Quid novi?

Rime di Celio Magno (43-50)


Rime di Celio Magno43Sopra l'amenità della villa dei Pradazzi nel Trivigiano, dove il clarissimo signor Orsatto Giustiniano ha un suo podereVago augellin gradito,ch'a me dinanzi uscendoDi ramo in ramo ti ricovri e passi;e, quasi in dolce invitocari accenti movendo,per questo bel sentier mi scorgi i passi:felice te, cui dassimenar i giorni e l'orein così bel soggiorno,che spira d'ogn'intorno,con meraviglia altrui, gioia ed amore.or qual albergo al mondopotresti aver più dolce e più giocondo?Folti boschetti e lieti,cui dolce aura ognor fiede,dal sol ti prestan refrigerio ed ombra;e dentro a' lor secreticiascun t'invita e chiedeallor che 'l sonno ogni animal ingombra.Il digiun poi si sgombraper campagne fecondedi qual cibo più curi;e se di ber procuri,con man cava lor fresche e lucid'ondeti porgon, liete e pronte,le vaghe ninfe ognor del vicin fonte.Questo ben dee, qualoraquinci te n' passi altrove,d'alto rapirti a le sue sponde amene;come tu spesso ancora,mentre il piè ratto ei move,il corso a l'acque sue cantando affrene:ch'infra le rive piened'erbe e di fiori adorni,bianchi, vermigli e gialli,sembran chiusi cristallitra ricche gemme, onde la terra s'orniacciò ch'altri la vante,e n'abbia gloria il ciel, suo fido amante.Qui, non altrove, io tegnoche già Venere bellasovente in braccio al bell'Adon scendesse,e dietro al caro pegno,or questa preda or quellacacciando, col bel piè l'erba premesse;e poi, lassa, il piangesse,da cruda fera ancisoe nel suo sangue involto.Benché 'l crederlo è stolto:ch'alcun oltraggio in questo paradisonatura non consente,né tema d'aspro o venenoso dente.Deh l'ali avessi anch'io,qual tu, da girne a vololibrando in aria il mio terrestre peso:ch'appagherei 'l desio,quasi ad un guardo solo,di tutto quel ch'agli occhi or m'è conteso.Poi me n'andrei giù scesoper la propinqua valle,e per questo e quel colle,e colà dove estollequel monte al ciel le sue frondose spalle:dietro a cui, mentre scendegià 'l sol, mezzo si cela e mezzo splende.Rimanti pur, canzon, con questo augello,qui fra letizia e gioco;ché men dolce ti fora ogni altro loco.44Per le nozze dell'altezza del signor duca d'Urbino Francesco Maria con la serenissima donna Lucrezia da EsteCangi or beato il Po, cangi il Metauroin or l'arene, in puro argento l'onde,In gemme i fior e l'erbe; e per le spondenasca in premi d'onor la palma e 'l lauro.Ecco l'alma Lucrezia, ecco il tesaurod'ogni virtù, che nel bel seno asconde;che col gran sposo suo luce diffondetal, che per lor già torna il secol d'auro.Questi, come del ciel la luna e 'l sole,saran del mondo i più splendenti lumi,cari non men per opre altere e sole:poi che tutti gli antichi e bei costumifiorir faranno, e fia lor chiara prolefelice copia di terrestri lumi.45Ecco subito lampo; ecco disserraGiove irato tonando al ciel le porte;treman le stelle e la celeste corte;trema con l'aria il mar; trema la terra.Questi col braccio suo spezza ed atterraqualunque muro adamantino e forte;questi già spinse i rei giganti a morteche lo sfidaro a temeraria guerra;Questi a la mensa orribile raccoltodi Licaone il real tetto iratoarse, e fe' lui vestir ferigno volto;e questi d'un fanciul nudo ed alatol'arco pur teme: e 'n varie forme voltova innanzi al carro suo preso e legato.46Poiché né il lungo mio gridar mercedecon voce dal dolor già stanca e vinta,né la fronte portar di morte tinta,donna, al mio foco interno acquistan fede,questo ferro prendete, e là 've siedel'imagin vostra nel mio cor dipinta,fate agli occhi la via: ch'ivi se fintao se vera è mia fiamma, a pien si vede.Né si resti per voi, stimando errorequinci mostrar, che dal benigno aspettoabbiate dentro sì diverso il core;ché a fedel servo è via più crudo effettonon dar credenza al suo verace ardore,ch'aprirli a morte mille volte il petto.47Novo Prometeo i' son, misero e lasso:ché del bel viso ond'ardo il foco e i raicon troppo ingorde luci un dì furai,per darne spirto al cor di vita casso.Ond'or d'un alto sdegno ad aspro sassoin catena crudel di pianto e guaiavido rostro in me non sazio maiprovo, e di morte in morte ognor trapasso.Ma quei peccò, da reo desir condutto;io per soverchio amar supplicio sento,di buon seme cogliendo acerbo frutto.Quegli a cosa furar vietata intento;io la vista d'un sol, dal ciel produttoper farne ogni occhio uman lieto e contento.48Mai non ritorno al mio bel sole amatoseguendo i piè, ch'altrove andar non sanno:ché non sia del piacer maggior l'affanno,e da presso più acerbo il ben bramato.Quegli occhi, i quai per adorar son nato,com'essi, ohimè, per sol mio strazio e danno,pur d'un guardo mercede al cor non danno,sempre in atto ver me nemico, irato.E se lontan dal loro sdegno io vivo,più cruda guerra allor, misero, provo,del mio solo conforto e d'alma privo.Così vo del mio male ingordo e schivo,e quel che m'è più dolce, amaro trovo,disperato sperando, or morto, or vivo.49Questa selvaggia mia cruda guerriera,che fiamme e strali ne' begli occhi porta,tal in me s'arma e tal guerra m'apportache tosto andrà de la mia morte altera.Ben contra lei talor, perch'io non pera,si sforza in sua ragion l'anima accorta;e sofferendo pugna e si confortadi ricovrar sua libertà primiera.Ma quasi a l'amo in mar già colto pesce,quanto più mi riscuoto, esser mi sentopiù preso; ed ella più mie pene accresce.E se quando m'ha 'l duol presso che spentopietà ne mostra, è sol perché le increscech'abbia fin con la morte il mio tormento.50Mentre ingrato dolor che 'l cor percoteturba a madonna il viso almo e sereno,e 'l bel pianto, ond'ha 'l ciglio umido e pieno,scende rigando le vermiglie gote,Amor, ch'offesa tal soffrir non puote,come fanciullo a sua nutrice in senoche lamentar la sente, anch'ei non menopiange e si lagna in dolorose note.Né ciò men, lasso, a me tormento adduce;anzi sì grave e rio l'alma il sostiene,ch'io scorgo presso il fin de la mia luce.Sol un conforto in vita il cor mantiene:che mentre il duol madonna a tal conduce,vendetta fa de le mie lunghe pene