Quid novi?

Francesco Petrarca


Francesco PetrarcaMorto nel MCCCLXXIV.In qual parte del Cielo, in quale IdeaEra l'esempio onde Natura tolseQuel bel viso leggiadro in ch'ella volseMostrar quaggiù quanto lassù potea?Qual ninfa in fonti, in selve mai qual DeaChiome d'oro sì fine all'aura sciolse?Quando un cor tante in sè virtuti accolse?Benchè la somma è di mia morte rea!Per divina bellezza indarno mira,Chi gli occhi di costei giammai non videCome soavemente ella gli gira:Non sa come Amor sana e come ancide,Chi non sa come dolce ella sospiraE come dolce parla e dolce ride.Francesco Petrarca
PETRARCA. Ne' poeti anteriori le fantasie dell'amore ideale sono abbozzate con estro passionato, con grazia schietta ed originale: nel Petrarca sono disegnate più esattamente, dipinte con tinte più calde e mirabilmente adornate. - In questo sonetto la parola Idea, stando a' Platonici, significa modello primitivo sul quale Iddio e la Natura formano poscia più o meno perfetti gli enti dell'universo. - L'ottavo verso è una pennellata da maestro: e gitta un inimitabile chiaroscuro con quella rapida riflessione che le belle doti della donna amata esacerbano la passione dell'animo innamorato: ed è vero pur troppo! - Nel verso nono, in quelle parole mira per bellezza sottintendesi facilmente per trovare; ed è uno de' mille modi spediti co' quali questo poeta padroneggiando la lingua seppe abbreviarla, arricchirla e nobilitarla; e riesce chiarissimo sempre: bensì chi vuole in questa parte imitarlo riesce oscuro; tanto può l'ingegno! - L'ultimo verso è della povera Saffo, in quell'ode:Colui mi sembra agli alti Dei simileChe teco siede, e sì soavementeCantar t'ascolta, e in atto sì gentileDolce ridente.Com'io ti veggio, palpitar mi sentoNel petto il core; in quel beato istanteNon vien più suono d'amoroso accentoSul labbro ansante:Muta s'intrica la mia lingua; accensaScorre ogni vena; ronza tintinnioDentro gli orecchi; notte alta s'addensaSul guardo mio:Sudor di gelo le mie guance innonda,Tremito assale e abbrivida ogni membro,E senza spirti, pallida qual fronda,Morta rassembro.Quest'ode io tradussi, or sono vent'anni o più; e tenni il metro greco inventato da Saffo: sol vi ho aggiunto le rime; né so d'averla neppur mai ricopiata: ma fidando che solamente pochissimi la leggeranno, la stamperò qui (benchè senta lo stile assai giovanile), affinchè si raffronti come i Greci e i nostri esprimano diversamente le passioni del cuore. Saffo dipinge ardentemente gli accidenti naturali dell'amore, e il Petrarca le immaginazioni ideali. Anche Orazio chiude una ode col dolce parlante, dolce ridente, che trovasi nella prima strofetta di Saffo; se non che nel poeta latino la stessa idea e le stesse parole spirano più amenità che passione: tanto gli scrittori, malgrado ogni loro studio, denno obbedire al cuore che detta sempre secondo gli affetti ch'ei prova. Il Petrarca essendo più affettuoso d'Orazio e men sensuale di Saffo potè ritenere l'eleganza latina e temprare il furor della poetessa; onde alla circostanza del dolce parlare e del dolce ridere aggiunse di suo il bel verso:Chi non sa come dolce ella sospira! -È gran lite fra' critici se Giustina Levi Perotti da Sassoferrato, contemporanea del Petrarca, abbiagli intitolato il seguente sonetto, nel quale gli propone se a donna si disdica l'aspirare a fama di poetessa:Io vorrei pur drizzar queste mie piumeColà, Signor, dove il desio m'invita,E dopo morte rimaner in vitaCol chiaro di virtute inclito lume.Ma 'l volgo inerte che, dal rio costumeVinto, ha d'ogni suo ben la via smarrita,Come degna di biasmo ognor m'additaCh'ir tenti d'Elicona al sacro fiume.All'ago, al fuso, più ch'al lauro o al mirto,Come che qui non sia la gloria mia,Vuol ch'abbia sempre questa mente intesa,Dimmi tu omai, che per più dritta viaA Parnaso ten'vai, nobile spirto:Dovrò dunque lasciar sì degna impresa?V'è certa lindura che pare posteriore a quell'età. - ir, troncatura d'ire, com'è nel verso ottavo, dicesi anche oggi in poesia invece di andare. - A ogni modo gli eruditi ne fanno merito alla Giustina. Certo è che il sonetto:La gola, il sonno, e le ozïose piume ecc.fu dal Petrarca scritto per le rime in risposta a questo; e sciolse il problema da quel poeta galante ch'egli era.Da: "Vestigi della storia del sonetto italiano", di Ugo Foscolo, Salerno 1816.