Quid novi?

Della Casa 11: sonetti


LISì lieta avess'io l'alma, e d'ogni parteil cor, Marmitta mio, tranquillo e piano,come l'aspra sua doglia al corpo insano,poi ch'Adria m'ebbe, è men noiosa in parte.Lasso, questa di noi terrena partefia dal tempo distrutta a mano a mano,e i cari nomi poco indi lontano(il mio col vulgo, e 'l tuo scelto e 'n disparte),pur come foglia che col vento salecader vedransi. O fosca, o senza lucevista mortal, cui sì del mondo cale,come non t'ergi al ciel, che sol produceeterni frutti? Ahi vile augel su l'alepronto, ch'a terra pur si riconduce!Le Rime secondo la stampa del 1558Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 47 (pag. 24)Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 313Note:Anche questo è diretto al Marmitta che rispose alla sua volta con uno che incomincia: Io mi veggio or da terra alzato in parte. Era il poeta afflitto di podagra quando venne a Venezia; ma da indi se ne sentia liberato.(Carrer, cit., pag. 309)LIIFeroce spirto un tempo ebbi e guerrero,e per ornar la scorza anch'io di fore,molto contesi; or langue il corpo, e 'l corepaventa, ond'io riposo e pace chero.Coprami omai vermiglia vesta, o neromanto, poco mi fia gioia o dolore:ch'a sera è 'l mio dì corso, e ben l'errorescorgo or del vulgo che mal scerne il vero.La spoglia il mondo mira. Or non s'arrestaspesso nel fango augel di bianche piume?Gloria non di virtù figlia, che vale?Per lei, Francesco, ebb'io guerra molesta;e or placido, inerme, entro un bel fiumesacro ho mio nido, e nulla altro mi cale.Le Rime secondo la stampa del 1558Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 48 (pag. 25)Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 314Note:Sonetto gravissimo, ov'è ritratto l'animo del Poeta, e le fallaci speranze e i pentimenti della sua vita. E' scritto a Francesco Nasi, gentiluomo fiorentino.V. 4. Chero, voce d'origine spagnuola, e straniera a noi, dice il Tasso., Disc. Poet. Il Bembo la vuole provenzale, vedi le Prose. Il Castelvetro nelle Giunte le accorda derivazione latina.V. 5-6. Vermiglia veste, o nero-Manto. Qui si pare apertissima l'affannosa bramosia del pappello cardinalizio: vermiglia veste, accenna alla porpora; nero manto è abito di prete.V. 12. A questo verso allude un sonetto del Varchi al Casa, che incomincia: Bembo toscano, a cui la Grecia e Roma. Cito volentieri questo sonetto, perchè si vegga in qual conto fosse tenuto il Bembo da'toscani stessi, a tale che credevano onorare i loro compatriotti intitolandoli dal nome di lui. Né certo il Varchi era allevato alla scuola del Perticari e di Vincenzo Monti.V. 13. Entro un bel fiume. Quando fosse scritto, come sembra, in Venezia, calzerebbe la citazione fatta dal Quattromani del tibulliano:Jam nox aethereum, nigris emersa quadrigis,Mundum caeruleo laverat amne rotas.E l'Oceano fu chiamato fiume dai Greci. Meglio però parmi che si debba intendere del Sebeto, fiume presso Benevento, sede arcivescovile al Poeta. Senza ciò il bel fiume non sarebbe da torre ad esempio, ch' io creda. Anche questo sonetto venne esposto dal Garigliano.(Carrer, cit., pag. 309)LIIIVarchi, Ippocrene il nobil cigno albergache 'n Adria mise le sue eterne piume,a la cui fama, al cui chiaro volumenon fia che 'l tempo mai tenebre asperga.Ma io palustre augel, che poco s'ergasu l'ale, sembro, o luce inferma e lumech'a leve aura vacille, e si consume:né pò lauro innestar, caduca vergad'ignobil selva. Dunque i versi, ond'iodolci di me ma false udì'novelle,amor dettovvi e non giudicio: e poila mia casetta umil chiusa è d'oblio.Quanto dianzi perdeo Venezia e noiApollo in voi restauri e rinovelle.Le Rime secondo la stampa del 1558Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 49 (pag. 