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Messaggi del 23/11/2014

Il Dittamondo (1-05)

Post n°669 pubblicato il 23 Novembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO PRIMO

CAPITOLO V

Come il nocchier, ch’è stato in gran tempesta, 
che, se vede da lunge piaggia o porto, 
affretta i remi e fa letizia e festa, 
cosí, avendo di lontano scorto 
uno in cui io sperava alcun consiglio, 5 
accrebbi i passi con lieto conforto. 
Appena era ito un terzo di miglio, 
che li fui presso e vidil tanto degno, 
ch’io lo ’nchinai, con la man sopra il ciglio. 
Poco del corpo, lettor, tel disegno; 10 
bianco era e biondo e la sua faccia onesta, 
con piccioletta bocca e d’alto ingegno. 
Qual vuol Mercurio, tal parea la vesta 
un libro avea ne la sinistra mano 
e, ne la dritta, tenea una sesta. 15 
E giunto a me costui, piú che umano 
rispuose al cenno e disse: "In cui ti fidi, 
che vai sí sol per luogo tanto strano? 
Senno non fai, se non hai chi ti guidi: 
però che tanto è diverso il cammino, 20 
che piú a pena alcun giá mai ne vidi". 
"Per cercar mi son mosso pellegrino 
del mondo quel che ne concede il sole 
e piú, se ’l poter fosse al mio dimino; 
ma qual non puote in tutto ciò che vole, 25 
far li convien secondo che ha la possa": 
cotal risposta fen le mie parole. 
E sopragiunsi poi: "Questa mia mossa 
non crediate sí lieve, ché per fermo, 
udendo il ver, non vi parrá sí grossa: 30 
ché per fuggir la morte, ov’era infermo, 
l’ardire impresi, che follia tenete, 
e per consiglio l’ebbi d’altrui sermo". 
"Io non avea d’udirti sí gran sete, 
quando qui ti scontrai, qual mi sento ora 35 
che m’hai preso il pensier con altra rete: 
e però non t’incresca dirmi ancora 
piú chiaramente, a ciò che me’ comprenda, 
dove tu vai e un poco dimora. 
E se tu stai, non creder che si spenda 40 
indarno il tempo: forse è tua ventura 
d’avermi qui trovato e ch’io t’intenda: 
ch’io so del mondo il modo e la misura 
io so de’ cieli; io so sotto qual clima 
andar si può e dove è gran paura". 45 
"O caro padre, il tempo non si stima, 
diss’io, per me, com’è vostra credenza, 
e quanto piace a voi fia la mia rima". 
Allor li feci in tutto conoscenza 
del lungo tempo mio senza fren corso 50 
e senza lume e senza provedenza 
e come, me veggendo tanto scorso, 
vergogna e ira punse lo ’ntelletto 
e fui del fallo mio gramo e rimorso; 
e che, per ristorar tanto difetto 55 
e non morir nel mondo come belva, 
presi ’l cammin cotal, qual io v’ho detto; 
poi come dentro da la trista selva 
una donna gentil m’era apparita 
e destò il cuore, il quale ancor s’inselva. 60 
Tutta li dissi a punto la mia vita; 
ond’ello a me: "Figliuol, questa tua impresa 
assai mi par da essere gradita. 
Ma guarda che tu sie di tanta spesa 
fornito, quanto a tal cammin bisogna, 
sí che ’l troppo voler non torni offesa: 
ché spesso avièn ch’ uom riceve rampogna 
di folle impresa, onde sarebbe meglio 
lasciarla star, che portarne vergogna". 
E io a lui: "Pur mo a ciò mi sveglio, 70 
come v’ho detto, e figuro nel core 
la pecchia per asempro e per ispeglio, 
che va cogliendo d’uno in altro fiore 
la dolce manna per luoghi diversi, 
di che poi vive e onde acquista onore. 75 
Cosí pens’io per piú paesi spersi 
raunare con pena e con fatica 
quel mel, ch’a me sia dolce e ai miei versi". 
"Quando ne l’uomo un buon voler s’abbica 
e mancagli il poder, rispuose adesso, 80 
atar si dee come la cosa amica. 
E però a la impresa, in che se’ messo, 
giovar ti voglio d’alcuna moneta, 
sí che t’aiuti a’ tempi per te stesso. 
D’alpi, di mari e di fiumi s’inreta 85 
la terra, per che l’uomo alcuna volta 
ci è preso, come vermo che s’inseta. 
Onde, se non t’annoia, ora m’ascolta, 
sí che, se truovi manco ad alcun passo, 
veggi da te perché la via t’è tolta". 90 
Per ch’io, come a lui piacque, fermai il passo. 

