Quid novi?

Rime di Celio Magno (353-354)


Rime di Celio Magno353A che dolervi e lagrimar cotanto,donna, e dagli occhi miei col vostro duolotrar così largo ed angoscioso pianto?L'aura che move un sospir vostro solotal fiamma di pietate al cor m'accendech'io per bocca n'esalo un largo stuolo;or qual pena m'apporta e qual mi rendelo strido udir che di lamenti cintoa far pietose ancor le stelle ascende?Io 'l provo allor ch'entro 'l mio petto, vintodal gravoso martir, lo spirto mancaa poco a poco, e in tutto sembra estinto.E quante volte in me pur si rinfranca,tante a vagar se n' torna in riva a Lete,spinto dal duol ch'in voi giamai non stanca;così mentre mal cauta altrui piangeteper soverchia pietà d'una sol morte,con mille morti me, lasso, ancidete.Non è 'l vostro destin malvagio e fortesì ch'in tutto per voi debbiano aprirsiper mai non riserrarle al duol le porte;quante più care al ciel di voi sentirsich'in largo fondo di miseria postepiù sventurate assai di voi pon dirsi.Ma benché prima al duol maligno esposteprovasser dura insopportabil guerra,al fin da sé scacciaro il crudel oste;che quando questi in petto uman si serra,quasi in già vinta e mal difesa rocca,tutto dentro perturba, arde ed atterra.Quinci fiamme e lamenti escon per bocca,quinci a gran copia il vital nostro umore,per gli occhi lagrimosi in sen trabocca;e lo spirto del petto uscendo fuore,poich'invan chiede a la ragion soccorso,va peregrino in periglioso errore.Quinci al fin de' miei giorni anch'io trascorsotosto sarò, se più fedel consiglioal vostro flebil rio non frena il corso;né mi duol perch'io chiuda in morte il cigliose non che mentre a ciò per voi son scorto,e voi meco correte egual periglio.Lasso ch'è troppo in voi pallido e smortoquel vago viso, e da soavi lumitenuto in bando amor troppo a gran torto;onde al cangiar dei lor dolci costumianch'ei si lagna, e dice: — A che piangendote senza frutto e me, cruda, consumi?Deh non squarciar il crin, di cui sol tendomie reti, e non turbar la vaga fronteonde pena agli amanti e premio rendo;pon freno al mesto e lagrimoso fronte,e 'n te tornando a vendicar ti destadel nemico dolor l'ingiurie e l'onte.Che da sé pur troppa veloce è questavita mortal senza che sproni aggiungae l'affretti al suo fin cura molesta.Dunque pietate omai, donna, ti punga,del regno mio che sol per te si prezzaed a' begli occhi tuoi mi ricongiunga. —Così cerca levar tanta tristezzaquel pietoso fanciul del vostro petto,perché s'empia di gioia e di dolcezza.Or da qual vano ed ostinato affettonemico al vostro ben vi fie contesaragion, sì che non abbia in voi ricetto?Come quella potrà chiamarsi offesache da legami e da prigione amarane la primiera libertà v'ha resa?O bella libertà soave e cara,quanto è tuo pregio, e quant'uom più ti stimas'a sferza pria di servitù t'impara?Tu spregi ogni alta ed elevata cimaonde chi più per ritrovarti poggiatra le pompe e gli onor, più falso stima.Teco festa, letizia e canto alloggiae sol ch'in tua balia te stessa mirioffender non ti può vento né pioggia.Né la tua fronte ogni pensier ritiri:in te 'l vero non teme oltraggio e scorno,né di tuo stato mai col ciel t'adiri.Ben anzi amaro ed infelice giorno,donna, fu quel che primo al collo indegnotal giogo marital vi pose intorno;da indi in qua vi diede il ciel mai segnodi pace? O 'l ciglio mai lieto v'aperseche dentro non serbasse occulto sdegno?Quanto di gioia e di piacer v'offersefu sempre annunzio di futuro oltraggio,perch'in pianto e dolor tosto il converse.Chiudea, scorso per mar lungo viaggio,al fin in porto le già stanche veleil vostro sposo, a navigar mal saggio;e da la moglie sua troppo fedelein sen raccolto, o lui beato, udiadel suo lungo tardar dolci querele.E 'nsieme il proprio suo volto sentiabagnar del pianto che per gaudio internofuor de' begli occhi di sua donna uscia.Ma che? Forse il piacer durava eterno?O quale al coniugal letto conviensiper la legge adempir del re