Quid novi?

Della Casa 10: rime


XLVICome fuggir per selva ombrosa e foltanova cervetta sòle,se mover l'aura tra le frondi sente,o mormorar fra l'erbe onda corrente,così la fera mia me non ascolta;ma fugge immantenenteal primo suon talor de le parolech'io d'amor movo: e ben mi pesa e dole,ma non ho poi vigor, lasso dolente,da seguir lei, che leveprende suo corso per selvaggia via,e dico meco: or brevecerto lo spazio di mia vita fia.Ella sen fugge, e ne' begli occhi suoigli spirti miei ne portanel suo da me partir, lasciando a' ventiquant'io l'ho a dir de' miei pensier dolenti:né già viver potrei, se non che poiritorna, e ne' tormenti,onde questa alma in tanta pena è torta,quasi giudice pio mi riconforta.Non che però 'l mio grave duol s'allenti;ma spero, e ragion fôra,pietà trovar in quei begli occhi rei;ond'io le narro alloratutte le insidie e i dolci furti miei.Né taccio ove talor questi occhi vaghisen van sotto un bel velo,s'avien che l'aura lo sollevi e mova,e come il dolce sen mirar mi giova(non che l'ingorda vista ivi s'appaghi),e qual gioia il cor provadove 'l bel piè si scopra, anco non celo:così gli inganni miei conto e rivelo,né questo in tanta lite anco mi giova.Deh chi fia mai che sciogliaver' la giudice mia sì dolci prieghi,ch'almen non mi si togliadritta ragion, se pur pietà si nieghi?Donne, voi che l'amaro e 'l dolce tempodi lei già per lungo usosaper devete, e i benigni atti e i feri,chiedete posa a i lassi miei pensieri,i quai cangiando vo di tempo in tempo;né so s'io tema o speri,già mille volte in mia ragion deluso:sì m'ha 'l suo duro variar confuso,e 'l dolce riso, e quei begli occhi alterivòti talor d'orgoglio,ch'altrui prometton pace e guerra fanno.Né già di lei mi doglio,che 'n vita tiemmi con benigno inganno.Pietosa tigre il cielo ad amar diemmi,donne, e serena e pianaprocella il corso mio dubbioso face:onde talora il cor riposa e tace,talor ne gli occhi e ne la fronte viemmipien di duol sì verace,ch'ogni mia prova in acquetarlo è vana.Allor m'adiro, e con la mente insanamembrando vo che men di lei fugacedonna sentìo fermarsia mezzo il corso, e se 'l buon tempo anticonon mente, arbore farsi,misera, o sasso; e lacrimando dico:Or vedess'io cangiato in dura selce,come d'alcuna è scritto,quel freddo petto; e 'l viso e i capei d'oro,non vago fior tra l'erbe o verde alloro,ma quercia fatti in gelida alpe, od elcefrondosa, e 'l mio di loropenser, dolce novella al core afflitto,contra quel che nel ciel forse è prescritto,recar potesse. Ahi mio nobil tesoro,troppo inanzi trascorrela lingua e quel ch'i' non detto ragiona:colpa d'Amor, che porrele devria freno, ed ei la scioglie e sprona.Canzon, tra speme e dogliaAmor mia vita inforsa, e ben m'avveggioche l'altrui mobil vogliacolpando, io stesso poi vario e vaneggio.Le Rime secondo la stampa del 1558Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Canzone 3 (pag. 37)Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 301Note:Se continuasse come incomincia, non avrebbe uguale in vaghezza.St. 2, v. 7. Onde quest' alma in tanta pena è torta. Qui torto per tormentato, dal latino. Il vocabolario della Crusca non lo ammise, sebbene, come notarono il Quattromani e il Menagio, si legga nel lib. VIII, capo 1, della Guerra di Troja di Guido Giudice, il seguente passo: E quando Agamennone vide il suo fratello Menelao torto di tanto dolore, ec. (Venezia, 1481, in foglio). Ma