Quid novi?

Jacopo Sannazzaro


Il volume "Rime di Poeti italiani del Secolo XVI", Bologna, presso Gaetano Romagnoli, 1873, pagg. 12-14 (a cura di Antonio Ceruti), riporta due sonetti ed una canzone di Jacopo Sannazzaro (Napoli, 28 luglio 1457 - Napoli, 6 agosto 1530).Gli occhi gentil , ch' al sole invidia fannoQuando ritorna alla memoria ardenteQuel suave pensier che sì soventeQuel suave pensier che sì soventeQuel suave pensier che sì soventeA me stesso mi fura e in ciel mi mena,M' avea tolto dal mondo e dalla gente,E allontanato già d' ogni mia pena.Quando quella mia luce alma e serena,Fulgurando d' un foco onesto, ardente,Subito quasi un sol mi fu presente,Tal che aiacciar sentii ciascuna vena;E tanto via maggior fu la paura.Quanto più repentino a me s' offerseQuel dolce assalto. O cieca mia ventura,Perché quando a' belli occhi il cor s' aperse,Non ne cacciò questa altra nebbia oscura,E ricovrò le sue virtù disperse?Gli occhi gentil, ch' al sole invidia fannoGli occhi gentil, ch' al sole invidia fannoCon sue vaghezze inusitate e nove,Certi dell' arder mio per mille proveEbber pietade del mio lungo affanno;E per ristoro alfin d'ogni mio danno,Acciò che 'l rimembrar vie più mi giove,Fer lieti e miei, che giorno e notte altroveGià per usanza rimirar non sanno.Cosi fortuna un tempo acerba e ria,Or dolce e piana par che si disarme,Se da tal corso il ciel non la disvia.La qual per più beato al mondo farme,Mosse in quel punto la nimica miaCon un dolce sospiro a salutarme.
Quando ritorna alla memoria ardenteQuando ritorna alla memoria ardenteL' immagin di quel giorno oscuro e rio,Che fu l'estremo fin del viver mio,Partendosi il mio sol verso occidente,Son le virtù vitali allor si spente,Che già per lagrimar non dà vigoreAgli occhi il debil core,Che per soverchio ardor perse ha le vieDelle lagrime mie.Fra li segni mortal questo é più forte,Non poter pianger l' uom sua propria morte.Non sento il laccio, no, del dolce orgoglio,Che liquefatto dal continuo focoSi trasformava in pianto a poco a poco.Più ch' altro non dovea ; lasso mi doglio,Vo sospirando d' uno in altro scoglio,Dove sento dal mar rotto e dal ventoConforme al mio lamento,Ivi prendo piacer di sì gran duoloDi lamentarmi solo;Ma più m' affligge ch' io possa soffrireDel mondo il maggior mal senza morire.Ella segui volando il suo camino,E 'l clamor delle misere sorelle,Penetrò l'aureo tempio delle stelleDove l'increbbe a lor dato destino;Pianse Vesuvio e 'l bel monte vicino,Pianse il lito Baiano e l'acque amene,E le sulfuree vene;E quel dolce bagnuol, che si rimembraDelle divine membra,Disse plorando: Io non vedrò più quella,Che al mondo viddi sola ignuda e bella.Al mio signor invitto,Canzon, te n' anderai senza paura;Con lui parla sicura,Se spiasse di me, digli ch'io vivo,Se un che sempre muor, si può dir vivo.Jacopo Sannazzaro (Napoli, 28 luglio 1457 - Napoli, 6 agosto 1530)Rime di Poeti italiani del Secolo XVI, Bologna, presso Gaetano Romagnoli, 1873, pagg. 12-14 (a cura di Antonio Ceruti).