Quid novi?

Giulio Camillo 2


IX Di M. Giulio Camillo 11Lega la benda negra A la tua trista fronte, Musa, che ’l gran DELFIN morto accompagni. Sorgi squallida ed egra Dal conturbato fonte E vesti il nudo tuo d’opre di ragni, E i fatti excelsi e magni Del Garzon sempre invitto Sian le funebri pompe. E quella, che interrompe L’alte glorie col termine prescritto, Quai stati sarian gli archi E i trofei mostri, d’ampie spoglie carchi. Dov’eri, Marte fero, Quando salì il tuo sole Dando stupor al ciel del nuovo lume ? Non t’avea già l’Ibero, Non CARLO, che si duole Del vano ardir sul rapido e gran fiume. Qual aria a le tue piume, Sconsolato Cupido, Cedea di nebbia piena? Certo il pianto e la pena Non v’affligeva in Pafo, non in Gnido, Ma in luoghi aspri e selvaggi, Tra prun, cipressi e folminati faggi. Anco a Vulcan del petto In loco arido ed ermo Lavava il duol le ferruginee lane. Lo scudo al giovenetto Fatto tenea, che schermo Saria sol contra a tutte l’armi ispane. Ei de le squadre insane, E di CARLO tra loro, Porta la fuga impressa; La vittoria promessa Si vede tutta nel fabril lavoro, E ’l gran Re co’ suoi figli Coronati di lauro e d’aurei gigli. "Per questo", disse, "il caso Per questo scudo avenne Ad Etna dianzi, mentre tutto accese, Che ’l licor dal gran vaso, Che ’l peso non sostenne, Ridondò nel temprar l’infuso arnese, Onde il vicin paese Dal liquido torrente Di metallo è sommerso. E se Febo perverso Spense il lume ch’uscia dal suo oriente, Anco Cesar morio Quando Etna a i fuochi tante porte aprio. Mentre gli etnei Ciclopi Faticavan l’incude, Tremò la terra e i monti dier mugito, E gli uni e gli altri Etiopi, E ciò che ’l ciel rinchiude, Vider fra i rotti abissi il gran Cocito. Ma perché già ogni lito Bramava l’alma luce, Si tinse il sol d’oscuro, E come invido duro Uccise l’alto e glorioso Duce, Temendo non costui Il mondo discorresse pria di lui". Qui, qui, ninfe sorelle De la mia musa mesta, Venite or molli dal corrente vetro; Spegnete le facelle E con purpurea cesta Nembi di fior versate sul feretro, E come per l’adietro Da le man vostre fiocchi Neve nel morto viso. Ecco che ’l paradiso E tutto ’l bel si chiuse co’ begli occhi; Ma a te, Esculapio adorno, Ei sacrò pria l’augel nunzio del giorno. Sciogli il vel fosco, sconsolata diva, Che ’l Delfin nuovo ENRICO Già col sol gira, e girerà suo amico. 12Occhi, che fulminate fiamme e strali, Or che volete più dal petto mio?Vostr’è ’l mio cor e vostro il mio desio, Cagion del vostro ben e de i miei mali.Già scorgo in voi con l’arco teso e l’ali E con l’ardente face il picciol dio, E par che mi minacci stato rio, Ma prima (ohimè) non vi mostrate tali.E se non che l’angeliche parole Prometton pace a chi l’ascolta ed ode, Mi rimarrei d’entrar in tanto affanno.Ma chi le virtù vostre uniche e sole, Chi la bellezza e l’altre vostre lode Farebbe conte a i secoi che verranno?13Di ben mille mature bionde spiche Cerere armata, e di sé pien il corno, Dicea in un sacro a Giove alto soggiorno Tra le solenni pompe udendo Psiche:"Sante parole del coltel nemiche, Che sopra i bianchi altar fate ogni giorno Quel che sostien il mio candor d’intorno Passar ne l’uman Dio con forze amiche,Al secreto onorato vostro suono Ogni dolce silenzio v’accompagni Ch’in selve asconda il più riposto orrore.Taciti i peccator gridin perdono, Né augel, né ninfa presso a voi si lagni, E prego a me perpetuo tant’onore". 14Occhi, che vergognar fate le stelle Qualor ferite lor co’ maggior lampi, Serenando del ciel gli aperti campi E mostrandogli cose assai più belle,Come d’Adria a l’eterne alte facelle Giugnete, ohimè, perché co’ chiari vampi Non così a i luoghi men lontani ed ampi Ov’è ’l gran mar men rotto da procelle?Che me vedreste qui del mio languire Far testimon di Teti il buon consorte A le radici del gran Pireneo.Occhi, che ne l’amaro mio partire Io vidi asciutti e vaghi di mia morte, Così vedeste or voi me un lieto Orfeo. 15Il verde Egitto per la negra arena, Ma più per quei che l’adornar d’ingegno, Finse già d’amicizia dolce segno La nostra forma d’ogni fede piena.Or di fedel amor, di lunga pena, A la pianta del più felice legno Finta non io ma vera nota vegno Legato di firmissima catena.Così la ninfa tua non tenga spenti I fuochi suoi con quelli di Fetonte Nel più superbo frate ch’abbia il Tebro;Così i latrati miei con grati accenti Muovan tuoi rami e le durezze conte, Onorato, gentil, alto Ginebro. 16Aure leggiadre, ben che mille ardenti Fiamme d’Amor e mille sue fatiche Detto abbian voi le gran memorie antiche Aver sofferto, e mille aspri tormenti,Vincavi la pietà de i gran lamenti Che fa Cupido su le rive apriche, U’ non son fauni, né le ninfe amiche, Ed egli è senza l’ali e i fochi ha spenti.Dameta al vostro suon sotto un laureto Dorme, né sentir può ’l fanciul dal fiume Gridar, ch’un capro lo sospinge a l’onde.Aure fermate, o aure, in aer queto Il mover dolce de le vostre piume, E ’l suono si rimanga entro le fronde. 17Facendo specchio a la mia LIDIA un rio, Che fugge queto senza mover onde Al favor di novelle e ombrose fronde, Di quanto mostra a me, benigno e pio,Parea l’acque corresser con disio D’esser dipinte alor tutte seconde Verso il sembiante onor di quelle fronde, Come il lucido corre al negro mio.Ma tosto fuor de la beata parte Lasciavan la figura, triste e sole, Fatta più bella da un soave riso.Così a’ ruscelli semplici comparte Ed a gli occhi miei folli, quando vuole, Gli schermi suoi e ’l suo fugace riso. 18Udite rivi, o date al corso freno, O senza onda ei sen vada piano e lento, Né ’l faccian tremolar pietra, erba o vento, Se specchi esser volete, o cari almeno.LIDIA, il lume del viso almo e sereno Nel crespo d’un di voi vedendo spento E senza i bei color, prese spavento: Non così fusse, ohimè, venuto meno.Gridava al ciel e ai negri boschi insieme Incolpando il suo foco e la mia cura Con voci tal ch’ancor le valli ingombra:"Ben puoi veder, crudel, s’Amor mi preme, Che per te m’è caduta ogni figura E di me non son più che parte ed ombra". Giulio Camillo (Delminio)Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi - Giolito 1545)