gli Accademici leggevano forse nell'edizione napolitana del 1665, ove "il torto di" è fatto "involto in". Ad ogni modo basterebbe questo esempio del Casa per autorizzarne l'ammissione nel vocabolario. Vedi anche qui, dopo la nota alla st. 3, della canz. IV.St. 3.1 primi cinque versi di questa strofa hanno forse inspirato al Tasso una delle ottave più voluttuose del suo poema; veggasi, da chi ama i confronti, la Gerusalemme, c. IV, st. 32.St. ult, v. 6-7. E 'l mio di loro - Penser dolce. Come altrove, son. II, il mio di voipensier fido e soave.(Carrer, cit., pag. 315)La metafisica della Canzone è degna dei riflessi d'un genio, che ama la poesia dell'intelletto. E' permesso con queste due righe richiamare il lettore a una lentezza necessaria sopra i versi d'un grande poeta, che scrivea più spesso colla meditazione, che colla penna.(Rubbi, cit., 301)XLVIIErrai gran tempo, e del camino incertomisero peregrin molti anni andaicon dubbio piè, sentier cangiando spesso,né posa seppi ritrovar giamaiper piano calle o per alpestro ed erto,terra cercando e mar lungi e da presso:tal che 'n ira e 'n dispregio ebbi me stesso,e tutti i miei pensier mi spiacquer poich'i' non potea trovar scorta o consiglio.Ahi cieco mondo, or veggio i frutti tuoicome in tutto dal fior nascon diversi!Pietosa istoria a dir quel ch'io soffersi,in così lungo esiglioperegrinando, fôra:non già ch'io scorga il dolce albergo ancora,ma 'l mio santo Signor con novo raggiola via mi mostra, e mia colpa è s'io caggio.Nova mi nacque in prima al cor vaghezza,sì dolce al gusto in su l'età fiorita,che tosto ogni mio senso ebro ne fue;e non si cerca o libertate o vita,o s'altro più di queste uom saggio prezza,con sì fatto desio com'i' le tuedolcezze, Amor, cercava; e or di duebegli occhi un guardo, or d'una bianca manoseguìa le nevi, e se due trecce d'orosotto un bel velo fiammeggiar lontano,o se talor di giovenetta donnacandido piè scoprìo leggiadra gonna(or ne sospiro e ploro),corsi, com'augel sòleche d'alto scenda e a suo cibo vole.Tal fur, lasso, le vie de' pensier mieine' primi tempi, e camin torto fei.E per far anco il mio pentir più amaro,spesso piangendo altrui termine chieside le mie care e volontarie pene,e 'n dolci modi lacrimare appresi,e 'n cor piegando di pietate avarovegghiai le notti gelide e serene,e talor fu ch'io 'l torsi; e ben conveneor penitenzia e duol l'anima lavede' color atri e del terrestre limo,ond'ella è per mia colpa infusa e grave:ché se 'l ciel me la diè candida e leve,terrena e fosca a lui salir non deve.Né pò, s'io dritto estimo,ne le sue prime formetornar giamai, che pria non segni l'ormepietà superni nel camin verace,e la tragga di guerra e ponga in pace.Quel vero Amor dunque mi guidi e scorgache di nulla degnò sì nobil farmi;poi per sé 'l cor pure a sinistra volge,né l'altrui pò né 'l mio consiglio aitarmi,sì tutto quel che luce a l'alma porgail desir cieco in tenebre rivolge.Come scotendo pure alfin si svolgestanca talor fera da i lacci e fugge,tal io da lui, ch'al suo venen mi colsecon la dolce esca ond'ei pascendo strugge,tardo partimmi e lasso, a lento volo;indi cantando il mio passato duolo,in sé l'alma s'accolse,e di desir novo arsecredendo assai da terra alto levarse:ond'io vidi Elicona, e i sacri poggisalii, dove rado orma è segnata oggi.Qual peregrin, se rimembranza il pungedi sua dolce magion, talor se 'nviaratto per selve e per