Quid novi?

Claudio Achillini 6 sonetti (2)


Sei sonetti di Claudio AchilliniNella selva presso il Reno, al ritorno dalla corte di RomaA Gasparo ErcolanoSiedo al rezzo gentil di selva antica,che se stessa nel Ren pinge e vagheggia,or che il sol bacia Sirio e ne fiammeggiaed arde quasi la campagna aprica.Qui par che il fiume in suo tenor mi dica:- De’ bei riposi tuoi questa è la reggia;qui pur sui colli del tuo cor verdeggiala fronda degli ulivi al cielo amica. -Gasparo, io sento in su l’ombrosa rivamormorando recarmi il picciol Renola pace, che col Tebro al mar fuggiva.Cosí l’ore tranquille e quel sereno,cui l’aprico di Roma a me copriva,svelato godo a le bell’ombre in seno.Ombra di nuove foglieOr che del Sol piú temperato è il raggio,il fiume che dormia fra bei cristallisi sveglia e segue in sugli obliqui calli,garrulo peregrino, il suo vïaggio.Saluta l’usignuolo in suo linguaggioapril, che tanti fior vermigli e giallisemina su le piagge e su le valli,vago forier d’un odorato maggio.E perché d’ombre il pastorel s’invoglia,a lo spirar di placid’aura i’ veggioche verde il bosco a quel desio s’infoglia.E dice: - A te m’inchino, a te verdeggio;e l’ombre mie la giovinetta fogliatesse col sole e ti ricama il seggio. -Sic vos non vobisIo corsi, o bella Dora, ogni tua riva,quanto cura d’onor stimola e preme;e vidi pur la rinascente olivaporgere un nobil verde a la mia speme.Con la man, con la lingua, io sparsi un seme,che lá sul Tebro il suo bel fior m’apriva;onde il mio cor, che per lung’uso geme,nel dolcissimo april lieto gioiva.Giá d’oro eran le spiche, al monte, al piano,quando, per riportar le mie fatiche,straniero mietitor non giunse invano.Corrono il solco mio falci nemiche,taglian la cara mèsse, e quella manoche nulla seminò, miete le spiche.La morte e il testamento di San GiuseppeAl padre Gioacchino Ciomei, cappuccinoIn braccio a Cristo, agli angeli, a Mariaera nel letticiuol Gioseffo assiso,e stava per morire e non moria,ché non sapea morire in paradiso.Ma l’etá, ma il dolore al cor conquisoinsegnò del morire al fin la via;e lo spirto, omai quasi diviso,converso a Cristo in questi detti uscia:- Io moro, o figlio, e la paterna fedevuol che del mio retaggio non ti frodi,ma vi succeda tu, l’unico erede.Vanne, e le mie fortune accetta e godi;stendivi pur la man, drizzavi il piede,ché troverai martelli e travi e chiodi. -Il fior di passioneFassi colá ne’ messicani regni,mercé d’un fior, religïoso aprile.Mira che spiega in su la foglia umiledei tormenti di Cristo espressi i segni.Bel libro di natura, ai sacri ingegnide’ sacri libri imitator gentile,tu ne’ tuoi fogli in adorato stilele pene altrui, la mia salute insegni.Se fia giammai che degli odor su l’alida’ tuoi sanguigni e tormentosi inestivoli dentro il mio cor duol de’ miei mali;oh me felice allor, che da funesticaratteri trarrò sensi vitali,e da terreno fior, frutti celesti!A Luigi XIII dopo la presa della Roccella e la liberazione di CasaleSudate, o fochi, a preparar metalli,e voi, ferri vitali, itene pronti,ite di Paro a sviscerare i montiper inalzar colossi al re de’ Galli.Vinse l’invitta ròcca e de’ vassallispezzò gli orgogli a le rubelle fronti,e machinando inusitati pontidiè fuga ai mari e gli converse in valli.Volò quindi su l’Alpi e il ferro strinse,e con mano d’Astrea gli alti litigi,temuto solo e non veduto, estinse.Ceda le palme pur Roma a Parigi:ché se Cesare venne e vide e vinse,venne, vinse e non vide il gran Luigi.Claudio AchilliniDa: "Lirici marinisti". A cura di Benedetto Croce. Collana Scrittori d'Italia, pagg. 47 - 54. Bari, Gius. Laterza & Figli, 1910