Quid novi?

Una stravagante cena


Ben 107 code, per un totale di 335 versi, compongono il seguente sonetto caudato che, forse, potrebbe essere il più lungo sonetto mai scritto. Il sonetto di Lazzero Migliorucci è tratto da "Poemetti Giocosi tratti dalle note del Biscioni al Malmantile", Bologna 1823, presso i Fratelli Masi. Con approvazione.Descrizione d'una stravagante cenaAl Prior di Settignano - Sopra una cena statali fattaSonetto caudatoIo ho più volte una cosa osservata,Che mai la sorte prospera mi dura:Perchè se oggi avrò qualche ventura,Doman m'è la disgrazia apparecchiata.Alla buona fortuna accompagnataSempre mai mi succede una sciagura;Il dì di San Martino alla sua CuraEbbi una giocondissima giornata.Sarebbe stato uno straordinario,Signor Priore, se il giorno seguenteNon m' avveniva poi tutto il contrario.
Un certo Tessitor mio conoscente,Che si tosa da me per ordinario,Quando i capelli lunghi aver si sente;Venne improvvisamenteDove io stava in bottega scioperato,E salutommi con modo garbato;Io subito rizzatoGli voleva da dosso il mantel torre,E in seggiola a seder lo volea porre.Ma egli: Non occorre,Disse, stasera non vengo al Barbiere,Ma perchè mi facciate un gran piacere.Io subito a temereCominciai da paura sopraggiunto,Che esser pensai d'una frecciata giunto;E m'era messo in puntoPer far che il colpo non avesse effetto;Quand'egli mi cavò d' ogni sospetto,Dicendomi: Io v'aspettoChe voi pigliate meco ora la via,E ne venghiate a cena a casa mia;Dove una compagniaV' aspetta quivi d'uomini galantiAmicissimi vostri tutti quanti.A me, che m'era avantiUna povera cena preparataPer goder lieto colla mia brigata,Non fu tal cosa grata,E stetti in dubbio d' ire, o ricusareAlfin non me ne seppi liberare.Avemmo a camminareUn miglio, e più, che sta di là dal fiumeSenz'aver pur non ch'altro, un po'di lume.Giunti all'uscio al barlumeInnanzi che n'entrassimo al copertoNoi lo picchiammo dieci volte al certo.Ma poi che ci fu apertoEntrammo dentro come due ladroniTastando del terren tutti i cantoni.Me n' andava tentoniE m' atteneva a lui; ch'avea sospettoDi non cadere in qualche trabocchetto.Per un andito strettoSento tirarmi, dove sull'entrataIo battei una sudicia stincata.La scala alfin trovataCominciammo a salir su certi gradi,Che non vi si sarebber fermi i dadi;Mobili, stretti, e radiD'assacce mal confitte, e mal pulitiChe le camozze non gli avrian saliti.Domeneddio m'aitiDicea, quando metteva un piede in fallo,E sopra a uno scalin casco a cavallo.Al corpo di cristallo,Che mai non detti alla mia vita crollo,Dov' io credeva più rompere il collo.Al romor del tracolloChe rimbombò dal tetto al fondamentoComparve un lumicin che parea spento,Si facea lume a stento;Una lucciola fa lume maggiore,Ed un gatto ha negli occhi più splendore;Ma pur col suo favoreRiebbi un piè che avea di già fallitoE mi parve d'averne un buon partito.M'era fatto speditoE per salvare il resto io mi ricordoChe una gamba averei data d'accordo.Così mezzo balordo,Prima mi resi in colpa, e mi segnai,E poi dietro a colui m' arrampicaiIl qual si dolse assaiMeco, pietoso della mia disgrazia,Ed io diceva: egli è per vostra grazia.Almanco fosse saziaQui la fortuna; ma per quel ch'io veggioIl mal mi preme, e mi spaventa il peggio;Nè dico da motteggioPerchè da un lato il muro dell'ospizioMi vedeva, e dall' altro un precipizio.Mi valse aver giudizioEd il sapermi ben contrappesare:Alla fine finimmo di montare.Ed eccoci arrivareIn una stanza grande, come un'aia,A prima giunta ingombra di telaia,Con puntelli a migliaiaCalcole, e subbj, e stromenti sì fatti,Dove passar non puoi se tu non batti.Sebbene in sala intattiMercè passammo della guida accorta,Senza trovar però tramezzo o porta.Quivi da me fu scortaN'un guardo sol di quella PalaginaBottega, sala, camera, e cucina.In guisa di cortinaUna stoia n' un canto ciondolava,Apponetevi ciò, ch' ella