alpestri monti,tal men giv'io per la non piana viaseguendo pur alcun ch'io scorsi lunge,e fur tra noi cantando illustri e conti.Erano i piè men del desir mio pronti,ond'io del sonno e del riposo l'oredolci scemando, parte aggiunsi al diede le mie notti anco in quest'altro errore,per appressar quella onorata schiera.Ma poco alto salir concesso m'era.Sublimi elette vie,onde 'l mio buon vicinolungo Permesso feo novo camino,deh come seguir voi miei piè fur vaghi!Né par ch'altrove ancor l'alma s'appaghi.Ma volse il penser mio folle credenzaa seguir poi falsa d'onore insegna,e bramai farmi a i buon di fuor simile:come non sia valor, s'altri no 'l segnadi gemme e d'ostro, o come virtù senzaalcun fregio per sé sia manca e vile.Quanto piansi io, dolce mio stato umile,i tuoi riposi e i tuoi sereni giornivòlti in notti atre e rie, poi ch'i' m'accorsiche gloria promettendo angoscia e scornidà il mondo, e vidi quai pensieri e opredi letizia talor veste e ricopre.Ecco le vie, ch'io corsi,distorte: or vinto e stanco,poi che varia ho la chioma, infermo il fianco,volgo, quantunque pigro, indietro i passi,ché per quei sentier primi a morte vassi.Picciola fiamma assai lunge riluce,canzon mia mesta, e anco alcuna voltaangusto calle a nobil terra adduce.Che sai, se quel pensero infermo e lentoch'io mover dentro a l'alma afflitta sento,ancor potrà la foltanebbia cacciare, ond'ioin tenebre finito ho il corso mio,e per secura via, se 'l ciel l'affida,sì com'io spero, esser mia luce e guida?Le Rime secondo la stampa del 1558Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Canzone 4 (pag. 40)Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 305Note:Bellissima fra le canzoni del Casa, da competere colle più belle del Petrarca e di tutta la poesia italiana. Il Tasso, oltre le lodi amplissime date a questa canzone nel dialogo altra volta citato della Cavalletta, ne imitò visibilmente il cominciamento nell' ottantesimoterzo sonetto de' suoi amorosi: Arri gran tempo e del mio foco indegno, ec.St. 2, v. 9, e segg. E se due treccie d'oro, ec. Ricalca l'idee con cui è principiata la stanza terza della canz. antecedente, ma con più modestia.Si 3, v. 5. E 'n cor piegando, ec. E 'n cor pregando leggesi nel più delle recenti edizioni, ma senza conforto d'autorità o di ragioni. Il codice Melchiori ha piangendo. Ho lasciato correre piegando perchè sta nelle antiche stampe, e risponde al "torsi" del settimo verso. Il Casa ama ripetersi nelle frasi, e ciò darebbe nuovo soggetto a pensare sulla vera intenzione del poeta nell'uso del torta notato nella st. 2, v. 7, della canz. III.St. 4, v. 3. Poi per poichè, usato da altri poeti. Petrarca, fra gli altri: Ma poi vostro destino a voi pur vieta (parte I, son. XLI, v. 12).St. 5, v. 5. Seguendo pur alcun, per alcuni; troncamento da notare.V. 14. Onde 'l mio buon vicino. Intendi il Petrarca nato in Arezzo, ossia nella stessa Toscana dov' era nato il Casa. E il Petrarca aveva detto in morte di Cino:Pianga Pistoia, e i cittadin perversi,Che perdut'hanno sì dolce vicino.Dopo il Casa, il Tasso, in un sonetto a Gio. Donato Cuchetti, parlando del Sannazzaro:Ciò che ammirò già Manto e SiracusaNe' due famosi, e ciò che al mio vicinoDettò già spirto di celeste Musa.St. 6, v. 4-5. "Come non sia valor s'altri nol segna - Di gemme e d'ostro". Con piccola mutazione, vedi qui addietro il principio del sonetto XLIV.