Quid novi?

Rime di Celio Magno (241-250)


Rime di Celio Magno241Deh non cessar, Amor, deh torna al canto,né mi lasciar cader da tanta gioia;e saetta in me pur, che non m'annoia,da l'atto dolce del bel viso santo.Movi la voce pur, soave tanto,ch'altro non bramo, anzi ho tutt'altro a noia;consenti, ohimè, ch'in tale stato i' moia,mentre il cor si distilla in dolce pianto.Benché seguendo il suon da me diviso,lo spirto, e giunto in ciel, torna e mi diceche questo avanza il ben del paradisoe ch'un solo sospir di quei ch'elicedal mio cor l'armonia che m'ha conquiso,ogni uom potria qua giù render felice.242Finser le favolose antiche carteGiove, dal cielo in bianco tauro sceso,su per l'onde portar l'amato peso;né ciò ben so con che misterio od arte.Così, s'a falsi dèi lice agguagliarte,verace Giove, e tu già fosti accesode la nostr'alma e al su' acquisto intesoin puro agnello il ciel vide cangiarte;e fatto a lei di te guida e sostegno,varcando questo mal crudele infido,fuor la traesti, qual più caro pegno;ma quei la preda sua misera in lidoterren condusse, e tu 'l beato regnodel ciel festi a la tua perpetuo nido.243Falso piacer, che con sì lento passomovi, e fuggi com'ombra a pena vista;o di troppo aspro fel dolcezza mista,che rende l'uom del proprio gusto casso!O più ch'altro selvaggio, orrido sasso,ancor che piano e dilettoso in vista,di cui quanto più 'l fral montando acquista,l'alma più scende in precipizio al basso!Quante per te fatiche al vento ho sparte,che digiun lungo ha la ragion sofferto,dal senso esclusa in perigliosa parte!Or, che tu' inganno io pur conosco aperto,torno, e spero saldar tuoi danni in parteal poggio di virtù, sublime ed erto.244Questa di vari fior mensa dipinta,ove lieta la copia ha sparso il cornosacro a te, Bacco; e questa lira intornode l'amata tua fronde avolta e cinta;che dal mio voto e dal tuo pregio spintatornando a noi questo gradito giorno,suonerà sempre il tuo bel nome adorno,né in me fia mai la tua memoria estinta.Tu venir degna: e mentre il tuo licoremeco a la mensa la mia Cinzia mesce,scalda con tua virtute il freddo core:sì che, come a dolc'esca incauto pesce,ebra sia vinta; e me ne scusi Amore,ch'ogni fren romper suol quando in noi cresce.245PrimoQuell'alato fanciul, quel picciol dio,cui per nome Cupido il mondo chiama,a me non noto pria, se non per fama;con quest'occhi, signor, pur ier vid'io.Mentre di bella donna, umano e piovolto io stava a mirar con nova brama,qual chi mostrar sua pompa e gloria bramafuor de' bei lumi ne la fronte uscìo;quindi volto ver me lieto sorrise,e lusingando in atto dolce, amico,alto diletto al mio desir promise.Or, perché 'l grida ognun crudo e nemicoe tal che rado altrui gran tempo arrise,di cader temo al suo fallace intrico.246SecondoSplende de la mia dea nel vago visodi cortese pietate un vivo raggio,che sicuro mi fa d'onta e d'oltraggio,anzi mi scopre il ben del paradiso.Ma troppo alte impromesse e dolce risofan che d'occulto inganno ha tema uom saggio:che qual pesce torcendo il suo viaggioingordo a l'esca trae, resta deriso.Dunque voi, cui d'amor l'arte e gli inganniper prova aperti son, fatemi accorto,sì ch'io gli ami suoi fugga e i suoi gran danni.Ma se, com'odo, ogni rimedio è cortoe pur convien che 'l suo piacer ne 'nganni,mi date almeno ond'io non resti morto.247Ahi perché de' begli occhi, ond'io sol vivoe senza i quali a morte omai son corso,e d'ogni usato mio dolce soccorsoper voi son, donna, a sì gran torto privo?Ben crederò che possa e fiume e rivovolger indietro il natural suo corso,poich'a preso empio stil di tigre e d'orsoquel cor che non fu mai sdegnoso e schivo.Se mai dal vostro il mio voler disgiuntonon ebbi, lasso, è pur tropp'aspra sortech'io pianga, a tale indegno strazio giunto.Felici quei ch'in nodo lieto e fortestringe Amor sempre, a sperar dolce aggiuntoche né sciorlo ancor possa invida morte.248Pastorale— Perché, lassa, non m'è concesso talepianto trovar, che la mia pena adegui?Onde questo meschin cor si dilegui,ch'a tanto duol più contrastar non vale?Ma per qual aspra mia colpa mortaleinimico destin sì mi presegui?E tu, Clori, a che tardi? A che non seguilui, ch'al ciel se ne va con spedit'ale?Aspetta, gloriosa anima e bella,me, ch'esser voglio in vita e 'n morte, quantoesser si può, fida compagna e ancella. —Ciò detto cadde al suo Damone a cantoClori: e, congiunte, a la par loro stellaambe l'alme n'andar tra gioia e canto.249Con lento passo e con la faccia tintade la doglia onde 'l cor sentia ferirsi,là 've da Filli sua dovea partirsipervenne al fin l'innamorato Aminta.E perché l'alma, dal desio sospinta,ne l'amata beltà sentia rapirsi,mosse la bocca per, baciando, unirsicon l'alma sua, non meno afflitta e vinta.Ma rimaner la fe' soverchio affanno,qual leve augel da grave rete colto,in questo ancor provando avara sorte.Sol gli occhi lagrimosi in quel bel voltotenea dicendo: — Ahi, che men duolo e dannomi fora il gir lontan da te per morte. —250Vive nel tuo bel sen l'anima mia,o di lei pietoso unico oggetto;vive la tua non men dentro al mio petto,né qua già questa e quella altro desia.Ambe han tra lor sì dolce compagniache vinto cade ogni altro uman diletto;ambe d'un sol voler, d'un solo affetto:l'una per l'altra se medesma oblia.Tu di bellezza e cortesia fenice,io di fede e d'amor; tu fortunataper me ti chiami, ed io per te felice.Così non porti mai fortuna ingrataai nostri lieti giorni ora infelice;ma sia Filli con Tirsi a pien beata.