Quid novi?

Ad Amalia Bottini...


Ad Amalia Bottini Minardi gentil donna in BolognaEPISTOLAQuando vi arrivi questo mio strambotto,Voi, dopo un atto o due di maraviglia,Correrete alla firma che sta sotto.E vi vorrete stropicciar le cigliaPer dirvi certa che la sia di manoDel vecchio amico di vostra famiglia.Di quello attrito moccicon romanoChe santamente ognor vollevi beneCome far deve ogni fedel cristiano;E appena vi udì poi stretta in cateneDi fior conteste e d' oro in filigrana,Si sentì confortar tutte le vene.Sonmi quel desso, o mia dolce sovrana,Che a prosciogliervi vengo dal sospettoCh' io non fossi in balìa della befana.Che pensato di me, che avrete dettoMentre io scorrea tacendo i mesi e gli anniContro ogni norma di civil rispetto!Giurar lo si potria pel PretejanniSiate corsa a final conclusioneCh'io mutassi di cuor come di panni.Questa sentenza ah troppo in giù mi pone!Pur, pel misfatto' mio, la riconoscoEntro i termini esatti di ragione.Ch' io ben rammento com' io tacqui voscoSin dacchè, fatta sposa, mi scrivesteDalla vostra campagna in Calamosco.Ed io mi vi mostrai ruvido e agresteCol rendervi silenzio quinquennaleA tante care parolette oneste.Errai, peccavi nimis, feci male;Ma più assai che di cuor mancai di senno,E più che prigionia merto spedale.Per carità di Dio, fatemi cennoChe vagliami speranza di perdono;O dall' Albo de' vivi io mi dipenno.Siavi modello la clemenza in trono:E pensate che siamo in CristianiaOve si assolve un uom supplice e prono.Intendiamcela adesso, Amalia mia.Io v' aprirò i recessi del mio cuoreSì che tutto veggiate che ci sia.Quel dì che della Posta il ser fattoreLasciommi a 'casa il vostro ultimo foglioTutto pieno di grazia e buono umore.Provai nel petto un pungolo d'orgoglioPiù che se avesse il popolo volutoCoronarmi poeta in Campidoglio.Tutto lo lessi col divino aiuto,E dentro vi trovai nèttare in copiaDa èmpierne le botti collo imbuto.Dal color suo di malva e d'elitropiaMutossi intanto il mio volto, qual fosseInfardato di minio o di sinopia.Rosse le guance, e rosso il naso, e rosseLe orecchie entrambe, e insiem rossa la fronte,Cotanto il sangue vi affrettò sue mosse.E questo accadde per lo udirmi conteVostre fortune in braccio all' imeneo,Donde spicciovvi di delizie un fonte.Poi chi detto l' avria mi fessi reoDel costume di quello onde fu trattaLa mascella fatale al filisteo!Ma io pensai che a lettera siffattaAltrettale si avesse a contrapporrePer mettere fra lor come una epatta.E ne venni in sul ticchio di comporreUn tal-qual capo-d' opera di stileDa levarmi oltre i merli d' una torre.E lì a darmi di pugna e di staffile,Lì a succhiarmi il cervello onde far maccaDi tal frasario che non fosse vile!Però fur baie: che la mente straccaPer certa sua vigilia antipoeticaMi rispondea pur sempre alla bislacca.Confondea colla estatica la estetica,Prendea per Bonifacio un beneficio,E scambiava la fisica per l' etica.Io mi trovava allora in certo uficio,Angustiato e ristretto al par del fiumeSotto i ponti di Cestio e di Fabricio.Sorgeva appena il Sol per farci lume,E io, vestite le mie brache in fretta,Mi strascinava al solito costume.E in fondo a un bucolin di camerettaGemea fra memoriali e protocolliE carta schiccherata e carta netta.Ed ivi coi capegli or irti or molliDurava in agonia, tanto che l' oraFosse arrivata che assopisce i polli.Poi la dimane alla novella aurora,Ci facevam da capo a quelle gioie,E così l'altra appresso e l'altre ancora.Io mi sentia fra' piè certe pastoieDa non dover più mai movere un passoFuor che tra il guazzo di cotante noie.Come potea sì sdilinquito e lassoLevar l'ingegno mio, donna cortese,Del Boccaccio a' cacumi e a quei del Tasso?Fatto pagar mi avreste e danni e speseS' io vi venia davanti colla boriaDi farla al Sorrentino, e al Certaldese.Questa è di me la genuina istoria:Io non m' era signor dell' intelletto,Pur serbando il volere e la memoria.Quindi aspettar dovea tempo più schiettoChe mi rendesse qualche lena ed agioPer ragionarvi con più degno effetto.Ma il tenor della vita in quel disagioLe fonti avvelenò di mia salute,E me ne andava in fumo adagio-radagio.Scemo si ne restai d' ogni virtuteCh' io