turava.Accanto a questa stavaPoco lontano il letto sulle panche,Che invitava a posar le genti stanche;E la madia eravi anche:Seguitavano poi casse e predelleE sull'armario pentole, e scodelle.Romaioli, e padellePendevano dal muro in ordinanza,Mestole, e mestolini in abbondanza.Vedendomi la stanzaL'ospite mio guardar minutamenteDisse: Me ne sto qui colla mia gente.Va bene unicamenteGli rispos'io, l'è casa di stuporeDa poterci abitare ogni Signore.Intanto a farmi onoreTre si rizzaron, ch'erano al caldanoUno de' quali presemi per mano.Quest'era uomo sovrano,Per lavorar girandole da seta,Bevon famoso, e poi mezzo Poeta.Egli con faccia lietaMi fece festa, ed io ne feci a lui,E dopo salutai quegli altri dui.Mentre che con costuiLe cerimonie faceva, il PadroneChe noi ci risciacquiam le mani impone.Ivi dentro un secchioneComun coll'insalata la lavanda.Avemmo (poichè lui così comanda)Poi due da una banda,E tre dall'altra ci ponemmo al desco,Lontan dal fuoco, sebben gli era fresco.Or qui di me fuor esco;Musa, che fosti a quel pasto presenteDeh raccontalo tu minutamente.Venne primieramenteL'erba: gli do tal nome generale,Non d'insalata, che non v'era sale:E sebbene un boccaleV'era d'aceto, non avea sapore:Ma l'olio ne sapea quanto un dottore.Io son di quest'umoreChe fosse olio di sasso, o laurino,Si stomachevol era, ed assassino.Quel che pel mio bambinoQuando gli ha i bachi, mi danno a BadiaSì spiacevole al gusto non saria.Io per la parte miaPresi una foglia, ma da quella in suEbbi il mio conto, non ne volli più.Dopo questa ci fuDi salsiccia un tegame innanzi posto,Non so, s'ella era lessa, o l'era arrosto;In guazzetto piuttosto,Che nuotavano i rocchii nel lardume,Siccome i pesci nuotano nel fiume.Io, che sempre ho costumeDi rosolargli, le spalle ristrinsi,E come gli altri pur del pane intinsi;E in bocca me lo spinsi,E mi sforzava di mandarlo a basso,Ma quattro o cinque volte fece un chiasso;Perchè l'odioso grassoNon voleva lo stomaco tenere;E mi fu forza domandar da bere.Mi fu porto un bicchiereIn fuor che l' orlo molto ben lavato,Pieno di certo vin nero morato,Fiorito, come un prato,E con disgusto la bocca vi porsi,E chiusi gli occhi, e fecine due morsi;Voleva dir due sorsi,Oimè! che non fu prima entrato dentro,Che ricercommi dagli estremi al centro.S'io n'esco, mai più c'entro,Diceva; intanto un rocchio sopra il tondoMi veggo, e il vo' trinciar, per dargli fondo,E levarlo dal mondo;Ma non potetti mai con un coltelloPassar l'impenetrabile budello.Credo certo che quelloFosse fatato dal capo alle piante,Come era Orlando già Signor d'Anglante.Per questo in uno istanteMe lo bisognò sciorre, e poi votarlo,E come morsellato masticarloNon avendo a tagliarloColtel temprato all' infernal fucinaCome la spada già di Fallerina.O che rara guainaSarebbe stata! oh che stupendo astuccio,Poichè fu rotto l'incantato buccio!Al corpo di San Puccio,Quando lo diedi al gatto mi ricordo,Per rovella le man sempre mi mordo.Fui pure il gran balordo,Che per borsa serbar me lo dovevaE metterci i quattrin quando ne aveva:Che sicuro potevaDa mariuoli e tagliaborse stare,Che non l'avrian potuta mai tagliare.Lasciatemi tornareA dirvi quel, che gli trovai nel seno;State a sentir Signor: di quel ripienoLa carne era la meno,Se un pepe stato fossevi, o curiandoloEra per certo qualche grande scandolo.Trovai ben' io cercandoloOssi, e in gran copia poi nervi, e lardelli,Ma sopra tutto brucioli, e fuscelli.Credo che ginocchielliVi fossero, e cotenne, e piedi, e ugna,E carne secca vecchia, e sego, e sugna.Che maladette pugna,S' io avessi avuto quello sciaguratoChe l' avea fatta, gli averei donato.Io tutto stomacatoNe feci un dono a quella stessa micia,Che prima aveva avuta la camicia.Sulla tavola sbriciaVennero intanto l' ultime vivande,Dentro ad un piatto grande, grande, grande,Che da tutte le bandeVi s'arrivava con comoditade;A