Malgrado esistano almeno una trentina di pubblicazioni che riguardano Cecco Angiolieri, mi sembra che ancora non sia stata scritta una parola definitiva sul personaggio, la cui opera poetica è stata, per la prima volta nel 1904, pubblicata integralmente (almeno tale era il giudizio dell'autore) da Aldo Massera, il quale nel giro di un paio d'anni, aggiornò "il corpus Angiolieri", portandolo a ben 150 sonetti, molti dei quali erano in realtà attribuibili -e sono stati attribuiti in seguito- ad altri autori. Ad oggi la consistenza del corpus, malgrado siano stati nel frattempo svolti altri lavori sul tema, è fermo alla stima, operata da Gigi Cavalli (Cecco Angiolieri, Rime, a cura di Gigi Cavalli, Milano, Rizzoli, 1959; nuova edizione nel 1979) e da Antonio Lanza (Cecco Angiolieri, Le rime, a cura di Antonio Lanza, Roma, Archivio Guido Izzi, 1990), in 129 componimenti, dei quali soltanto 108 sembrano sicuramente attribuibili a Cecco Angiolieri, la cui figura personale sembra attualmente essere valutata in maniera migliore, rispetto ai "primordi".Una sintesi della figura del Poeta è stata delineata da Silvia Chessa nei seguenti termini:"Cecco di Angioliero Angiolieri e di monna Lisa Salimbeni, entrambi nell'ordine dei «Milites Beatae Virginis Mariae», nacque a Siena probabilmente nel 1260. La famiglia, nobile, guelfa e iscritta all'arte del cambio possedeva una casa nel popolo di S. Cristofano del terzo di Camollia. Il D'Ancona incorse in un'errata identificazione - per l'omonimia con un Cecco Angiolieri cortonese, marito di Uguccia Casali, ancora vivo nel 1329 - risolta e corretta poi dal Mancini. La lunga lista dei figli comprende Meo, Deo, Angelerio, Arbolina e Simone, nominati nel documento del 25 febbraio 1313 (rifiuto dell'eredità paterna), cui va aggiunta Tessa, all'epoca già emancipata. Cecco fu oggetto di alcune multe: per assenza durante l'assedio di Turri di Maremma (1280-1281) e al processo per il ferimento di Dino di Bernardino da Monteluco (1291); per violazione del coprifuoco (cfr. Applauso Cecco) e in occasione della vendita di una vigna (1302). Sulla questione del suo esilio vedi Applauso Cecco. Forse, nella guerra del 1288-1289 in cui Senesi e Fiorentini combatterono contro Arezzo, conobbe Dante.".Ben diversa era l'opinione di Domenico Giuliotti, il quale nel 1914 si espresse in termini ben più duri (e con tale citazione terminerò il post, scusandomi per l'eccessiva lunghezza):"Nato in Siena, intorno al 1258, morì Cecco Angiolieri, probabilmente, dopo il primo decennio del Trecento. Suo padre, Angioliero, fu ricco, avaro, bacchettone e, per disgrazia del figlio, come questi confessa, longevo. Sua madre, una monna Lisa de' Salimbeni, non dissimile dal marito, parve rispetto a Cecco più che madre matrigna. L'uno a denari lo «tenne magro»; l'altra l'odiò fino al delitto. Un giorno, per aver chiesto al padre un fiasco di vino stretto, ricevè sulla faccia, dal vecchio imbestialito, uno sputo; altra volta, credendolo addormentato, tentò la madre, con le proprie mani, di soffocarlo; un'altra volta ancora, essendo ammalato, gli porse, per medicina, veleno. Ma son perfidie che racconta Cecco, e può mentire. Quel che è certo, è che il figlio era l'opposto de' genitori: quindi liti. Amò questa buona lana le taverne, i postriboli, il giuoco, la gente equivoca e, perdutamente, i denari per farne sperpero. Ma denari, vivi i genitori, ebbe sproporzionatissimi al bisogno. Di qui umor nero, bassa disperazione, odio; e se, verseggiando, la «malinconia» ebbe sempre a fianco; più che «Ninfa Gentile» pindemontiana fu, questa romantica musa, in compagnia di tal drudo, bagascia. Anche trescò Cecco, lungamente, in onta