pareva un tesor di notomia,Ricco, dal capo al piè, d' ossa e di cute,O di quei che moderna bizzarriaDisegna tisicuzzi e trafilatiQuando vuol darvi il mondo in parodia.Credendo allor miei giorni numerati,I superior che mi fornian la pagaPosermi nel libron de' giubilati.Pur, la costoro idea fu mal presaga;Perch'io, grazie al benefico riposo,Pian-pian sentia saldarsi ogni mia piaga.E già pareami un anno venturosoQuell' ottocenquarantacinque in cuiA riva mi recai pesto e corroso.E stimando finiti i giorni bui,Dissi al figliuol: Chè non facciam viaggio?E ben volea peregrinar con lui.Aspettavam del Sol tiepido il raggio,Per aver dì migliori alla bisognaTra il fin d'aprile e il cominciar di maggio.In cima a' miei disegni era Bologna,Per rivedervi e dimandarvi pace,E sì purgarmi della mia vergogna.Ma ciò invan si desia che al ciel non piace!Ecco addensarsi turbinosa e roggiaL'aria pe' soffi di Garbin vorace.Giù per l' umbre vallee torbida pioggiaMugghia in torrenti, e la gragnuola cadeQual grano al tentennìo de la tramoggia.Effigie non han più campi ne strade;Ed ahi! scorrendo la brumal tempestaIl piccol censo del mio figlio invade!L'onda prorompe in quella parte e in questa,E come non fer mai zappa o badile,Fende, apre e scalza, e dall' urtar non resta.Dove si vide un martellar simile?Parea Natura un villanzon gagliardoChe menasse la vetta e il manfanile.Ugual procella mai non colse il BardoFra le rupi di Scozia, o il pellegrinoSullo Spluga nevoso o il San-Bernardo.Addio frutta e legumi, e pane e vino!Addio cavoli e olio, addio pollastri!Addio cacio e porcèi, canape e lino!Ah! dopo il tocco di sì rei disastriIte, Amalia, a non esser persuasaDi scaldarvi il caffè coi libri-mastri!Animali e ricolti, alberi e casa,Tutto, amica, andò a fascio in quel frangente,E divenne il poder tabula rasa.Che avreste fatto voi saggia e prudente?Pensato avreste a noleggiare il cocchio?Quello era tempo di pensare al dente.Tergendomi una lagrima dall' occhioSviai dunque ogn' idea del picciol Reno,Come vi avviso in questo scarabocchio.Potuto avessi ravviarla almenoNella annata dipoi! ma, o buona amica,Punsemi in quella un peggior dardo il seno.Di quel nôvo flagel tedio e faticaMi sa il racconto: eppure in due paroleVel dirò se volete che vel dica.Il dolce figliuol mio, l'unica proleDi cui donommi il ciel, parve in quell'annoDover per sempre chiuder gli occhi al Sole.Qui lascio a voi del mio paterno affannoSenso e pittura: io son pur vivo, e bastiPer farvi fede che non n' ebbi il danno.Ben cinque lune andâr dubbi i contrastiFra la morte e la vita; e pel mio cuoreFur cencinquanta dì tutti nefasti.Per tanti il corso del letal maloreTennemi, Amalia, in un pensier sospeso,In un solo pensier: muore e non muore!Ma se il ciel volle che ne uscisse illeso,Venga or la povertà, non mi spaventa:Or Lucullo io mi estimo, Attalo e Creso.Se il figlio è vivo, ogni mia noia è spenta.Fra gli agi e lo splendor, fra gli ori e gli ostri,Non sempre, Amalia mia, l'alma è contenta.Adesso che i miei casi hovvi dimostri,Adesso che v'ho detto i fatti miei,Discorriamola un po' de' fatti vostri.Tante cose di voi saper vorrei,Che, a noverarle, mi vedrei riduttoA sommarvi i signati degli ebrei.E non mi rispondete asciutto-asciutto,Toglietevi di bocca il chiavistello,Dite il più, dite il men, ditemi tutto.Parlatemi del vostro Raffaello,Che mi saluterete tanto tantoPoi che diceste ch' è sì buono e bello.Nè vi scordate di notar se intantoCh' io mi tacea vi nacquero bambiniA dirvi mamma e a folleggiarvi accanto.Poi fra più cari che vi stan vicini,Di madonna Lucrezia e della CeccaDatemi conto per mille zecchini.E siate cauta di non farmi peccaS' io metto a lor novelle un prezzo d' oro,Poi che son quelle donne oro di zecca.Voi ben sapete ch'io l'amo e le onoroQuanto amo e onoro voi: perciò desioSalvo sempre il lor debito decoro.Giunto alla fin de lo strambotto mioPiglio la ceralacca e accendo il fuocoEd in far ciò vi raccomando a Dio,E, dopo Iddio, vi raccomando al cuoco.Giuseppe Gioachino Belli2 febbraio 1847Da "Poesie inedite" di Giuseppe Gioachino Belli Romano, Volume 1", Roma, Tipografia Salviucci 1865, pagina 55-65