Quid novi?

Canzoniere inedito 3


XI.Ciò che di perle, di profumi, e d'oroSotto la plaga oriental s'aduna:Quanto la Persa e la Ottomana LunaHan d'armi, e gemme, e di destrier tesoro;Tutti gl'Imperi che in possanza foroDonde il Sol nasce infin dove s'inbruna;Ogni splendor d'ingegno, e di fortuna;E fin la fronda dello eterno alloro.Vili obbietti parrianmi incontro al voltoDi Lei, che per miracolo d'AmoreMe della Terra, e di me stesso ha tolto.Ma se tanto io darei sol pel valoreNel dolce viso di Costei raccolto,Che non darei per meritarne il cuore?XII.Vedi colà presso la fonte appeseStar quelle canne al ramuscel di un orno.Onde già Elpino a questi colli intorno.L'arte del canto, e i bei carmi m'apprese?Or, come a noi con men torrido mesePiù benigna stagion faccia ritorno,Quando Febo nel Ciel la notte e il giornoSopra bilancia egual moderi e pese:Torrolle io quindi; e con le gonfie goteDolci trarronne, modulando, fuoreI suon dimessi, e le obliate note.Assisa intanto presso al tuo pastore,Con auri attente, e con pupille immote,Tu l'udrai ricantar Cintia ed Amore.XIII.Quella, che i colpi de' tuoi primi sguardiMi fecero nel cor, larga ferita,Sento che aperta trarrò meco in vita,Perchè a saldarla o farle cura è tardi.Ma così cari mi son, Donna, i dardi,Onde col cuor fu l'anima assalita,Che dal tempo io non vuo' chiedere ajta.Chè me ne sani, o incontro a lor mi guardi.Nè a te pur son per dimandarla mai.Dappoi che la pietà di tue paroleM'è gran mercede, e agli occhi tuoi fa scusa.Così, infin che i miei dì numeri il Sole,Vivrò per benedir gli accenti e i rai,Con che a ferire ed a sanar sei usa.XIV.Allor che di mia vita era il mattino.Vago di tòr la libertà agli uccelli,M'era ritratto a un arboscel vicinoCon gabbia, con laccioli e con zimbelli.Quando il carde! più vago infra i cardelliFuggì fra certi rovi il malandrino;Ond'io, che trar volevalo da quelli,Mi trafissi la man con uno spino.E veggendomi allor così feritoA piangere mi posi immantinente,Dall'aspetto del sangue intimorito.Or ve' quant'era semplice e innocente;Che gridai tanto allora per un dito,Mentre adesso pel cor non dico niente.XV.Canta, e dell'amor suo disfoga il duoloEntro romita e placida foresta,Non fra i giardini, dove il Mondo è in festa.Cùpido di quiete il rossignuolo.Il bel cigno real, cui già funestaAmbascia strinse pel febeo figliuolo,Allor si lagna eh'è tranquillo e solo.Non mai se turba d'importun lo infesta.Io pur così, come a que' tristi piace,Modular soglio solitario il canto,Amico de' silenzj e della pace.Ma s'or qui taccio, ove romore è tanto.Il dì verrà che tornerò loquaceAlla delizia del mio cuore accanto.Di Napoli 1823, acrostico.Giuseppe Gioachino BelliDa: "Canzoniere inedito del Belli" in La età dell'oro - Versi di Giuseppe Gioachino Belli - Roma, Dalla Tipografia Salviucci, 1851