superno?A pena avean gli occhi bramosi e 'ntensiil guardo fermo entro l'amato voltogustando il ben di ch'eran tutti accensi,ch'ei sotto 'l verno a vostre braccia toltoe nel letto voi sola abbandonando,se n' gia col crudo legno altrove volto.E per un dì ch'in braccio a voi tornandoprendea riposo in peregrini lidi,ne spendea mille a voi lontano stando.Quante volte timor di venti infidie giusto duol del suo ritorno lentov'asperse i due d'amor leggiadri nidi;benché né minacciar d'averso ventoné fremer di spumosa alta procellané 'l ciel mirar a sua ruina intentoil tenean lunge a la sua fida e bellamoglie, come rendea per tutto chiaro,e a voi forse ancor, certa novella.Ma preso a' laccio più gradito e carodi nova donna e 'n sue delizie immerso,gli sembrava il partir duro ed amaro.Quest'era il cielo aver mai sempre aversoquinci tenta tra scogli e l'onde iratecol legno rimaner vinto e disperso;ahi de' consorti rei perfide ingratementi, u' son l'impromesse? U' è la fede,il ciel, le stelle in testimon chiamate?Barbara donna e vil, già fatta eredede' vostri amori, a sé coglieva il fruttode la dovuta a voi larga mercede.Ed ei continuo in grembo a lei riduttoil paradiso suo lieto godea,voi qui lasciando sconsolata in lutto.E mentre il vostro cor per lui spargeapietosi voti, ei ne l'amate bracciastando, il vostro aspettar forse ridea.Deh perch'avien che 'l fin tanto vi spiacciad'un sì perverso ed infedel marito?E perché non piuttosto il duol vi scaccia?Se 'l corso innanzi al suo fosse finitodi vostra vita, e in un quant'è di vagoe di dolce qua giù con voi rapito,che gran querele? E che profondo lagosparso di pianto? E quanti lustri avrebbeserbata dentro al cor la vostra imago?Ben aperto è 'l veder quanto sarebbestato il suo duol, che pria ch'a morte giuntofosse, mostrò quanto di voi gli increbbe.Ma se per nome sol v'era congiunto,che più v'importa, o più s'accresce al dannoperch'in tal modo or sia da voi disgiunto?Strane genti oltra 'l mar più nol vedrannoda voi sempre lontan; né fia possenteservando a voi amor ordirvi inganno.Benché quando il doler l'alme già spenterendesse in luce, e mio consiglio foramostrarvi a lui di ciò larga e clemente;ma invan si chiama, e più non torna fuoraspirto che giunto sia di là dal fiumedi Lete, ove 'l nochier sordo dimora.Più dunque il rio dolor non vi consume,ma desto da più saggia accorta voglial'intelletto riprenda il proprio lume.Né men vi deve a ciò piegar la dogliache tal m'afflige al suon de' vostri lai,ch'a trarmen spesso la man propria invoglia.Lasso, dal dì ch'in voi quest'occhi alzaipur di lagrime sempre umidi e pregnied io ricetto d'infiniti guai.Né per pietà giamai de' strazi indegnich'io sostenni d'amor, placati scorsio lenti in parte i vostri eterni sdegni.E benché in voi seguendo al fin m'accorsich'a la morte correa sempre vicino,il piè dal vostro amor giamai non torsi.Or che pur terminar l'aspro caminoal fin sperava, in novo mar di piantoper voi mi spinge il mio fero destino.Dove smarrito il dolce lume e santode le mie stelle, e di governo casso,anch'io me n' vo, sol con la morte a canto.E la mia stanca nave in preda lassoa vento eterno di sospir dolenti,che fuor manda il mio cor misero e lasso.Tal che se non scoprite i raggi ardentirasserenando il ciel turbato e scurodella fronte e degli occhi almi e lucenti,avrò naufragio e fin più strano e duroche l'ingrato per cui lagrime tantespargete, e sparte, mentre visse, furo.E seguendo consiglio empio ed errantevedrete, lassa, voi medesma privatosto e di sposo e di verace amante.Or poiché da voi sol pende e derivaquesta mia vita, ed al soccorso è loco,oprate sì ch'io giunga salvo a riva.Ch'omai da varcar più m'avanza pocoe s'indugiate al fin verrà che sordaprenderà morte il pentir vostro in gioco.Ma non basta scacciar la pena ingordache 'l verde e 'l bel di vostre membra pascese di mie pene ancor non vi ricorda.Perché 'l mio mal da cagion doppia nasce,mortal ciascuna; onde