riguardarlo era una dignitade.Parea d'una cittade,O di qualche Fortezza il baloardoTutto ripien di cavolo bastardo.Fissando allor lo sguardoVidi tra foglia, e foglia, di quel cavoloUna branca scappar fuori di Diavolo.Mentr' io così guardavoloDisse il Padron di casa: è quello un polloAl qual tre ore son tirato ho il collo.Com' egli sarà frolloLo sentirete; chi me l'ha vendutoDice, che egli è cappon vecchio canuto.Io che gli avea vedutoIn quella zampa sei deta di sprone,Non me lo volli ber per un cappone.Quest'era un gallione,Ch'aveva innanzi al mattutino alboreCantato almanco cinquant'anni l'ore.Ma prima con furore,Il compar gallo lasciando da sezzo,La demmo addosso al cavol verde mezzo.Mi valse essere avvezzoGli sparagi a mangiar, perchè in quel modoIl tenero mangiai, lasciando il sodo.Non vi rimase il brodo:In breve la bigutta fu speditaDa cinque mani, e venticinque dita.Nell'ultimo ghermitaQuella bestiaccia di casa il MessereLa pose per tagliar sopra il tagliere.Poi con quel gran potere,Col qual tagliar suol macellaro il bue,Così con un coltel vi dette sue.Ma del cucchiricueNon divide però la pelle, o sconcia,Nè l' intacca, non che ne tagli un oncia.Che come nella conciaIl cuoio suol per cuocersi indurire,Tal' avea fatto egli per bollire.Nol potendo ferireLascia il coltello, (tant' ira l'accese)E col crudo animal venne alle prese.Dopo mille contese,E mille stenti, ne fe tanti brani,Appunto quanti n'eramo Cristiani.Alzando poi le maniFacemmo al tocco, dove che al contareIl primo fui, ma l'ultimo al pigliare.Credetti spiritare,Quando alla mia pietanza posi cura,Ch'era a vederla cosa orrenda, e scura.Mi toccò per sciagura,Il capo che pareva di dragoneOrribil più che il teschio del Gorgone.Temetti, ed a ragione:E di toccarlo punto non ardivo;Canchero! Mi parea che fosse vivo,E facesse motivo;La cresta intirizzata tentennava,Apriva il becco, e gli occhi stralunava;Tal ch'io tutto tremavaPer lo timor che non mi s'avventasseN'un tratto al viso e non mi bezzicasseE mordesse e storpiasse;Però con un piattel subitamenteCoprii quel brutto capo di serpente.Tengo sicuramenteChe un ciurmator la testa spaventosaAvria pagato qualsivoglia cosa.Ch' alla gente curiosaPubblicamente l'avrebbe mostratoPer qualche basilisco avvelenato.E mi fu poi levatoDinanzi tal ch'io non lo vidi più:Della qualcosa ringraziai .....Questa la fine fuSignor Prior d'un splendido banchetto,Del quale ogni minuzia non v'ho detto.Quivi sopra un deschettoSedei, che quanto fu lunga la cenaNon restò mai di fare all'altalena.Ma questa fu la pena,Che della spesa si fece il contoEd una lira ad isborsar fui pronto.Con tutto quest' affrontoEbbi a dar loro ancor trattenimentoImprovvisando malamente, e a stento.Al fine io presi vento,E dal trespolo zoppo mi rizzai,Poi dalla compagnia mi licenziai.E per non tornar maiDi quella casa con un crocioneBenedissi ogni sasso, ogni mattone,Con mala intenzioneChe se colui a radersi più viene,Vo' che del tutto mi paghi le pene.Lasciate fare a mene:Voglio, che si ricordi di chiamareLa gente a cena, e poi farla pagare.Lazzero Migliorucci(vissuto probabilmente a cavallo tra il 1600 ed il 1700: vedi "Notizie di medici, maestri di musica e cantori, pittori, architetti, scultori ed altri artisti italiani in Polonia e Polacchi in Italia, raccolte de Sebastiano Ciampi, R. Corrispondente attivo di scienze e lettere in Italia pel Regno di Polonia. Con appendice degli artisti italiani in Russia, ecc" di Sebastiano Ciampi, Tip. di J. Balatresi, 1830 - 159 pagine).Più precise notizie sul Migliorucci, denominato "Maestro Lazzero Barbiere" è possibile trovarle in "Le veglie piacevoli, ovvero Notizie de' più bizzarri e giocondi uomini toscani, le quali possono servire servire di utile trattenimento", Negozio Zatta, 1762. In base alle notizie qui riportate, Maestro Lazzero sarebbe vissuto nella prima metà del XVII Secolo.