Quid novi?

Rime di Celio Magno (284-299)


Rime di Celio Magno284Dolce madre e di Dio sposa diletta,Vergine sempre immaculata e pura,specchio del sommo sol, bontà perfetta,fonte di grazia in cui stupì Natura;o del mondo salute, o benedettadel ciel regina, o scorta a Dio sicura;ricorro umile a te: porgimi aita,che senza il tuo favor morta è mia vita.285Ragion è ben ch'in Dio non sol depongama dentro orecchia d'uom la soma gravede' miei gran falli: acciò più l'alma aggraverossor e tema, e al ciel più la disponga.Ma perché d'uopo aver ch'altri le pongaspron a virtute, e fren da voglie prave?perché da sé non si vergogna e pavetal ch'innanzi morir ch'errar proponga?Io, vil fior matutin ch'a sera langue,debil falda di neve al sole ardente,che sarò tosto in sen di morte essangue;contra il gran re del cielo onnipotenteche mi creò, che mi salvò col sangue,ardirò l'opre armar, non che la mente?286Cristo oggi nacque; ond'io debbo mostrarmiLieto o dolente? E starne in festa o in lutto?M'empie di gaudio il ben con lui produtto,poi ch'in terra dal ciel venne a salvarmi;ma tra la gioia il cor sento piagarmich'ei colse del su' amor sì acerbo frutto,in alto abisso di martir condutto,degnando per sua morte a vita trarmi.Benché, se 'l mio dever guardo e 'l suo merto,che vale il mio gioir, che vale il piantoa le sue fasce, a la sua croce offerto?Tu, che nato per me patisti tanto,con tua grazia fa degno il mio demerto:e in me cresci a tua gloria e 'l duolo e 'l canto.287Qual sì fera, crudel, nefanda manosul duro legno il mio Signor confisse?Perch'a se stesso il cor pria non trafissech'esser a chi 'l fec'uom tanto inumano?Ma che parl'io d'altrui, misero insano?Io fui cagione ond'ei morte soffrissee che quel sangue immacolato uscisseper lavar il mio lezzo empio e profano.Io, quasi poco fosse il suo tormento,con ingiusti desir, con perfid'opreriporlo in croce mille volte or tento.Oh quanta in me la sua pietà si scopre!Poiché sì gravi error, quand'io me n' pento,largo perdona, e col suo merto copre.288Sozzo verme son io, vil terra indegnadi serbar te mio vero alto tesoro,cui con sì freddo affetto amo ed adoro,sì ardente al falso ben che 'l mondo insegna.Ahi cor mio cieco, or chi la luce sdegnala notte amando, e 'l fango agguaglia a l'oro?Dunque vita dispregio e morte onoro?E, ragion posta in bando, il senso regna?Ma qual mi sia, Signor, tu mi creastia tua sembianza; e mia carne prendendola mia bassezza a la tua gloria alzasti.Ben infinita la mia colpa intendo;ma nulla al sangue che per me versasti:per cui mercé ti chieggo, umil piangendo.289O non più di terror, non più di mortema di vita e sperar pegno sicuro,divin sepolcro, in cui deposte furole membra di Giesù, lacere e morte.Oggi usciron di te vive e risorte,in corpo pien di gloria eterno e puro,acciò simil godesse il ben futuro,fatta felice a pien l'umana sorte.Così beò col suo morir nostr'alma,e col risuscitar il fragil manto,doppio in noi del su' amor trionfo e palma.Infinità pietà, che per me tantosofferse, e presa in sé mia grave salma,volse in premio la pena, in gioia il pianto.290Al signor Alberto Lavezuola per il cocchio prestatoFebo, se pur talor languidi e stanchii tuoi destrier dal camin lungo senti,questi al carro non men destri e possentiprendi e gli adopra insin chi tuoi rinfranchi.Ma, se tu forse ancor ti sazi e stanchiquando la via del ciel più ratta tenti,ch'entri in tua vece il lor signor consenti;né temer che poc'atto al freno ei manchi.Splendor di senno e cortesia ch'appressipiù la tua luce, in null'altro dimora;né d'esser caro a te, segni più espressi.Poich'in Parnaso a lui tu presti ancorala lira e 'l plettro co' tuoi carmi istessi,onde ognun dopo te l'ama ed onora.291All'illustre signor Carlo Pallavicino ambasciator di SavoiaTrovar contra 'l dolor fermo riparoquando sue piaghe in noi fortuna imprime,di virtù splende infra le glorie primee prova è sol di spirto illustre e raro.Tal voi del figlio estinto al colpo amaro,signor, mostrate un cor franco e sublime,e che 'l voler di Dio per voi si stimepiù ch'ogni falso ben del mondo avaro.Quinci il buon padre ebreo l'unico figliosu l'altar pose in sacrificio piocon man costante e con asciutto ciglio.Ma che? Diè 'l suo per noi l'istesso Dioe noi de' nostri (ingrato, empio consiglio)farem piangendo ingiuria al suo desio?292[A Giorgio Gradenigo]Quali occhi al pianto e qual petto a' sospiripiù deono aprire il corso? Oh