 
 
 

In morte della Contessa Lara

Foto di valerio.sampieri

In morte della Contessa Lara

Lo pseudonimo romantico Contessa Lara, adottato dalla scrittrice Eva Cattermole Mancini, nascondeva una donna ”…il cui passato, se a quelli che la circondavano era noto, restava avvolto nel mistero, stimolatore di fantasie e desideri vaghi, per coloro che, lontani, la conoscevano soltanto a traverso i versi spesso ispirati… ad un sincero momento ,lirico, a traverso le novelle, gli articoli, le rassegne di mode e di libri, a traverso tutti quegli scritti di varietà che le davano la fama, e spesse volte la toglievano dalla fame. ….” (Achille Macchia, La ”Conessa Lara”, in: “Novelle”, Napoli, 1914, p.9), e pareva scelto a bella posta per suscitare interesse di curiosità attorno ad una delle figure femminili indiscutibilmente dal temperamento “ …più poetico ed amoroso, lirico ed umano…” della seconda metà dell’800.
Le svariate avventure amorose della Contessa Lara, il suo vagabondaggio sentimentale - che essa stessa commenta in alcuni scritti -, non fanno che acuire la curiosità intorno a questo personaggio romantico che, infine, le sarà fatale. Eternamente innamorata e insoddisfatta dell’amore, morirà infatti il 30 novembre 1896, uccisa da tre revolverate dal pittore Pierantoni, suo ultimo amante.

Il sito DigitaMi riporta il testo di cui sopra quale nota bibliografica. Mi sembra interessante il seguente articolo di Matilde Serao, riportato in tale volumetto.


