Quid novi?

Il Meo Patacca 01-3


Canto Primo, ottave 31-45Ma hercle, non poss'io non expavescere,Quando recogitando va il pensiero,Che tribus ab hinc annis, io splendescereViddi nel cielo un Cometon sì fiero,Che dall'Oriente incominciando a crescereDiu passeggiò sul nostro alto emisfero;Fu poi visto svanir in Occidente,Presago di quel mal, ch'oggi è presente.Dalla coda lunghissima, che steseLa nuova Stella in quella striscia ignifera,Ch'esser doveva a noi, ben si comprese,Malefica, assai più, che salutifera.Pur troppo da i più dotti allor s'inteseIl parlar fosco della lingua astrifera;Profecto, inver fu questo un chiaro inditio,Che imminebat a noi l'ultimo exitio.Vienna cadrà; timor superlativoSconvolge i sensi, e gelido sudoreVa per le membra, e vix, appena io vivoPensando all'ottoniannico furore;Son già essoso a me stesso, e prendo a schivoVitam ducere". Intanto un bell'umore,S'accosta, e dice: "Ahimè, ci havemo dato,L'Astrologo d'Abruzzo ha già parlato".El Pedagogo in tel sentì lo sbeffo,S'acciglia, increspa el collo, e si rabbuffa,Mozzica il labro, e fa assai brutto el ceffo,Col naso fatto a tromba, e soffia e sbuffa.Imbraccia el pietro suo, ch'è un pò tareffo,Par che voglia andà a fa' calche baruffa;Tra sè e sè, un non so che ciangotta,Va via con furia, e sempre più borbotta.Si fa allora in tel ridere schiamazzo,S'ogn'un di quei, che resta, glie la pista,Chi dice: "Ha dato volta, o come è pazzo!Ci vuò fa' el dicitor, l'indovinista;Ne sa poi meno assai d'ogni regazzo,Perchè propio ha un cervel di cartapista".Ma doppo varj motti, e belle botte,Tornano tutti a casa, perch'è notte.L'alba del dì seguente era vicina,E già segno ne davano i ferrariCon battere la mazza alla fucina,E con taglià la carne i macellari,Con gridàne: "Acquavita soprafina"Col lanternone in man l'acquavitari,Con carri, e con barozze i carrettieri,Con le some del vino i mulattieri.Hor giusto allora, un certo tal si sveglia,Ch'assai poco la notte havea dormito,Sendo stato molt'hore in dormiveglia,Irresoluto, inquieto, impenzierito.Poi ritorna a i penzieri, e li risveglia,Presto si schiaffa addosso un bel vestito,Ma il miglior, bono assai pel su' disegno,Non lo pigliò, perchè l'haveva in pegno.Pe' fa' compariscenza non ingrataDi tela bianca un gipponcin galante,Una corvatta al collo merlettataSi mette con un cappio sverzellante.Ha neri li bigonzi, et attillataLa calza incarnatina sfiammeggiante,Le fibbie alle fangose, el fongo bianco,El pietro biscio, e la saracca al fianco.Costui tra' Romaneschi è il più temuto,S'è il capotruppa della gente sgherra,Ben disposto di vita, e nerboruto,Bravo alla lotta i più forzuti atterra.Quanno poi de fa' sangue è risolutoFa prove cò la fionna, e con la sferra,E ben lo sa, chi con lui buglie attacca.Se chiama, e se ne grolia, MEO PATACCA.Spunta sul babbio la famosa appenaLassa un filetto a foggia di zerbino,Figlio di mastro Titta, e monna Lena,Conforme loro è lui trasteverino;Cacciator, cui non manca ardir, nè lena,Azzecca col su' schioppo in tun quatrino.Benchè figlio di gente mammaluccaHa spiriti guerrieri, e sale in zucca.S'arrabbia in tel penzà, che la canagliaDel Turco infame habbia da fa' 'sto chiasso;Volà vorria là, dove tal marmagliaFa tante quellerie, tanto fragasso;Gli spiace di non esser in battaglia,Ch'i Turchi vorria mettere in sconquasso;Di Vienna intanto, intento alla difesa,Rumina col penziero un'alta impresa.Va in cerca d'altri sgherri, e presto prestoN'ammassa una decina dei più sbarri:A moverzi al su' fischio ogn'un è lesto,Perchè sanno ch'in testa ha de' catarri;Scrulla a più d'un la polvere, e per questoNisciun c'è proprio che con lui la sgharri;Hor questi dieci, che pur son parecchi,Gli fanno ad uno ad un salamelecchi.MEO PATACCA però, ch'a un tempo stessoSa essere cortese, et intosciato,A tutti fa un saluto un pò rimesso,Che civiltà dimostra, e maggiorato:Gli vanno questi scarpinanno appresso,E nisciuno s'arrischia annagli al lato;Ma bensì ogn'uno rispettoso, e queto,Un mezzo passo e più gli va dereto.Come fa de' soldati un caporale,Quanno marcià alle volte gli convieneCon la su' truppa, e lo fa in modo tale,Ch'un tantinetto innanzi a star gli viene;Così PATACCA, e con sussiego uguale,Tutti un pò lontanetti se li tiene,E se forze a chalch'un parla pian piano,Lui crope, e l'altro sta col fongo in mano.Si volta, e dice poi da ogn'un sentitoCon certa gravità, che non è orgoglio:"Oggi a gran cose, o fidi miei, v'invito,Ve voglio tutti fa' stupi' ve voglio".Poi s'azzitta, e fu 'l viaggio proseguitoVerzo il Tarpeo, là dove è il Campidoglio,Del quale assai la fama ha già parlato,E parlarà, sin che ce perde el fiato.Giuseppe BerneriTratto da: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.