Quid novi?

Rime inedite del 500 (L-3)


Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)L[6 Muse padovane]Muse padovane.(seguito)Ben foran nostre queste immortal' palmeD'aver la cura del mio sacro fonte,Nimphe Fanestri, se le gravi salmeDi discordie civil' salire il monteNon vi vietasser; deh! volgete l'almeA pace homai, gli sdegni fieri e l'onteSommergete in eterno, pigro oblìo;Né vi vegna destarli mai disìo. Così diceva Apollo, e nel bel viso Or di questa, or di quella gli occhi gira; Loda le voci e 'l canto, et egli avviso Che assai minor beltà nel ciel si mira E da sé stesso è cotanto diviso Che non sa quali elegge, et or sospira; Gran pezzo ste' sospeso, et alla fine Queste nove ne scelse alme e divine. Quella che dall'età tenera, acerba Ogni cosa mondana a disdegno ebbe, E come in giardin cresce ben culta erba, Così seco il valor, la virtù crebbe, Dinanzi all'altre sì bella e superba Ne vien, ch'in dubbio lascia a cui più debbe, Onesta, saggia Margharita Urbina, Al cui valor la terra e 'l ciel s'inchina. Voi (disse Apollo) ne' celesti chiostri Poggierete, e le stelle vaghe, erranti E le fisse a' mortali dotti inchiostri Mostrarete, e qual presso, e qual distanti Sian' dal terrestre globo, e qual' fur mostri, Quali uomini, e perché si para avanti E 'n qual tempo la terra alla mia suora E fa ch'ella nel viso si scolora Isabetta Dottora costei segue, Ai cui begli occhi, al parlar dolce, accorto, Senza sperar giammai pace, né tregue, Senza segno veder mai di conforto Convien ch'ardendo, amando si dilegue, E resti ogni amador pallido e smorto. Ah! ingiusto Amor, come soffri che chiuda Un corpo così bello alma sì cruda? Vostra la grazia fia, vostro fia il dono (Le disse 'l regnator di Delo e Cinto) Di mostrar con qual voce, con qual tuono, Con qual gesto di dolce grazia tinto Un cor selvaggio, un animo non buono Di piacevol catena resti avvinto, E come col parlar saggio e divino S'adegui il greco e l'orator d'Arpino. Ecco chi al ciel fuor' di donnesca foggia, Battendo le veloci impigre penne Del sacro ingegno, poetando poggia Tal ch'envidia non porta a Mitilenne Il bel Timavo, anzi quanto s'appoggia A stil più grave chi più tarda venne, Tanto questi la vince per la dotta, Casta, bella, gentil, saggia Alvarotta. Voi sola converrà ch'onori e pregi (Le disse il dio) chi di coturno brama Vestire i piedi, e per le scene i regi Gesti tragichi, alzando eterna fama Acquistar e di chiari immortal' fregi Ornar la fronte, a che 'l ciel radi chiama, E riportando vincitore il capro Fuggir morendo da Letheo lavacro. Voi pel contrario di faceti motti, Di detti acuti e di cecropio sale, Come tesser' si deno i tersi e dotti Poemi mostrarete a cui ne cale, E come tra le risa habbino i rotti Singulti e pianti luogo, e come esale La fortuna ogni amaro e alfin le piace Ch'ogni cosa ritorni in dolce pace. Questo alla bella Trabacchina è detto, Trabacchina gentil, che ne' bei lumi, Nel bel viso, nel bel candido petto Quanta ad altrui giamai cortesi numi Infusero beltà, senno, intelletto Ha raccolto, onde fa che si consumi E dolcemente si distrugga et arda Chiunque il petto, gli occhi, il viso guarda. Ecco venir lungo 'l bel prato erboso Ginevra de' Roberti mira e scorgi Che da' begli occhi dal viso amoroso Tanto piacer, tanta dolcezza porge, Ch'un aspe, un orso, un tigre far pietoso Porrìa, qualor ciascun più irato sorge. Qual maraviglia è dunque ch'uom' s'accenda Al primo sguardo e prigion gli si renda? A cui vostre seranno proprie e sole Le grazie di mostrar con quali tempre Si 'sprimano col suono le parole Sì chiare e dolci ch'altre se ne stempre; Muovansi i passi, i giri e le parole, Or preste, or tarde, or alte, or basse, e sempre Ordiscan nuovi gesti e nuovi modi A l'altrui libertade inganni e frodi. A chi vien dopo quante miglia e passi Sian per insino alli celesti regni Mesurando da questi infimi e bassi Per noi convien che si dimostri e 'nsegni, E qualmente con numeri e compassi, Triangoli rotondi ed altri segni, E con forme quadrate et altre effigi D'Archimede si segnano i vestigi. Così disse alla bella Leoncina Il sacro nume, ed ella si ristrinse In sé stessa, e nell'una e l'altra brina Del color delle rose si dipinse, Rose ch'ancor nella nativa spina Soverchia pioggia e grave ardor non vinse, A guisa di piropo fiammeggiaro I begli occhi e mille anime infiammaro. Indi, volto a chi segue, in un sì grave E sì dolce armonia da voi s'impetre Che quel cui fu 'l delfin secura nave, E di Lino e d'Orfeo vinca le cetre, Vinca quello, al cui suon dolce, soave, Tebe di mura misero le pietre Ogni altra vinca e destini ogni core Dolci affetti e pensier dolci d'amore.(continua)Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)