tor via che valequella, quando quest'altra in piè si lasce?Resterà la ferita aspra e mortaleche già m'impresse al cor dagli occhi vostriil crudo arcier c'ha la faretra e l'ale.Ond'io son detto essempio a' giorni nostrid'unico strazio, e voi fera simìlea qual sete maggior di sangue mostri.Ahi ch'orgoglio non regna in cor gentile,né creder vo' ch'istinto proprio in voinutrisse mai pensier sì [lasso] e vile.La colpa n'abbia il servar fede a luiche sposo v'era, ancor ch'ei poco castofesse de l'amor suo parte ad altrui.Questo certo a' miei prieghi alto contrastofe' sempre, e voi tenendo in pensier vanoha quasi il fior di vostr'etate guasto.Or che preda è rimaso al flutto insanochi sol vi fea crudel, chiede il mio mertoch'a me vostra pietà larghi la mano.E 'l ciel per me n'ha mostro indizio aperto,poiché viver un buon seme e radicedel commun nostro mal non ha sofferto.Deh, per mercé, se bramar tanto licea fido amante, il mio giusto disiofate d'un vostro sol guardo felice.Deponete il rigor selvaggio e rioch'a la vostra beltà gran pregio toglie,e gradite la fede e 'l servir mio!E poich'in voi tanto di ben s'accoglie,non lasciate ch'inculto e steril passie che 'l tempo sol n'abbia ingorde spoglie.Pur troppo involta in pensier vani e cassiquasi stolta Penelope viveste,dal più saggio camin torcendo i passi.Or che vi s'apre al fin grazia celeste,non la sdegnate, e 'n voi ragion prevaglia:sì che, spento il dolor, le cure meste,d'amor, di me, di voi, donna, vi caglia.354Sopra la fortezza cristianaMentre Lorenzo in su l'orribil gratadel sacro corpo il foco avido pasce,né però l'alma, di virtute armata,vien che da l'aspro duol vincer si lasce,anzi, in mezzo l'ardor fatta beata,qual fenice dal rogo, in Dio rinasce;stan dal cielo a mirar gli angioli intenti,la sua gloria cantando in tali accenti:— O martirio felice, o intrepid'alma,ad essaltar sua fé da Cristo eletta!Ecco qui gloriosa eterna palma,ch'ornar tue mani e se medesma aspetta;cedan pur quanti mai noiosa salmastimar la vita, e lei tronca e neglettaper terrene cagion nei corsi tempidier di costante cor celebri essempi.Costume anzi inumano e stolto erroredi fortezza oscurò la luce purain quei che, per fuggir tema o doloreo produr del suo nome ombra futura,del proprio occaso accelerando l'ore,rupper di Dio le leggi e di natura.Forte non è colui ch'ai sensi cede,ma sol chi pugna, e trionfante riede.Parte è ben giunta a voi, ciechi mortali,ma non propria di voi la frale scorza;vostra è l'anima sol, ch'ai beni e mali,col suo proprio voler, dà spirto e forza.Ella spezza a fortuna i duri stralied al suo imperio ad obedir la sforza;e quanto al fondo più si calca e immerge,tanto più franca al ciel ritorna e s'erge.Questa di sofferenza alta virtutel'altre tutte nodrisce e in vita serba;ch'ov'ella col vigor suo non le aiute,sterili fansi o restan secche in erba.Ma quando il re del ciel per la salutede l'uom, s'offerse a dura morte acerba,dal legno, ove il divin sangue si sparse,di stella, ch'era prima, un sole apparse.Rinacque ella in quel tronco onde nascestivero germe ancor tu, spirito eletto,sì pronto ora al martir che dubbio destise l'incendio t'è pena o pur diletto.E par che 'l foco anch'ei stupido restimentre lo sprezzi in sì giocondo aspetto;ma che? La fede a la natura è sopra,e di chi tutto pò la grazia adopra. —ciò detto spiegan l'ali e fuor del cieloEscono ad incontrar l'alma gradita,che dal combusto suo corporeo velogià propinqua a le stelle era salita.L'accoglion lieti e con benigno zelola scorgon dove, al suo Fattore unitae in Lui sbramate al fin sue sante voglie,per breve strazio eterno premio coglie.Ceneri sacre, in cui sfavilla ancoraesca d'amor ch'i freddi petti accende,siatemi specchio a sofferir, qualoracolpo d'averso caso il cor m'offende;ed a membrar ch'anch'io son polve, e l'oradel mio cader da stame fragil pende.Tal che i miei gravi error ne vadan tuttidi penitenzia al foco arsi e distrutti.