al padre, con una plebea di Fonte Branda che, da uccellatrice saputa, secondo il caso, lo zimbellò o lo respinse. Ebbe per amici giuocatori, pederasti, falsari, ubriaconi e ladri; uno di questi (il Fortarrigo, di cui narra il Boccaccio) gli rubò i denari con tutti i panni e lo lasciò beffato e bastonato, di là da Buonconvento, in aperta campagna, in camicia. Soldato, armi ed armatura, all'assedio di Turri, in Maremma, si giuocò e perdè. Due volte fa multato: L'una «pro sua absentia» dall'esercito, l'altra per ischiamazzi notturni; e d'un suo bando da Siena, per non si sa qual bricconata, parlò egli stesso, in un sonetto, dall'esilio, a un amico. Amò per giunta, nonchè le donne, carnalmente gli uomini; sposò, in ultimo, sembra, per forza, una femmina vecchia, brutta, litigiosa, avara e tutta impataccata di belletti; s'accapigliò, in versi, con la propria miseria, col padre, con la madre, con la moglie, con Mino Zeppa (baciapile e ladro) con l'amicone e poi nemico Ciampolino, con varii senesi che mise in ridicolo e perfino (com'è noto) con Dante Alighieri che insultò bassamente. In ultimo, carico di figliuoli, parve metter giudizio e si diè a commerciare in cuoiami. Ma la morte, invocata mezzo per burla quand'era pazzo, l'agguantò, allora da savio, e lo scaraventò, cinquantenne, nell'altro mondo. Ecco l'uomo.Artista, Cecco Angiolieri è l'unico legno torto della letteratura italiana. Circondatelo di tutti i rimatori provenzaleggianti, guittoniani e del Dolce Stil Nuovo e vi farà l'effetto d'un troncaccio d'albero nodoso fra tanti regoli piallati. Confrontatelo, poniamo, con Pieraccio Tedaldi, il solo del gruppo borghese che gli s'accosti, e v'accorgerete d'averlo ingiustamente offeso col mettergli accanto una scimmia. Rileggetevi tutti i burleschi, da Rustico di Filippo al Berni e dal Berni al Guadaguoli e vi convincerete che il figlio dello «'ncoiato» non assomiglia a nessuno. Negli altri, fra l'uomo e l'artista, c'è, più o meno avvertibile, uno spazio vuoto; in lui l'uomo e l'artista son tutt'uno. Negli altri troveremo motivi ripetuti, buffoneria studiata, ingegnoso artifizio e, sopratutto, patina letteraria che la briosità popolaresca attutisce ed ingrigia. Ma Cecco Angiolieri, moralmente dalla Natura male impastato, non si vela né si maschera: è lui. Forse non sa nennneno d'essere artista e ignora che il grillo della poesia lo salverà dall'oblio. Se lo sapesse, lui, l'epicureo volgare senza un soldo, scimmiotterebbe probabilmente i poeti aristocratici della scuola del Guinizelli e sarebbe freddo, pesante, falso, impacciato e ridicolo corne un villano in una reggia. Invece -in mezzo a un popolo cresciuto, dopo Montaperti, rapidamente in potenza politica e in floridezza economica, e tutto variegato di misticismo e di sensualismo, e sempre pronto alle risse e agli amori, alle processioni e lile gozzoviglie e vano, secondo Dante, e leggermente pazzo, di generazione in generazione, fino ad oggi, secondo la voce comune- Cecco Angiolieri, dalle vie, dalle piazze, da' postriboli e dalle taverne, aggirandosi e mescolandosi tra la gioventù più scapestrata e la più bassa plebaglia, assimila, senza saperlo, tutte le vivacità, le volgarità, le malizie, i traslati, gli scorci e le brutalità del vernacolo e (costringendo questo, senza violentarlo, nella forma chiusa del sonetto) ci racconta tutto se stesso, ne' suoi odii, ne' suoi amori, nelle sue miserie e nelle sue turpezze, come nessun uomo, con pari noncuranza del proprio pudore e con altrettanta incosciente sincerità, fece mai. Ecco perché, corne artista, dopo seicento anni, è ancor fresco e, come uomo, sebben tristo e fangoso, più che repugnare, diverte.".