Dal " Mattino " di Napoli

Io non ho mai potuto incontrare la contessa Lara senza provare meraviglia e pietà. Meraviglia: giacché vedendo il suo volto e le sue vesti, udendo la sua voce e le sue parole, comprendendo quel che pensava e quel che sentiva, la fantastica, poetica e anche vituperevole leggenda tessuta intorno a lei, impallidiva, svaniva. La sua beltà fulgida, irresistibile: la sua bizzaria di creatura complicata e misteriosa: la sua eleganza singolare: la sua completa mancanza di cuore: il suo disprezzo di ogni virtù e di ogni pudore: ecco quello che era, la leggenda della contessa Lara, di questa povera infelice che è stata assassinata, ieri l' altro! Ebbene, già dieci anni sono la sua fragile beltà di bionda era sfiorita, consunta: i suoi occhi erano stanchi e deboli: i suoi capelli erano arruffati, un po' incolti: e, quel che é più, ella non aveva l' aria di
preoccuparsi di questa decadenza. Vestiva alla meglio, nascondendo il suo viso sotto fitte velette nascondendo la sua persona sotto un gran mantello, non seguendo le mode di cui parlava spesso e bene, non trovando mai una occasione di fare una grande toilette, non adornandosi mai dei pochi gioielli che possedeva: infine, mancando del tutto di quella infernale civetteria e di quella squisita eleganza cui i suoi cronisti la ingiuriavano e la corteggiavano. Questo essere accusato di avere in se un' anima complessa, nascondente Dio sa quali profondi abissi di perfidia, viveva senza odio e senza fiele, incapace di dir male di una donna o di un collega di lavoro, incapace d'invidiare, incapace di riportare una calunnia o un pettegolezzo: e così, senza nessuna posa semplicemente, fin troppo semplicemente, fino a far dubitare che ella fosse un ingegno acuto e un'anima vibrante! Questa poetessa accusata dei più strani gusti, andava da se, borghesemente a comperare la cicoria per rendere il suo caffè meno eccìtante e meno costoso: quando alla sera, la sua serva se ne andava, spesso ella si metteva uno scialletto sulla testa e andava a comperar un francobollo di un soldo dal tabaccaio della cantonata: ella andava in omnibus, o a piedi: ella scriveva su carta comune, senza motto, senza suggello curioso, senza ceralacca a colori estetici: ella faceva delle economie: ella aveva persino, questa poetessa folle, un curatore delle poche migliaia di lire che possedeva, Narciso Pelosini, un avvocato, un deputato, che è morto anche lui! Questa sirena ammaliatrice che, non aveva più, a trentacinqueanni, nè bellezza nè eleganza, questa donna dallo pseudonimo romantico che accomodava da sè i suoi vecchi corsages aggiungendovi un fiocco di nastro o un merletto, questa crudele che amava tanto i bimbi, i fiori, gli animali, questa perversa che, quasi, neppure davanti alla morte voleva denunciare il suo assassino, era una creatura di fatica, un essere che passava ore e ore, a scrivere, senza stancarsi, senza troppo pretendere, non seccando nè i direttori di giornali, nè i lettori, lavorando quando gli altri si divertivano, e sciupando i suoi poveri occhi malati sulla carta, correndo da una redazione di giornale alla posta, vegliando tardi, mangiando in una trattoria o sovra un angolo di tavola. Ella produceva della prosa senza fine, e dei versi talvolta. Bei versi, limpidi, e schietti, senza gelida preziosità, senza pretensioni psicologiche, ma che dicevano sempre qualche cosa di tenue e di appassionato: prosa gentile, un po' scialba, un po' prolissa, ma sempre piacevole alla lettura.
.....
Ahimè, ella non è stata vecchia! Il brivido tenue di sgomento che ella c' ispirava, corrispondeva all'oscuro sua fato, a questo colpo di rivoltella, un sol colpo, che così sicuramente l'ha presa, a questo assassinio commesso non per amore, non per gelosia, ma per laida vendetta d'interesse deluso: era il presentimento di una punizione tremenda che scendeva su lei, che era stata una donna, una signora, una scrittrice di gran talento, una poetessa, e che era destinata a perire come una delle ultime perdute, che uccide un amante ignoto! Ognuno di noi, vedendola, l'ultima volta, ha avuto il sentore mistico di una catastrofe qualunque che la travolgesse: ed è stata travolta: e la pietà, di adesso, anche è vana, poichè era detto che nessun uomo e nessuna cosa potessero mai giovare, beneficare, confortare la infelice!
MATILDE SERAO.

 
 
 

Sonetti di Angiola Cimina

Post n°667 pubblicato il 23 Novembre 2014 da valerio.sampieri
 

Sonetti di Angiola Cimina

Di Angiola Cimina, Marchesana della Petrella, deceduta nel 1726, alla quale fu dedicata, in commemorazione della sua morte, una raccolta di poesie di Gerardo De Angelis, in un volumetto di 67 pagine, edito a Firenze nel 1728, conosco i seguenti sette sonetti, tutti pubblicati in "Delle Rime scelte di Varj Illustri Poeti Napoletani", Volume Secondo, In Firenze A spese di Antonio Muzio, 1723:

1. Finor seguendo i tuoi desir mio core
2. L'alma, che giace in quest'afflitta spoglia
3. Lieta ne vo per quelle piagge amene
4. Non amo io te con quel sì basso amore
5. Presso quel fonte Amore ognor mi mena
6. Senno, vertude, angelico 'ntelletto
7. Vertù dal Mondo un tempo già partìa


1.
Finor seguendo i tuoi desir mio core
menato ho i giorni lagrimosi, e tristi;
or più non bramo che si turbi, e attristi
mia stanca mente per tuo van dolore.

Sia lungi omai da te quel folle amore,
onde cotanta pena, e duol soffristi,
e d'uopo sia che sol vaghezza acquisti
d'alme virtù, di glorioso onore.

