio degli orti. Fanvi di sé bella e gioconda vista In gran parte le suore di Fetonte Allegre, poi che di lor fronde trista Ornossi Alcide vincitor la fronte 'U è 'l lauro, il mirto, il pino e seco mista L'elce e l'horno pur hor scesi dal monte, Sopra di cui con dolci modi e belli S'odon cantar mille soavi augelli. Gira il bel prato men d'un miglio attorno, Eterna primavera lo dipinge Di mille varii fiori, e quasi un corno Le verdi sponde mormorando stringe Dolcemente un ruscello, e d'ogni intorno Quinci e quindi i bei lati abbraccia e cinge Un bosco d'odoriferi ginepri, Albergo e stanza a paurose lepri. Quivi 'n sublime et onorato seggio Tutto di toffo e di pomice viva Siedesi lieto, in atto adorno e reggio Il dio che regna in la vicina riva; Cingonlo intorno di verdigno treggio Canne palustri, giunchi, edera, oliva, La bianca barba, e le canute tempie Stillano acqua che 'l seno e 'l grembo gli empie. Veggonsi 'ntorno pastori e bifolci, Lasciate le spelunche e le capanne, Ballare a prova, a suoni alpestri e dolci, E di pive, e di zuffoli, e di canne, Al cui suono tu ancor t'aggiri e folci, Pan, benché sbuffi e vuoti ognor le zanne. Tendon lacciuoli i satiri alle ninfe Per l'erba fresca e per le chiare linfe. Le Driadi, Amadriadi e Napee Seguono ornate in modi chiari, illustri, Con tutte l'altre boscarecce dee, E come a gara ciascuna s'industri Qual gigli e rose, qual delle amiclee Valli 'l bel fior qual vanni e ligustri, Qual'offre al dio pien di narcisi 'l grembo, Qual di mille altri fior gli scuote il lembo. Altri la palma piena, e piena cesta Gli sparge di papavero e di calta, Altri di croco e di fior di ginestra, Di varie erbe ghirlande 'nteste smalta; Non tutte ad una guisa hanno la vesta, Non dissimil però, qual da terra alta Porta la gonna, e per l'erbetta fresca Muove i pie' ignudi, e mille cuori invesca, Qual le chiome de l'or pel collo ha sparte, Qual l'ha raccolte in vaghi nodi strani, Evvi chi nel bel seno aperto ad arte Mostra i pomi d'avorio, et a Silvani E Fauni strugge i cori a parte, a parte; V'è chi dalle gentil', candide mani Ha ignude insino agli omeri le braccia, Ond'a mille pastor' l'anime allaccia. V'ha in gran copia con gli occhi 'n mano e strali Con le faretre al fianco cacciatrici, Tutte succinte e i pie' sin' sovra i sali Coperte delle pelli, che vittrici Riportano di fere e mostri, quali Soglion sovente giù per le pendici Di Cinto mille ninfe in una schiera Di Latona seguir la figlia altiera. La dea di Cipri delle proprie foglie Cinta, la fronte, co' lascivi figli Ond'ordisca ghirlande lieta coglie Azzurri, verdi fior, bianchi e vermigli, E quei tra l'erba d'amorose voglie Spargono l'esca e tendon lacci e artigli, Esca dolce d'amor, dolci legami, Ond'altri preso, ardendo in eterno ami. Molti vanno a diporto e lor' trastullo, Dolci cantando gli amorosi inganni, Questa di Lesbia canta e di Catullo, Di Nason per Corinna i dolci affanni, Quella gli amor' di Properzio e Tibullo Canta, e di Gallo i gravi, acerbi danni; Gallo, che pianse per altrui paese Licoride irne, e alfin sé stesso offese. Altri d'Aci cantando e Galatea Giva, che dal Ciclope ebbe sì avversi I pensieri, e gli fu sì acerba e rea; Altri con altra lingua et altri versi Dante e Beatrice risonar facea, E 'l gran Tosco con stili ornati e tersi Addolcir Laura, talché la fresca aura Ode sonar per tutto: Laura, Laura. E non udì già mai tanto concento Il bel Caistro ne' suoi stagni, quando Senza strepito alcun stette più intento Ad ascoltar' i cigni, che tornando De' verdi, lieti parchi, l'aura e 'l vento E l'aria intorno addolciscon cantando, Come dolci, soavi accenti udìo La gran Brenta, il bel bosco, il picciol rio. Mira Febo il bel stuolo, e questa, e quella Loda, e tra sé tacitamente parla; Quindi sceglier convien chi abbia della Rupe Elicona cura, o di lasciarla Deserta, inculta, perché né più bella, Né più dotta potrei d'altronde farla Cercando 'ntorno dal Gange alla Spagna Quanto il padre ocean circonda e bagna. Taccia chi loda il bel terren toscano, E quel cui la sirena il nome diede; Perdonimi il gentil, piacevol' Fano Fan' di fortuna che a null'altro cede In produr' donne di giocondo, umano Viso, e che fanno in terra del ciel fede, Fano d'immortal, degno, eterno grido, Delle grazie e d'amori albergo e nido. Veggio due nel suo sen, dai cui begli occhi, Dalla dolce, soave, alma sembianza Par che tal grazia, tal virtù trabocchi Che quindi Amor ogni sua impresa avanza; Né più d'altronde par che l'arco scocchi: Giovanna l'una s'è, l'altra Costanza, Ambedue Gabrielli, e l'una e l'altra Bella, gentil, leggiadra, onesta e scaltra. Veggio due che dall'indo al lido Mauro Son di senno e valore esempio e specchio, Impoverito ha l'una il bel Metauro Per far ricco e famoso Montevecchio; L'altra partita insin' dal pie' d'Isauro Fa nel tuo sen di bel nido apparecchio; Felice chi tal' piante have produtto, Ma più felice chi ne coglie il frutto. Ecco la bella coppia pellegrina: Camilla Castracani e Beatrice, Costanza Nigosanti, e la divina Hippolita Duranti, e chi felice Col guardo ogni alma fa la Saracina Giovanna, unica al mondo qual fenice; Ginevra de' Panetii 'n cui si mostra Quanta bellezza ha l'amorosa chiostra. Leggiadramente le Palazze altere Insieme in un drappel veggìo raccolte, La Taddea Gambetella in vesti nere Le care membra onestamente involte E chi non è sezzaia in queste schiere Giustina de' Duranti e altre molte, Costanza Francescucci, a cui s'appressa Null'altra di beltà la Taddea Alessa.(continua)Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)