Quid novi?

Rime di Celio Magno (109)


Rime di Celio Magno109Ove, o Roma, son or l'altere imprese,fonti de la tua gloria? Ove il fecondoseme, da cui fiorian quei degni eroi?ov'è l'invitto tuo valor che stesel'imperio e 'l grido, sì ch'un solo mondospazio angusto sembrava a' merti tuoi?Quando Pallade e Febo ancor de' suoifregi il tuo nome ornò famoso e chiaro,ambo in farti felice emuli a Marte?Tutte ha già rotte e spartele tue pompe e corone il tempo avaro.Onde, se qual tu fosti io guardo, m'empidi meraviglia e di pietade il petto;e le reliquie tue divoto inchino.Tu dunque, mentre il tuo pregio divinom'infiamma il cor, gradisci il pronto affetto;né sdegnar che mia musa a' nostri tempirinovi alcun de' tuoi più cari essempi:perch'altri preso a così nobil escaper l'orme loro il proprio vanto accresca.Scorgo sopra il destrier col ferro ignudoil magnanimo Cocle in mezzo il pontecorso a impedir de l'arme ostili il varco;che di sé fatto a la sua patria scudosostenne a pugna con ardita frontedi tutta Etruria ei sol l'impeto e 'l carco.Poi, tronco il passo e d'ogni tema scarco,saltò ne l'onde, e sparse al grave pesod'acqua e vergogna a' suoi nemici il volto;e fu dal Tebro accoltoquasi Marte dal cielo a lui disceso,ch'espresse il suo stupor con tali accenti:— Da che quest'urna io verso, atto più degnodel tuo giamai non vidi in altro figlio.E mostri ben che sicurtà il perigliotiensi e s'ha per l'onor la vita a sdegnoove i cor sono al ben commune ardenti.Fa dubbi il tuo valor gli occhi e le mentise quel che scopre a noi sì chiaro lumesia d'uom terreno o di celeste nume. —Splende poscia al pensier quel petto fortech'ignoto entrò fra mille armate schiere;ei sol, per torre al tosco re la vita.Vano fe' 'l bel desio contraria sorte,non già 'l valor; ch'in aspre fiamme e ferearse la man, del non suo error punita.E con voce dicea, libera, ardita:— Scorgasi in questa destra il cor romano,e 'l vivo ardor di gloria in questo foco;ch'ivi aver non pò locotema. — E Roma additò con l'altra mano.— Ivi ognun scherza de la morte al passo,com'io, benché di lor men degno assai;e sorgon più quanto più 'l ciel gli preme.Conosci dunque, o re, che con la spemedel vincer noi tu merchi i propri guai. —Sembrar tutti a quel dir d'immobil sasso,e 'l dio guerrier, dal ciel mirando a basso,con la vampa e la pena in lei soffertagradì la mano in sacrificio offerta.Quell'altro, anch'ei da spron d'amor sospintodel patrio nido, col destrier ferocesi lancia entro a l'oscura, ampia caverna,lieto ch'a l'alto precipizio accintosi mostri più d'ogni un pronto e veloce,perch'indi sorga poi sua fama eterna.Visto Pluton ne la sua sede infernascender l'eroe, de l'antic'onta espertoteme un novo Teseo, ch'ivi a far predadi Proserpina rieda,fer trarla un'altra volta a l'aere aperto.Ma s'assicura poi, ch'altra, d'onore,brama l'ha scorto per l'orrendo speco.Da te, Curzio, da te s'impari il vantodi sprezzar morte, e 'l falso, oscuro mantosquarciar che 'l ver contende al senso cieco;che di tua sacra bocca odo uscir fuore:— Chi per la patria more, unqua non more. —Però più ch'altro grido, il tuo rimbomba,né fu mai de la tua più nobil tomba.Ma quanto è poi del chiaro spirto il pregioch'a sua povera mensa i doni e l'orode' Sanniti rifiuta e in sé ne ride?Stimò ch'ogni ricchezza e splendor regiocedesse di virtute al bel tesoro,che spesso manca ove fortuna arride.Raro avarizia con onor si vide:ch'ella ogni bel desio da sé discaccia,provando in mezzo l'acque eterna sete.Sovrana laude mietechi la patria arricchir, non sé, procaccia;onde il buon Curio allor così rispose:— Dite al re vostro ch'a me il ferro splendevia più che