Quid novi?

Della Casa (app.3)


8.Io nol vo' più celar com'io soleva,Dio 'l sa, se m'offendeva un tanto scorno,Lungo è stato il soggiorno; or sia più prestoSpento 'l fetor che quell'arpia spargeva,Che d'or in or cresceva d'ogn'intorno.Venuto è pur il giorno, ov'altri è desto;Ch'omai faccia del resto è giusta cosaLa fera obbrobbiosa; e al mondo aggrada,Ch'a terra cada; sì gli è odiosa.Altera e disdegnosaNe vien sopra di lei vindice spada.Tropp'errat'ha la strada per l'addietro;Ond'anch'è onesto, se or se stessa perde,E se restando al verdeManca ogni speme sua come di vetro.L'accostarsi a San Pietro, or non più vo'.Giovar più non gli può, ch'io m'intend'io;Temp'è che gli paghi il fio, e forza è berlo;Ogni voce è feretro, or basta mo,Se gli varrà io nol so campagna o rioContro l'ira di Dio , fosso , arco, o merlo:Ma come ognun, vederlo ancor io voglio,E fracassarsi in scoglio fuor de l' onde,Se 'l ver risponde a quel di ch' io mi doglio;L'ardir, l' enorme orgoglio,Tiranno empio crudel che in te s'asconde,Il termin che 'l confonde, ti richiama:E per se stesso ogni saper ti fugge,Ed ogni buon si strugge,Che 'l precipizio tuo dì e notte brama.Già cresce fama a fama il tuo nemico.Tu sai ben quel ch'io dico; or lasci andare; Ch'anco l'è per mostrar a le tue spese,E segual chi non ama il gioco antico.Di già maturo è il fico, e come pare,Temp' è da vendicare tante offese,E far nel mio paese buona stanza,Che di questa speranza è visso altrui.Se ben io fui e son con gli altri in danza,Talchè non più ci avanzaChe'l sangue, e quel forz'era darlo a lui.Seco or nosco è colui, che seco reggeQuel ch' anco i rei, quanto gli piace, alberga.E con l'irata vergaTorran di guardia al lupo il pover gregge.Facilmente chi legge ben m'intende:Chi'l braccio troppo stende il suo mal piglia;Ed invan s assottiglia e si scavezza,Chi de l'ingiusto legge farsi attende.Con ruina discende a grosse migliaChi in aere s'appiglia, e Dio non prezza.Una tarda dolcezza è più soave;Più dolce è quella chiave ch' al fin sciolse;Ma tardar volse poi che messo un coreDi catena aspra e graveIn quella libertà ch'altri gli tolse;S' alcun già mai si dolse, o ancor si dole,Or sarà men l'altrui col suo doloreQuest' empio, non signore,Che dov' egli è, è peggio ch'ei non suole.Con fatti e con parole accorte e saggieVeggio or chi ne sottragge ogni gran cura,Ed a prigion sì oscura un presto lume:Fiorir gigli e viole per le piaggie,E due fere selvaggie intra le mura.Correr senza paura, e d' altre spumeGioir il vicin fiume in pace volto;Poi che'l gran lezzo accolto, qual ei fiaDe l'empia tiranna, via sarà tolto:Veggio con chiaro voltoA le due fiere agevolar la viaBenigna l'una e pia ne'costui danni;E quella che 'l leon s' amica e segue,Non voler pace o tregue,Fin che con lui la brutta bestia azzanni.Vestita d'altri panni,Canzon, s'egli cercasse di me orma,Daglien sol questa norma: ancor ei nacque,Come al ciel piacque, sotto la tua insegna,Ch' or d'uman sangue pregna, non più salda;Né che'n ogni atto rio piantata e rettaIn piè star debba, aspetta;Ma che 'n breve ti sia di foco falda.Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 3469.Vivo mio scoglio, e felce alpestre e dura,le cui chiare faville il cor m'hanno arso,freddo marmo, d'amor, di pietà scarso,vago, quanto più può formar natura:Aspra COLONNA, il cui bel sasso indural'onda del pianto da questi occhi sparso,ove repente hora è fuggito, e sparsotuo lume altero, e chi mel toglie, e fura?O' verdi poggi, ò selve ombrose, e folte,le dolci luci di begli occhi rei,che 'l duol soave fanno, e 'l pianger lieto,a' voi concesse, à me lasso son tolte,et puro fele hor pasce i pensier miei,e 'l cor' doglioso in nulla parte ho queto.Rime di diversi Ecc. Autori, in vita, e in morte dell'Ill.S.Livia Columnae, 1555, pag. 6310.A pandolfo Rucellai, a MuranoNon lasciate quel baccellon nell' orto,Perchè la nebbia gli farebbe danno;Fate che dica a' suoi, se lo rifanno,Ch' abbia l' occhio a tenerlo un po' più corto.E dite a messer Stefan, ch' egli ha il tortoA inviluppar 'n un pelliccion di pannoQuel suo fardel, che i raffi gliel terranno,E pagheranno la gabella e 'l porto.Benché questo pensier tocca a Anniballe,Che deverebbe far ch' il suo maestroNon portassi il sacchetto in su le spalle:Al qual direte, che rompa il balestroCon che ei suol uccellare alle farfalle,Perch' ei ne deve aver pieno il canestro.E se vi verrà destro,Con ambedue le man dite a Marina,Che mastr' Anton la chiama ogni mattina.Ed alla barbierinaPotrete dir, se 'l vostro amor gli aggrada,Che la vi può tosar, ma non vi rada.Tutta questa contradaAbbiam chiamato per farvi un sonetto,Noi di Venezia, e non c' è Benedetto.E vogliam con effettoFarvi veder, che senza RaffaelloNon eri buon per torci quell' agnello;Il qual muor di martello,E molto prega, e molto si riscalda ,Che maestr' Anton non baci la castalda.Ed Enrico ha la falda,Che lo assalisce, e non già da caleffo,L' amor di una magnifica nel ceffo.(Poesie Italiane inedite di Dugento Autori, pag. 196)Note:Estratta dal codice 658 magliabecchianoIl sonetto del Casa sta in un codice magliabechiano, in folio, scritto di mano del calligrafo Ghirardello, che fiorì intorno il mezzo del cinquecento; e sta sotto nome di "Monsignor Giovanni dalla Casa di Venezia a Pandolfo Rucellai a Murano", indicando ancora dove il sonetto fu composto, e dove e a chi mandato .(Trucchi, pag. 174)