Cecco Angiolieri
Malgrado esistano almeno una trentina di pubblicazioni che riguardano Cecco Angiolieri, mi sembra che ancora non sia stata scritta una parola definitiva sul personaggio, la cui opera poetica è stata, per la prima volta nel 1904, pubblicata integralmente (almeno tale era il giudizio dell'autore) da Aldo Massera, il quale nel giro di un paio d'anni, aggiornò "il corpus Angiolieri", portandolo a ben 150 sonetti, molti dei quali erano in realtà attribuibili -e sono stati attribuiti in seguito- ad altri autori. Ad oggi la consistenza del corpus, malgrado siano stati nel frattempo svolti altri lavori sul tema, è fermo alla stima, operata da Gigi Cavalli (Cecco Angiolieri, Rime, a cura di Gigi Cavalli, Milano, Rizzoli, 1959; nuova edizione nel 1979) e da Antonio Lanza (Cecco Angiolieri, Le rime, a cura di Antonio Lanza, Roma, Archivio Guido Izzi, 1990), in 129 componimenti, dei quali soltanto 108 sembrano sicuramente attribuibili a Cecco Angiolieri, la cui figura personale sembra attualmente essere valutata in maniera migliore, rispetto ai "primordi".Una sintesi della figura del Poeta è stata delineata da Silvia Chessa nei seguenti termini:"Cecco di Angioliero Angiolieri e di monna Lisa Salimbeni, entrambi nell'ordine dei «Milites Beatae Virginis Mariae», nacque a Siena probabilmente nel 1260. La famiglia, nobile, guelfa e iscritta all'arte del cambio possedeva una casa nel popolo di S. Cristofano del terzo di Camollia. Il D'Ancona incorse in un'errata identificazione - per l'omonimia con un Cecco Angiolieri cortonese, marito di Uguccia Casali, ancora vivo nel 1329 - risolta e corretta poi dal Mancini. La lunga lista dei figli comprende Meo, Deo, Angelerio, Arbolina e Simone, nominati nel documento del 25 febbraio 1313 (rifiuto dell'eredità paterna), cui va aggiunta Tessa, all'epoca già emancipata. Cecco fu oggetto di alcune multe: per assenza durante l'assedio di Turri di Maremma (1280-1281) e al processo per il ferimento di Dino di Bernardino da Monteluco (1291); per violazione del coprifuoco (cfr. Applauso Cecco) e in occasione della vendita di una vigna (1302). Sulla questione del suo esilio vedi Applauso Cecco. Forse, nella guerra del 1288-1289 in cui Senesi e Fiorentini combatterono contro Arezzo, conobbe Dante.".Ben diversa era l'opinione di Domenico Giuliotti, il quale nel 1914 si espresse in termini ben più duri (e con tale citazione terminerò il post, scusandomi per l'eccessiva lunghezza):"Nato in Siena, intorno al 1258, morì Cecco Angiolieri, probabilmente, dopo il primo decennio del Trecento. Suo padre, Angioliero, fu ricco, avaro, bacchettone e, per disgrazia del figlio, come questi confessa, longevo. Sua madre, una monna Lisa de' Salimbeni, non dissimile dal marito, parve rispetto a Cecco più che madre matrigna. L'uno a denari lo «tenne magro»; l'altra l'odiò fino al delitto. Un giorno, per aver chiesto al padre un fiasco di vino stretto, ricevè sulla faccia, dal vecchio imbestialito, uno sputo; altra volta, credendolo addormentato, tentò la madre, con le proprie mani, di soffocarlo; un'altra volta ancora, essendo ammalato, gli porse, per medicina, veleno. Ma son perfidie che racconta Cecco, e può mentire. Quel che è certo, è che il figlio era l'opposto de' genitori: quindi liti. Amò questa buona lana le taverne, i postriboli, il giuoco, la gente equivoca e, perdutamente, i denari per farne sperpero. Ma denari, vivi i genitori, ebbe sproporzionatissimi al bisogno. Di qui umor nero, bassa disperazione, odio; e se, verseggiando, la «malinconia» ebbe sempre a fianco; più che «Ninfa Gentile» pindemontiana fu, questa romantica musa, in compagnia di tal drudo, bagascia. Anche trescò Cecco, lungamente, in