(Carrer, cit., pag. 316)XLVIIICome splende valor, perch'uom no 'l fascidi gemme o d'ostro, e come ignuda piacee negletta virtù pura e verace,Trifon, morendo esempio al mondo lasci.E col ciel ti rallegri, e 'n lui rinascicome a parte miglior translato facelieto arboscel talora, e 'n vera paceti godi e di saper certo ti pasci.Né di me, credo, o del tuo fido e saggioQuirino unqua però ti prese oblio,ch'ambo i vestigi tuoi cerchiam piangendo:ei dritto e scarco e pronto in suo viaggio,io pigro ancor, pur col tuo specchio amendogli error che torto han fatto il viver mio.Le Rime secondo la stampa del 1558Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 44 (pag. 23)Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 310Note:In morte di Trifon Gabriele veneziano, uomo dottissimo, e detto il Socrate de'suoi tempi. E diretto a Girolamo Quirini. A questo Gabriele medesimo indirizzò il Bembo quel suo che incomincia, Trifon, che 'n vece di ministri e servi; e il Varchi l'altro, La riposata vostra e lieta vita. Vedi anche l'Ariosto nell' enumerazione de'begli ingegni del suo tempo. Orlando furioso, canto ultimo.(Carrer, cit., pag. 308)XLIXPoco il mondo giamai t'infuse o tinse,Trifon, ne l'atro suo limo terreno,e poco inver' gli abissi onde egli è pienoi puri e santi tuoi pensier sospinse.E or di lui si scosse in tutto e scinsetua candida alma, e leve fatta a pienosalìo, son certo, ov'è più il ciel sereno,e quanto lice più ver' Dio si strinse.Ma io rassembro pur sublime augelloin ima valle preso, e queste piumecaduche omai pur ancor visco invoglia,lasso; né ragion pò contra il costume:ma tu del cielo abitator novelloprega il Signor che per pietà le scioglia.Le Rime secondo la stampa del 1558Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 45 (pag. 23)Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 311Note:Ha lo stesso argomento dell'antecedente. Pompeo Garigliano l' espose in una delle cinque Lezioni recitate nell'accademia degli Umoristi in Roma, e quindi stampate in Napoli nel 1616.(Carrer, cit., pag. 309)LCuri le paci sue chi vede Martegli altrui campi inondar torbido insano,e chi sdruscita navicella invanovede talor mover governo e sarte,ami, Marmitta, il porto. Iniqua parteelegge ben chi il ciel chiaro e sovranolassa, e gli abissi prende: ahi cieco umanodesir, che mal da terra si diparte!Quando in questo caduco manto e frale,cui tosto Atropo squarcia e no 'l ricucegiamai, altro che notte ebbe uom mortale?Procuriam dunque omai celeste luce,ché poco a chiari farne Apollo vale,lo qual sì puro in voi splende e riluce.Le Rime secondo la stampa del 1558Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 46 (pag. 24)Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 312Note:È scritto il presente sonetto in risposta ad uno del Marmitta, che incomincia: Se l'onesto desio che 'n quella parte. Di Jacopo Marmitta vedi la nostra raccolta a pag. 112, e le note a quel luogo. Sopra questo sonetto compose una lezione il dottor Giuseppe Bianchini, e la lesse nell'Accademia fiorentina il 5 giugno 1711: è stampata nell'ultimo volume dell' edizione del Pasinello. Cito quanti più mi cadono sott'occhio di tali lavori composti intorno le rime del Casa, perchè si vegga il gran conto che in ogni tempo e da ogni ordine di letterati si fece di questo poeta.V. 5-6. Iniqua parte- Elegge ben. E frase evangelica: Maria optimam partem elegit.(Carrer, cit., pag. 309)