Quid novi?

Della Casa 09: rime


XLIBen mi scorgea quel dì crudele stellae di dolor ministra e di martìri,quando fur prima vòlti i miei sospiria pregar alma sì selvaggia e fella.O tempestosa, o torbida procella,che 'n mar sì crudo la mia vita giri!donna amo io ch'Amor odia e suoi desiri,che sdegno e feritate onore appella.Qual dura quercia in selva antica, od elcefrondosa in alto monte, ad amar fôra,o l'onda che Caribdi assorbe e mesce,tal provo io lei, che più s'impetra ognioraquanto io più piango, come alpestra selceche per vento e per pioggia asprezza cresce.Le Rime secondo la stampa del 1558Rime di diversi Ecc. Autori, in vita, e in morte dell'Ill.S.Livia Columnae, 1555, pag. 64Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 40 (pag. 21)Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 292Note:Sonetto scritto per Livia Colonna in nome d'un Farnese. I terzetti così leggonsi in un manoscritto di Francesco Melchiori da Oderzo, che fu proprietà di Vincenzo Casoni, benemerito autore di alcune lettere intorno la vita e gli scritti del Casa, e da noi altra volta citato:Ch' io non vo' dir del suo passato orgoglio;Ma il fuggir novo quanto amaro mesceEntro a quest'alma, e quanto aspro cordoglio!E se pianto dal cor mi stilla ed esce,Vie più s'impetra; come alpestre scoglio,Che per pioggia e per vento asprezza cresce.Altre varianti avrei potuto notare, ma di minore importanza, tratte dal codice stesso. Vedile tutte nella edizione del Pasinello, vol. I, pag. 278 e seg. Ebbe questo sonetto una Lezione di Girolamo Vecchietti, letta nell'Accademia fiorentina il 14 aprile 1583.(Carrer, cit., pag. 308)XLIIGià non potrete voi per fuggir lunge,né per celarvi in monte aspro e selvaggio,tôrmi de' bei vostri occhi il dolce raggio,ché da me lontananza no 'l disgiunge.Nel mio cor, donna, luce altra non giungeche 'l vostro sguardo, e sole altro non aggio;e s'egli è pur lontan, lungo viaggioè breve corso, ove Amor sferza e punge.Portato da destrier che fren non have,pur ciascun giorno ancor, sì com'io soglio,se veder mi sapeste, a voi ne vegno:e con la vista lacrimosa e gravefo mesti i boschi e pii del mio cordoglio.Sola in voi di pietà non scorgo io segno.Le Rime secondo la stampa del 1558Rime di diversi Ecc. Autori, in vita, e in morte dell'Ill.S.Livia Columnae, 1555, pag. 64Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 41 (pag. 21)Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 293Note:Tutti e tre questi sonetti sono scritti sullo stesso argomento della Colonnese. Il secondo si legge nelle lume di diversi in onore della dama surriferita, Roma, 1555. Notabile è nel v. 7 [Sonetto 42] l'uso della parola sparso per sparito o scomparso. Può essere stata sola necessità di rima che inducesse il poeta ad usarlo, ma non oserei dire che non potesse adoprarsi felicemente, anche tolta una tale necessità.(Carrer, cit., pag. 308)XLIIIVivo mio scoglio e selce alpestra e dura,le cui chiare faville il cor m'hanno arso;freddo marmo d'amor, di pietà scarso,vago quanto più pò formar natura;aspra Colonna, il cui bel sasso indural'onda del pianto da questi occhi sparso:ove repente ora è fuggito e sparsotuo lume altero? e chi me 'l toglie e fura?O verdi poggi, o selve ombrose e folte,le vaghe luci de' begli occhi rei,che 'l duol soave fanno e 'l pianger lieto,a voi concesse, lasso, a me son tolte;e puro fele or pasce i pensier miei,e 'l cor doglioso in nulla parte ho queto.Le Rime secondo la stampa del 1558Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 42 (pag. 22)Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 294Note:Tutti e tre questi sonetti sono scritti sullo stesso argomento della Colonnese. Il secondo si legge nelle lume di diversi in onore della dama surriferita, Roma, 1555. Notabile è nel v. 7 [Sonetto 42] l'uso della parola sparso per sparito o scomparso. Può essere stata sola necessità di rima che inducesse il poeta ad usarlo, ma non oserei dire che non potesse adoprarsi felicemente, anche tolta una tale necessità.(Carrer, cit., pag. 308)XLIVQuella, che lieta del mortal mio duolo,ne i monti e per le selve oscure e solefuggendo gir come nemico sòleme, che lei come donna onoro e colo;al penser mio, che questo obietto ha soloe ch'indi vive e cibo altro non vòle,celar non pò de' suoi begli occhi il sole,né per fuggir, né per levarsi a volo.Ben pote ella sparire a me dinanzi,come augellin che 'l duro arciero ha scortoratto ver' gli alti boschi a volar prende:ma l'ali del penser chi fia ch'avanzi?cui lungo calle e aspro è piano e corto,così caldo desio l'affretta e stende.Le Rime secondo la stampa del 1558Rime di diversi Ecc. Autori, in vita, e in morte dell'Ill.S.Livia Columnae, 1555, pag. 63Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 43 (pag. 22)Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 295Note:Tutti e tre questi sonetti sono scritti sullo stesso argomento della Colonnese. Il secondo si legge nelle lume di diversi in onore della dama surriferita, Roma, 1555. Notabile è nel v. 7 [Sonetto 42] l'uso della parola sparso per sparito o scomparso. Può essere stata sola necessità di rima che inducesse il poeta ad usarlo, ma non oserei dire che non potesse adoprarsi felicemente, anche tolta una tale necessità.