Quid novi?

Della Casa 13: rime


LXIDi là, dove per ostro e pompa e orofra genti inermi ha perigliosa guerra,fuggo io mendico e solo, e di quella escach'i' bramai tanto, sazio, a queste quercericorro, vago omai di miglior cibo,per aver posa almen questi ultimi anni.Ricca gente e beata ne' primi annidel mondo, or ferro fatto, che senz'oromen di noi macra in suo selvaggio cibosi visse, e senza Marte armato in guerra;quando tra l'elci e le frondose querceancor non si prendea l'amo entro a l'esca.Io, come vile augel scende a poca escadal cielo in ima valle, i miei dolci annivissi in palustre limo; or fonti e quercemi son quel che ostro fummi e vasel d'oro:così l'anima purgo, e cangio guerracon pace, e con digiun soverchio cibo.Fallace mondo, che d'amaro cibosì dolce mensa ingombri! Or di quella escafoss'io digiun, ch'ancor mi grava, e 'n guerratenne l'alma co' i sensi ha già tanti anni!ché più pregiate che le gemme e l'ororenderei l'ombre ancor de le mie querce.O rivi, o fonti, o fiumi, o faggi, o querce,onde il mondo novello ebbe suo cibo,in quei tranquilli secoli de l'oro!Deh come ha il folle poi cangiando l'escacangiato il gusto, e come son questi annida quei diversi in povertate e 'n guerra!Già vincitor di gloriosa guerraprendea suo pregio da l'ombrose querce:ma d'ora in or più duri volgon gli anni,ond'io ritorno a quello antico ciboche pur di fere è fatto e d'augelli esca,per arricchire ancor di quel primo oro.Già in prezioso cibo o 'n gonna d'oronon crebbe, anzi tra querce e 'n povera esca,virtù, che con questi anni ha sdegno e guerra.Le Rime secondo la stampa del 1558Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 323LXIIGià lessi, e or conosco in me, sì comeGlauco nel mar si pose uom puro e chiaro,e come sue sembianze si mischiarodi spume e conche, e fersi alga sue chiome;però che 'n questo Egeo che vita ha nomepuro anch'io scesi, e 'n queste de l'amaromondo tempeste, ed elle mi gravaroi sensi e l'alma ahi di che indegne some!Lasso: e soviemmi d'Esaco, che l'alid'amoroso pallor segnate ancoradigiuno per lo cielo apre e distende,e poi satollo indarno a volar prende:sì 'l core anch'io, che per sé leve fôra,gravato ho di terrene esche mortali.Le Rime secondo la stampa del 1558Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 57 (pag. 29)Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 325Note:E' fra i sonetti chiosati dal Garigliano per gli Umoristi. La favola ci dà Esaco convertito in corvo marino, e risponde all'Egeo della vita. Ma chi spiega l'amoroso pallore dell'ali? Volle forse alludere alla propria passione; ma è frase di senso chiuso, benché non le manchi vaghezza.(Carrer, cit., pag. 313)LXIIIO dolce selva solitaria, amicade' miei pensieri sbigottiti e stanchi,mentre Borea ne' dì torbidi e manchid'orrido giel l'aere e la terra implica,e la tua verde chioma ombrosa, anticacome la mia, par d'ognintorno imbianchi,or, che 'nvece di fior vermigli e bianchiha neve e ghiaccio ogni tua piaggia aprica,a questa breve e nubilosa lucevo ripensando, che m'avanza, e ghiacciogli spirti anch'io sento e le membra farsi;ma più di te dentro e d'intorno agghiaccio,ché più crudo Euro a me mio verno adduce,più lunga notte, e dì più freddi e scarsi.Le Rime secondo la stampa del 1558Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 58 (pag. 30)Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 326Note:Sonetto mirabile, scritto, come credo, presso al Montello, di che vedi le note qui adietro al sonetto LII. Abbiamo nelle lettere del Casotti molte varianti, che per essere di gran maestro, e sopra componimento finitissimo, sarebbero da consultare. Ecco la principale (versi 3-4):Mentre al bel colle tuo gli omeri e i fianchiIgnudi agghiaccia aspra stagion nemica.Tutti sentiranno il perchè della scelta fatta dell'altro modo.(Carrer, cit., pag. 313)LXIVQuesta vita mortal, che 'n una o 'n duebrevi e notturne ore trapassa, oscurae fredda, involto avea fin qui la puraparte di me ne l'atre nubi sue.Or a mirar le grazie tante tueprendo, ché frutti e fior, gielo e arsura,e sì dolce del ciel legge e misura,eterno Dio, tuo magisterio fue.Anzi 'l dolce aer puro e questa lucechiara, che 'l mondo a gli occhi nostri scopre,traesti tu d'abissi oscuri e misti:e tutto quel che 'n terra o 'n ciel rilucedi tenebre era chiuso, e tu l'apristi;e 'l giorno e 'l sol de le tue man sono opre.Le Rime secondo la stampa del 1558Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 59 (pag. 30)Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 327Note:Sonetto commentato a dilungo da Torquato Tasso in una lezione, e levato a cielo nel dialogo intitolato La Cavalletta. E chi non si contentasse dell' esame del Tasso, legga Francesco d'India che dettò un discorso per dichiarare il concetto filosofico del componimento.(Carrer, cit., pag. 314)