Quid novi?

Canzoniere inedito 9


XLI.Amor, che in questa dilettosa viaPeregrinando, tua mercè, m'hai posto,Deh non venirmi tanto ora discostoCh'io non ti trovi alla difesa mia.Vedi che l'inquieta GelosiaE 'l fier sospetto mi si fanno accosto.Perchè il veleno ch'han seco nascostoPassandomi nel cuor noia mi dia.Tu, se ti piace, ben puoi darmi aitaChe a fugar questi congiurati mostriMentre ch'io giunga al mio fine mi vaglia.Di me pertanto, o Signor mio. ti caglia.Che tu 'l sai pure che i confini nostriStanno al di là di mia misera vita.XLII.Le laudi, i pianti, le proteste, i giuri.Ch'io ti deposi in queste umili carteDunque mi rendi, nò più averli a parteDelli diletti tuoi, Donna, ti curi?Ma chiaro veggo che brev'ora duriN'el fier proposto, e dei presto mutartc,Chiedendo forse di mia debil'arteI travagli passati ed i futuri.Onor sottile e delicato assaiCerto ti pose quel pensiero in coreDi togliermi un rival sin ne' miei versi.Amor nudre però pensier diversiOnde or bene usi s'odi meglio Amore,Che mal consiglio non daratti mai.XLIII.Chi al vostro merto, o Donna, a me fatale,Laude condegna tribuir procuraSpende lo ingegno in opera sì duraChe al saper sempre il buon voler prevale.Però che tanto in su la terra e taleÈ il privilegio che a voi die NaturaChe nell'arte di umana creaturaDicer mai puote quanto e' sia e quale.E solo in questo vi fu il Ciel nemico,Che poi che dievvi la terrena vesteXon ve la pose nel secolo antico.Che allora avuto onor debito avresteDi Torquato compagna e Lodovico,Che ambi fur come voi cosa celeste.XLIV.Quel geloso furor, che in sen ti bolleDov'io di donna o con donna favello,Pensar non devi che a me dia rovello.Come falsa ragion diccr ti volle.Anzi soave mi par quasi e belloQuanto il sorriso tuo die al ciel mi tolle,Da che nell'occhio rubicondo e molleAmor ti veggo, chc Amor eerto è quello.Nè in te sarà giammai ch'io lo condanniSe non in quanto di dolor ti siaPer que' che seco mena acerbi affanni.Dunque se dolce m'è tua gelosiaStimo giustizia che il girar degli anniMostrinti, o donna, a tollerar la mia.XLV.Le lunghe notti e i dì torbidi e brevi(lià il celeste scorpion ci riconduce,Ed il Centauro minaccioso e trucePresto verrà colle ostinate nevi,Sì che omai veggo che il mal giorno lucePeggior fra quanti a me ne scorser grevi.Quando fia che dal tuo fianco mi leviCui mi fu scorta lo mio cieco duce:Dunque, amica, rimanti; e andar mi lasciaDove in amarti e reverirti sempreAvverrà che mia vita si consume.E questo in mezzo all'amorosa ambasciaPensier ti resti, che mutar mai tempreUn affetto non può vòlto in costume.XLVI.Dal caro albergo, dove in gioco e in risoE dolci sdegni e disiate paciPochi teeo menai giorni fugaciFra breve il mio destin m'avrà diviso.Perchè, piangendo, d'infuocati baciStampo que' luoghi, ove sovente assisoA contemplare il tuo placido visoIo stetti, e gli amorosi occhi loquaci.Più non so dirti: chè il dolor mi premeTroppo sul cuore, e stringerai la gola,Signor del corpo e dello spirto mio.Queste accogli però lagrime estreme:Ascolta insiem quest'ultima parola:Addio, mio Nume; addio, mia Cintia, Addio.Giuseppe Gioachino Belli1824Da "Il Canzoniere inedito di G. G. Belli", Estratto dal fascicolo di gennaio 1916 della Rivista d'Italia - Roma Piazza Cavour, Roma - Tipografia dell' Unione Editrice, via Federico Cesi 45In "La Età dell' Oro", Roma dalla Tipografia Salviucci, 1851