l'oro; e ch'io, nel vincer uso,per non rimaner vinto, il don ricuso:che s'altri esca non cura, amo nol prende. —Oh come in breve detto agli occhi esposedi povertà l'alte ricchezze ascose!Ama natura il poco; e in lui sol giacevera de l'alma libertate e pace.Ecco offrirsi non meno a la mia vista,del bel poggio d'onor salito in cima,quel ch'a terra spianò l'alta Cartago;che tra le sue più ricche prede vistanobil vergine e bella oltr'ogni stima,ei sul fior de' verd'anni e di lei vagoma del mirarla sol contento e pago,al suo sposo insperata in don la porse,giunto al dono il tesor di queste note:— Forza d'amor non puotecontra fermezza di virtute opporse.gloria è 'l vincer altrui, ma più se stesso,e biasmo in noi del senso vil l'imperoch'asconde aspro veleno in dolce frutto. —Ceda pur Giove a Scipio il pregio tuttode le su' imprese; che dal nudo arcieroei fu ben mille volte al giogo messo;questi, l'alto poter d'Amor depresso,in vendetta d'ogn'un tratto in catenadinanzi al carro trionfando il mena.In sì fertil terren, quasi rampollidi vario frutto in un medesmo stelo,sorser altre felici e nobil alme.Per le cui lingue e penne i sette collicon vanto non minor s'alzaro al cielo,ricchi d'altre corone e d'altre palme.Quinci la patria sua di gravi salmesgombra il gran Tullio, e fa ch'ella non cada;e co' più forti duci orando giostra:ché la toga esser mostrain bel campo d'onor pari a la spada.Arma l'una il parlar, l'altra la forza,di ferir e schermir ciascuna scaltra;quella assalta a silenzio, a tromba questa,sotto insegne di morte o vita onesta;gli animi l'una vince, i corpi l'altra;e 'l mondo il ferro, e 'l ciel la lingua sforza.Così 'l suo lume addoppia e gli altri ammorzal'alma figlia di Marte; e sovra Atene,giudice ancor Minerva, il pregio ottiene.O de' suoi figli a pien felice madre,se del regnar le troppo ingorde voglietener sapea con man più parca a freno!Che poi che 'l mondo a le sue invitte squadrecesse l'imperio, e fu d'antiche spogliesenza nov'oste il Campidoglio pieno,languì virtute a lasciv'ozio in seno,tra pompe e fasti di superbia follech'ogn'alto stato al fin crollando atterra:più fero il ciel fa guerraa torre che più in aere il capo estolle.Un altro mal sua libertà disperse:che Megera infernal ne l'alme errantiempio furor di civil odio impresse;onde ognun, di pietà le leggi oppresse,stimò sua gioia de la patria i pianti;e col ferro crudel, ch'in lei converse,di sangue un fiume nel bel petto aperse.così ruina a lei dal salir nacque,e di sua propria mano estinta giacque.Tu, tu, Vinezia mia più saggia t'armidi schermo tal che vivi ognor securada queste due mortali orride pesti.Fu dritta mira ognor di tue fort'armipace, e non guerra; e sol regna in te curad'egual concordia infra desir modesti.Quinci tu sola oltra mill'anni restie duo secoli ancor, vergine invittain regal manto e venerabil seggio;quinci a' tuoi lauri io veggiodel saper e del dir la palma ascritta.Sei tu di libertà verace nido,a le tempeste altrui fidato porto,gloria del mar, del ciel diletta figlia.Onde può dir chi drizza al ver le cigliache l'occaso di quella aperse l'ortode la tua luce, e in te sorse il suo grido;e che l'eterno re dentro al tuo lidotutto il più bel degli altri imperi accolsequando ornar de' tuoi raggi il mondo volse.Canzon, mentre ch'ammiro or questa or quella,quasi novo Elitropio a doppio sole,dubbio, non so qual più m'abbagli e splenda.Par che l'una da l'altra essempio prenda,e ch'or prima, or seconda al ciel se n' volesovra ogn'uman pensiero altera e bella.Ma se tropp'erto è 'l segno e scarsa stellacontende il lauro a la mia nuda chioma,tacito adorerò Vinezia e Roma.