Quid novi?

Rime di Celio Magno (41-42)


Rime di Celio Magno41Ben deggio aver di pianto umido il volto,privo di te, vago augelletto e raro:poiché tu fosti a me, vivendo, un caroalto tesoro in poca piuma involto.Tu del mio core, al tuo cantar rivolto,sgombravi ogni pensier torbido, amaro;e per gradirmi, a te medesmo avaro,tornavi in tua prigion se neri sciolto.Or tra l'ombre di Stige orride vai,picciol, timido spirto, e scampar tenti;ma l'ali, come già, lasso non hai.Benché nullo è 'l bisogno e 'n van paventi:ché per girne securo usar potrai,di penne invece, i tuoi soavi accenti.42Piangea l'acerbo fin Tirsi dolentedi Dafne, amata sposa,nel celebrar l'infauste nozze estinta;né per rimedio alcun, lasso, ch'ei tente,trovar può tregua o posacol duol, che gli ha già l'alma oppressa e vinta.Un dì dal negro velo, ond'era cinta,tratta la mesta cetra, in man la prende;e con lei mentre intendeconsolarsi in disparte,fuor di sé, fuor di via l'aspra sua penaal sepolcro di Dafne incauto il mena.Grida allor: — Ben dei sempre in questa parte,misero cor, lagnarte.Ma qual, da canto e suon, cerchi conforto,se pace aver puoi solo esangue e morto?Già sparir le tue gioie e spente furo,lasso, in quei dolci lumiove albergo felice un tempo avesti;or ch'in tenebre vivi, altro non curose non che ti consumisì ch'ancor io nud'ossa ed ombri resti.Ove son or quei raggi almi e celestidel sol del suo bel volto? ove il tesorode' vaghi capei d'oro?E le perle e i rubiniche formar già solean note sì care?Ove de l'alma l'alte doti rare,e l'opre, e i pensier casti e pellegrini?De' quai pregi diviniricca se n' giva a l'altre ninfe innanti,com'io di fede a tutti gli altri amanti.Qui dentro giace, ohimè, la bella spoglia,in polvere conversa;e la mia qui di fuor vivendo spira?Temprasi forse in me la mortal dogliaperch'in pianto si versa?E si ravviva il cor mentre sospira?O per pena maggior, morto, respira?S'a questa tomba i passi il ciel mi scorse,ben chiaro indicio porsech'anch'io spento e sepoltocon chi fu la mia vita esser devrei.Ma poiché tarda il fin de' giorni miei,per dargli spron, sia sempre il pensier voltoa quanto il ciel m'ha tolto:ché di perduto ben continuo duoloagli strali di morte affretta il volo.Tutta grazia e beltà, tutta onor veroFu quell'alma gentile;e in lei tutti i suoi doni il ciel raccolse.Ahi colpo d'empia sorte iniquo e fero,qual piaga ebbe simìleil mondo? O mai con più ragion si dolse?Lasso, a me tanto ben prometter volse,lieto in vista, Imeneo, per cangiar posciamia gioia in doppia angoscia:ché la sua face santaarse in essequie e in doloroso lutto.Così talor il ciel n'invidia il frutto,quando cor si dovea, di nobil piantafolgorando, e lo schianta.Così Tantalo vede a' desir suoil'onda e i pomi appressarsi, e fuggir poi.Anzi mia pena in ciò maggior si scorge:ché 'l suo ben parte e riede,il mio per non tornar mai più se n' gio.Deh, perché 'l ciel, mia cetra, a te non porgequel ch'ad Orfeo già diede?Per impetrar, non già da Pluto anch'io,ma dal gran Giove, il caro idolo mio?Ch'essa splende or là su, più che mai bella,gradita dea novella.Ma che vaneggio, ahi lasso?A che sogna il desio falsa speranza?Sol dunque intorno a te pianger m'avanza,o ricco de' miei danni avaro sasso.E d'ogn'altro ben casso,spregio anco il suon di questo cavo legno:ché fuor che morte, ogni refugio i' sdegno. —Così 'l misero disse, e sovra il marmoche 'l suo tesor chiudea, spezzò la cetra;dove Amor la faretra,piangendo, e l'arco rotto avea non meno,e le Grazie squarciato il crine e 'l seno.