25)Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 315Note:In morte del Bembo, e riscontra uno del Varchi che incomincia: Casa gentile, ove altamente alberga.V. 3-4. Al cui chiaro volume - Non fia che il tempo mai tenebre asperga. Frase consimile a quella notata nel son. XXXIV.V. 8. Anche qui l'uso del verbo innestare è notabile.V. 12. La mia casetta. Freddura inopportuna in grave componimento, com'è questo. E chiosi pure il Quattromani, che qui il Poeta scherza felicemente col suo nome. Luogo opportuno a scherzare un sonetto per la morte d'un amico! Non mi ricorda ben quale, ma v'è una lettera del Caro, ove si parla di simili scherzi.(Carrer, cit., pag. 310)LIVO sonno, o de la queta, umida, ombrosanotte placido figlio; o de' mortaliegri conforto, oblio dolce de' malisì gravi ond'è la vita aspra e noiosa;soccorri al core omai che langue e posanon have, e queste membra stanche e fralisolleva: a me ten vola o sonno, e l'alitue brune sovra me distendi e posa.Ov'è 'l silenzio che 'l dì fugge e 'l lume?e i lievi sogni, che con non securevestigia di seguirti han per costume?Lasso, che 'nvan te chiamo, e queste oscuree gelide ombre invan lusingo. O piumed'asprezza colme! o notti acerbe e dure!Le Rime secondo la stampa del 1558Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 50 (pag. 26)Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 316Note:Al Sonno: lodatissimo sonetto, e a buon diritto. L'amplificazione de'primi quattro versi non nuoce all'effetto; e la giudiziosa collocazione delle parole, frequenti di vocali, ti fa sentire un non so che di mestamente languido, proprio di chi cerca riposo e nol trova. Nella prima terzina hai qualche tinta virgiliana. L'esclamazione ultima mette il colmo all'evidenza. S'impari in somma dai giovani, ch'esso entra innanzi di lungo tratto all' altro della Gelosia. Anche questo ha l'esposizione del Garigliano.(Carrer, cit., pag. 310)LVMendico e nudo piango, e de' miei dannimen vo la somma tardi omai contandotra queste ombrose querce, e obliandoquel che già Roma m'insegnò molti anni.Né di gloria, onde par tanto s'affanniumano studio, a me più cale; e quandofallace il mondo veggio, a terra spandociascun suo dono, acciò più non m'inganni.Quella leggiadra Colonnese e saggiae bella e chiara, che co' i raggi suoila luce de i Latin spenta raccende,nobil poeta canti e 'n guardia l'aggia:ché l'umil cetra mia roca, che voiudir chiedete, già dimessa pende.Le Rime secondo la stampa del 1558Rime di diversi Ecc. Autori, in vita, e in morte dell'Ill.S.Livia Columnae, 1555, pag. 48Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 51 (pag. 26)Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 317Note:Vo' credere composti questo e il seguente sonetto a Narvesa; e credo che le querce qui ricordate, siano il bosco del Montello, densissimo fino a pochi anni addietro, e atto a proteggere dal sole d'ogni stagione, e inspirare malinconici e sublimi pensieri. Colà entro è l'Abbazia, famosa per l'interdetto di Paolo III, e una bella Certosa, ma questa poco meno che a terra. Da Narvesa trovo scritte alcune lettere del Casa degli ultimi anni, quando appunto è probabile che col presagio della morte imminente si raccogliesse nella solitudine a meditare la vanità di tutte le cose.V. 3-4. Intende gl'inutili servigi prestati a quella corte, non sempre, come sembra, secondo coscienza.V. 9, e seg. La Colonnese qui ricordata è Girolama Colonna, figliuola di Giovanna d'Aragona; e il sonetto, indiritto a Ranuccio Farnese che lo aveva eccitato a comporre in lode di quella. Il manoscritto Melchiori reca la variante: Quella leggiadra alma reale e saggia. E cosi si legge a pag. 381 del l'empio di donna Giovanna Colonna.(Carrer, cit., pag. 311)