qual ingegnoche di saldo giudizio arrivi al segnopuote a l'alma apportar maggior martiri,Gradenico, che i tuoi? Che più non miri,più non ascolti il tuo pregiato pegno;e lui, d'eterna laude e gloria degno,che già in terra fruisti, in ciel sospiri.Tu 'l vedesti, l'udisti e 'l conoscesti;tu più ch'altro l'amasti e l'onorasti:ond'or più ch'altro doloroso resti.Piangerlo non puoi tu ch'al merto basti;lodarlo sì, poiché dal cielo avestile rime pronte, come i desir casti.293A messer Lodovico DolceSuo studio volge a gloriosa parteche d'Arpin segue orando il figlio eletto:come indicio ne dan con chiaro effettomille degne memorie al mondo sparte.Né da' fioriti campi in tutto ei parteov'han le Muse il lor dolce ricetto;arma a questi non men d'ardente affettola lingua Febo, e spirto infonde ed arte.Dunque il mio ingegno in tal camin s'affanni,più per fama acquistar che per tesoro;e s'io la spero invan, ciò mi conforte:che potrà, Dolce, il vostro stil canoro,in cui scorgo d'amor cortesi inganni,serbarmi eterno a più felice sorte.294A messer Paulo TronDe' miei trascorsi dì picciol guadagnodietro a le Muse, ond'io prima m'accensi,trovo; e s'avien ch'al mio stato ripensi,di me medesmo, e pi? del ciel, mi lagno.Che, qual da dolce madre innocente agnopresso a cui lieto a pien l'ore dispensi,da l'alme dee, che già mia scorta fensi,lasso, per rio destin pur mi scompagno.E, s'io vivo, cangiar conviemmi il pelo,per sentier novo, a me gravoso ed erto,spendendo in corta gloria i dì migliori.Ma se seguir quel primo, ardente zelomi dava il ciel, forse in perpetuo offertom'era di Magno il nome onde m'onori.295A monsignor Giovan Mario VerdizzotiGià furo ad altra età, col mondo in fiore,le sacre dive e 'l figlio di Latona;e quella fronde ch'i lor crin corona,di virtù si tenea vanto maggiore.Or anzi stima il procacciarla orroreil secol che per l'or tutto abbandona:onde a l'opinion dietro mi spronaduro destin, bench'al ver pieghi il core.E non lunge a Parnaso il camin piglio,perch'a lui presso di sue cime apriches'altro non puote, almen si pasca il ciglio.Voi, cui stella non è che 'l passo intriche,seguite de le Muse il bel consiglio:ch'agguaglierete ancor le glorie antiche.296 A messer Pietro NardinoOr sì che, mentre nel tuo stil risuono,splende chiaro il mio nome infra i migliori;or sì che m'ergo al ciel dal volgo fuoriassiso in alto e glorioso trono.Ma in farmi tal d'assai men degno e buono,sembri, mastro gentil, che ferro indori;o qual pittor ch'esprima in suoi coloriil più bel posto il vero in abbandono.Così per te di quel ch'io manco abondo,del mio avaro destin le forze dome,e m'assicuro dal morir secondo;che, del tuo lauro anch'io cinte le chiome,sotto il tuo ricco e glorioso mantovivrò ne la tua vita a Febo a canto.297 A ...Pon fine a questi tuoi dogliosi lai,nobil seguace de l'Aonio coro;e 'n piacer cangia il tuo grave martoro,che dolce porto ancor seguendo avrai.La bella stella tua, s'io ben mirai,promette in vista sol pace e ristoro;e tal è 'l merto, ond'io t'amo ed onoro,che sirti e scogli da temer non hai.Ma dove pur mercé ti venga meno,l'aver quel divin lume in terra scortodovrà far il tuo cor contento a pieno:ch'è grazia tal che ti dorresti a tortose ti fesse anco amor, di sdegno pieno,restar tra l'onde sue sepolto e morto.298Al signor Giovan Francesco PusterlaQuando i begli occhi, ardor de' tuoi desiri,in quest'aria spiegar sua luce puralasciando notte nubilosa e scuraa te, che sole al mondo altro non miri;al lampeggiar de' lor celesti girionde Amor l'alme e i cor sì dolce fura,a quell'altera, angelica figurastatua sembrai che meraviglia spiri.Onde, non che per te formar pur detto,ma non potei, me stesso avendo perso,ricovrar salvo a pena in altro canto;e certo indi scampar m'era disdettose la bella sirena in me conversoavesse un guardo, o s'io n'udiva il canto.299Per VeneziaS'ove nido avean sol palustri merghie lorde canne, e vili alghe infeconde,or regie stanze e d'ogni ben fecondealzan da l'acque al ciel la fronte e i terghi,opra fu, quando al ver con gli occhi t'erghi,di Dio, ch'amico a' servi suoi rispondebenché del rio venen ch'in te s'asconde,lingua crudel, sì nobil frutto asperghi.Da Dio sono i tesor, da Dio fra noiscende ogni essempio degli onor vetustiper non men chiari e gloriosi eroi.Tu da regni di Pluto arsi e combustivieni, e l'Italia ammorbi, e 'l mondo annoi,mostro, che 'l fel ne l'altrui dolce gusti.