(Carrer, cit., pag. 308)XLVAmor, i' piango, e ben fu rio destinoche cruda tigre ad amar diemmi, e scogliosordo, cui né sospir né pianto move,e come afflitto e stanco peregrino,che chiuso a sera il dolce albergo trove,pur costei prego, e pur con lei mi doglio;né perché sempre indarno il mio cordoglioal vento si dispergasì come nebbia suol che 'n alto s'erga,men dolermi con lei, né pianger voglio.E così tinge e vergaben mille carte omai l'aspro mio duolo:però che 'l cor quest'un conforto ha solo,né trova incontra gli aspri suoi martìrischermo miglior che lacrime e sospiri.Qual chiuso albergo in solitario boscopien di sospetto suol pregar taloracorrier di notte traviato e lasso,tal io per entro il tuo dubbioso e foscoe duro calle, Amor, corro e trapassofin là 've 'l dolce mio riposo fôra:ivi pregando fo lunga dimora.Né perch'io pianga e gridi,le selve empiendo d'amorosi stridi,lasso, le porte men rinchiuse ancoradel mio ricetto vidi;né per lacrime antiche o dolor novoposa, o soccorso, o refrigerio trovo.Così fe' 'l mio destin, la stella mia,sorda pietate in lei ch'udir devria.O fortunato chi sen gìo sotterra,e col suo pianto fea benigna Morte,sì temprar seppe i lacrimosi versi:se non che gran desio trascorre ed erra.A me non val ch'i' pianga e 'l mio duol versi,quanto m'è dato, in dolci note e scorte;né del martiro che mi duol sì fortein quei begli occhi reiancor venne pietade. E ben torreisenza mirar la cruda mia consortegirmen per via con lei,fin ch'io scorgesse il ciel sereno e 'l die.Poi che non ponno altrui parole, o mie,impetrar dal bel ciglio atti men feri,fa' tu, signor, almen sì ch'io no 'l speri.Ch'io pur m'inganno, e 'n quelle acerbe luci,per cui del mio dolor giamai non taccio,dico le rime mie pietà desta hanno;e forse (o desir cieco ove m'adduci?)lacriman or sovra 'l mio lungo affanno,e noia è lor quant'io mi struggo e sfaccio.Così corro a madonna, e neve e ghiacciole trovo il cor, e 'nvanodi quel nudrirmi, ond'io son sì lontano,col penser cerco; anzi più doglia abbraccio,qual poverel non sanocui l'aspra sete uccide e ber gli è tolto,or chiaro fonte in vivo sasso accolto,e ora in fredda valle ombroso riomembrando, arroge al suo mortal desio.Lasso, e ben femmi e assetato e 'nfermofebre amorosa, e un penser nudrilla,che gioia imaginando ebbe martiro.Così m'offende lo mio stesso schermo,non pur mi val; ché s'io piango e sospiroincominciando al primo suon di squilla,già non iscema in tanto ardor favilla:anzi il mio duol mortalecresce piangendo e più s'infiamma, qualefacella che commossa arde e sfavilla.Fero destin fatale,quando fia mai che la mia fonte viva,perch'io pur lei nel cor formi e descrivae per lei mi consumi e pianga e prieghi,le sue dolci acque un giorno a me non nieghi?Forse (e ben romper suol fortuna reabuono studio talor) ne la dolce ondach'i' bramo tanto, almen per breve spaziodato mi fia ch'un dì m'attuffi, e beafin ch'io ne senta il cor, non dico sazio,però che nulla riva è sì profondaqualora il verno più di piogge abonda,ma sol bagnato un poco.O fortunato il dì, beato il loco,ben potrei dire, adversità secondami diede Amore, e focom'accese il cor di refrigerio pieno,s'un giorno sol, non avampando io meno,la grave arsura mia, la sete immensa,larga pietà consperge e ricompensa.Che parlo? o chi m'inganna? a tanta setele dolci onde salubri indarno sperail cor, che morta ha presso e mercé lunge.Ma tu, signor, ché non più salda reteomai distendi? e qual più adentro pungequadrello, aventi a questa alpestra fera?sì ch'ella caggia sanguinosa e pèra,e quel selvaggio corene le sue piaghe senta il mio dolore;e biasmando l'altrui cruda e guerreravoglia, il suo proprio erroree la sua crudeltà colpi e condanni:e fia vendetta de' miei gravi affanniveder ne' lacci di salute in forsel'acerba fera, che mi punse e morse.Già non mi cal s'in tanta preda parte,canzon, non arò poi;e so che raro i dolci premi suoicon giusta lance Amor libra e comparte:pur ch'ella, che di noisì lungo strazio feo, con le sue piaghela vista un giorno di questi occhi appaghe.Ma, lasso, a la percossa ond'io vaneggiovendetta indarno e medicina cheggio.Le Rime secondo la stampa del 1558Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Canzone 2 (pag. 34)Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 296Note:Bella canzone, da anteporsi a quante il Casa ne scrisse, se non fosse la quarta; e quantunque frequente di lambiccature petrarchesche, calda a quando a quando di vera passione.St. 3. Allude in tutta questa strofa alla nota favola di Orfeo. Pieno di forza e di verità è il concetto dell'ultimo verso, e, benchè accennato da altri e prosatori e poeti, non mai con tanta efficacia, e tanto a proposito quanto qui dal Casa.St. 6, v. 1-2. "Romper suol fortuna rea - Buono studio talor". È modo proverbiale d'antico filosofo. V. Gio. Villani, lib. VII, cap. 3; e Matteo, lib. IV, cap. 33. Proverbio che, fosse pure non vero, conforta e nobilita la natura umana togliendola alla cieca soggezione della Fortuna.V. 4. È voto più che discreto. E ricorda un consimile del Petrarca, parte I, sestina 1, v. 31-33.(Carrer, cit., pag. 315)