Quid novi?

Kài sù tèknon


Tu quoqueDalle scuole medie in poi siamo convinti che Cesare, pugnalato dai congiurati tra cui l'amatissimo Bruto, spirò dicendo: Tu quoque Brute fili mi, cioè ‘Anche tu, Bruto, figlio mio!'. Esclamazione estrema di un Romano morente, ovviamente in latino...Ahimè: Cesare pronunciò (più o meno) questa fase in greco, che era la sua seconda lingua e quella che gli veniva spontaneamente alle labbra nei momenti di concitazione.I Romani ben educati dell'epoca erano perfettamente bi-lingui, così come i nobili russi dell'‘800 parlavano normalmente francese tra di loro (e probabilmente anche sul letto di morte). Non Tu quoque bensì - sorpresa - Kài sù tèknon, ‘Anche tu, figlio', fu quello che Cesare ebbe la forza di mormorare stramazzando al suolo.Appunto perché non è quella latina l'esclamazione autentica, ve ne sono più versioni. Per gli inglesi la frase è citata come: Et tu, Brute, e si rimane stupiti del nostro famoso Tu quoque. In effetti si tratta di due traduzioni successive in latino, con l'identico significato.Ma sempre dal semi-ignorato originale greco Kài sù tèknon.Purtroppo io non ero presente in Senato quel giorno delle Idi di Marzo dell'anno 44 avanti Cristo, ma c'è poco da cincischiare. La nostra principale fonte al riguardo cioè lo storiografo Svetonio, che scriveva 150 dopo ma doveva saperlo sempre meglio di noi a due millenni di distanza, precisa senza mezzi termini che Kài su tèknon furono le ultime parole di Cesare e - elemento decisivo - le riporta non in latino ma in greco nel suo testo (lib. I, cap.82). Il celebre Tu quoque Brute fili mi, cioè la (nostra) traduzione in latino con piccole aggiunte per rendere la storica frase più chiara e rotonda, ci è stato poi tramandato per due millenni: facendoci sempre commuovere, ma su una base sbagliata.Da Voce Romana, n. 12, novembre-dicembre 2011