onta al padre, con una plebea di Fonte Branda che, da uccellatrice saputa, secondo il caso, lo zimbellò o lo respinse. Ebbe per amici giuocatori, pederasti, falsari, ubriaconi e ladri; uno di questi (il Fortarrigo, di cui narra il Boccaccio) gli rubò i denari con tutti i panni e lo lasciò beffato e bastonato, di là da Buonconvento, in aperta campagna, in camicia. Soldato, armi ed armatura, all'assedio di Turri, in Maremma, si giuocò e perdè. Due volte fa multato: L'una «pro sua absentia» dall'esercito, l'altra per ischiamazzi notturni; e d'un suo bando da Siena, per non si sa qual bricconata, parlò egli stesso, in un sonetto, dall'esilio, a un amico. Amò per giunta, nonchè le donne, carnalmente gli uomini; sposò, in ultimo, sembra, per forza, una femmina vecchia, brutta, litigiosa, avara e tutta impataccata di belletti; s'accapigliò, in versi, con la propria miseria, col padre, con la madre, con la moglie, con Mino Zeppa (baciapile e ladro) con l'amicone e poi nemico Ciampolino, con varii senesi che mise in ridicolo e perfino (com'è noto) con Dante Alighieri che insultò bassamente. In ultimo, carico di figliuoli, parve metter giudizio e si diè a commerciare in cuoiami. Ma la morte, invocata mezzo per burla quand'era pazzo, l'agguantò, allora da savio, e lo scaraventò, cinquantenne, nell'altro mondo. Ecco l'uomo.Artista, Cecco Angiolieri è l'unico legno torto della letteratura italiana. Circondatelo di tutti i rimatori provenzaleggianti, guittoniani e del Dolce Stil Nuovo e vi farà l'effetto d'un troncaccio d'albero nodoso fra tanti regoli piallati. Confrontatelo, poniamo, con Pieraccio Tedaldi, il solo del gruppo borghese che gli s'accosti, e v'accorgerete d'averlo ingiustamente offeso col mettergli accanto una scimmia. Rileggetevi tutti i burleschi, da Rustico di Filippo al Berni e dal Berni al Guadaguoli e vi convincerete che il figlio dello «'ncoiato» non assomiglia a nessuno. Negli altri, fra l'uomo e l'artista, c'è, più o meno avvertibile, uno spazio vuoto; in lui l'uomo e l'artista son tutt'uno. Negli altri troveremo motivi ripetuti, buffoneria studiata, ingegnoso artifizio e, sopratutto, patina letteraria che la briosità popolaresca attutisce ed ingrigia. Ma Cecco Angiolieri, moralmente dalla Natura male impastato, non si vela né si maschera: è lui. Forse non sa nennneno d'essere artista e ignora che il grillo della poesia lo salverà dall'oblio. Se lo sapesse, lui, l'epicureo volgare senza un soldo, scimmiotterebbe probabilmente i poeti aristocratici della scuola del Guinizelli e sarebbe freddo, pesante, falso, impacciato e ridicolo corne un villano in una reggia. Invece -in mezzo a un popolo cresciuto, dopo Montaperti, rapidamente in potenza politica e in floridezza economica, e tutto variegato di misticismo e di sensualismo, e sempre pronto alle risse e agli amori, alle processioni e lile gozzoviglie e vano, secondo Dante, e leggermente pazzo, di generazione in generazione, fino ad oggi, secondo la voce comune- Cecco Angiolieri, dalle vie, dalle piazze, da' postriboli e dalle taverne, aggirandosi e mescolandosi tra la gioventù più scapestrata e la più bassa plebaglia, assimila, senza saperlo, tutte le vivacità, le volgarità, le malizie, i traslati, gli scorci e le brutalità del vernacolo e (costringendo questo, senza violentarlo, nella forma chiusa del sonetto) ci racconta tutto se stesso, ne' suoi odii, ne' suoi amori, nelle sue miserie e nelle sue turpezze, come nessun uomo, con pari noncuranza del proprio pudore e con altrettanta incosciente sincerità, fece mai. Ecco perché, corne artista, dopo seicento anni, è ancor fresco e, come uomo, sebben tristo e fangoso, più che repugnare, diverte.".