Questo è quel ben, che l'uom fa chiaro al Mondo,
e lo scampa da Lete, e al ricco seno
di Dio l'innalza nel superno Regno.

O bel disdetto, o avventuroso sdegno,
che 'l mesto viver mio farà giocondo,
fuor d'ogni affanno, e d'alta gioia pieno.


2.
L'alma, che giace in quest'afflitta spoglia
Sdegnosa sempre, e in atre cure involta,
Schiva nel velo fral più star sepolta,
E di gir colassuso ognor s'invoglia.

Spesso a fuggir di questa bassa soglia
S'avanza, e 'nfiamma; e poscia in se rivolta,
Oimè, dice ella, a che vaneggio, o stolta,
E del molto fallir l'accresce doglia.

Umil poi volta al suo divin Fattore,
Gli chier mercè de l'orgoglioso ardire;
Poichè del suo voler quegli è Signore.

Nè può aspirare a sì sublime onore,
Nè del carcer mortal puot'ella uscire,
E al Ciel Poggiar, se non è fuor d'errore.


3.
Lieta ne vo per quelle piagge amene,
cogliendo in verde prato i più bei fiori,
e 'l canto udendo degli augei canori,
ond'è sgombro il mio cor d'affanni, e pene.

Meco sovente ragionando viene
la vaga Nice, e la vezzosa Clori,
che in lieti accenti i lor felici amori
mi fan palesi, e la lor dubbia spene.

Poi tra candidi gigli, e fresche rose
su l'erba molle al chiaro fonte accanto
l'aura godiam, che dolcemente spira.

E finch' il Sol s'asconde in riso, e canto
l'ore passiam; né mai cure nojose
cangian sì bel piacer in doglia, e in ira.


4.
Non amo io te con quel sì basso amore,
Con cui ama la stolta, e volgar gente,
Che a vil piacer va dietro, il qual repente
Fugge, e sol lascia pentimento al core:

Ma in me nobil pudico, e vivo ardore
Il petto accese, ed infiammò la mente
di bel disio, e pura voglia ardente
D'amar sol ciò, che reca pregio e onore.

L'alta eccelsa vertù, che 'n te risiede,
E fa nel mondo il nome tuo sì chiaro
E' solo il bel, che in te vagheggio, ed amo.

E infelice a ragione ognor mi chiamo,
Poiché de l'opre tue l'esemplo raro
Empio Fato imitar non mi concede.


5.
Presso quel fonte Amore ognor mi mena,
Ove solea veder l'empio Pastore,
Che mi rapì con finti vezzi il core,
Per poi renderlo a me carco di pena:

Ma l'infedel non trovo, e giunta appena,
O qual si sveglia in me fero dolore,
Talchè vinta da sdegno, e forte amore,
Senza voce rimango, e senza lena.

Mesta poi riedo a la Capanna mia,
Tutta negli atti dispettosa, e trista,
E 'l mio gregge abbandono a mezza via.

Non curando che preda a' lupi fia
Il più vago agnellino; e sol m'attrista
Che l'infido Pastor mia fede obblia.


6.
Senno, vertude, angelico 'ntelletto,
Spirto reale a ben' oprar sol nato,
il gran Motor ti diede, e rese ornato
il tuo, d'ogni suo don, ben degno petto.

E sommi fregi, a imprese uniche eletto,
aggiugni al sangue; e 'n sì sublime stato
hai co' tuoi dotti carmi al Mondo dato
lume da contemplar l'alto subbjetto.

Così carco t'en vai d'eccelso onore,
alzando il volo di que' spirti a paro,
che stan da presso al primo eterno Amore.

Né mai potrà l'invido tempo avaro
scemare i tuoi gran pregi, almo Signore,
ma sia tuo nome ognor laudato, e chiaro.


7.
Vertù dal Mondo un tempo già partìa,
Se 'l Ciel non fea riparo a' nostri mali;
poich'uom mandò sì raro a noi mortali,
che pien d'acceso amor quella seguìa;

quando il vid'ella, omai, disse, ben fia
ch'io gioiosa rimanga in mezzo a' frali,
perché adorno è costui di pregi tali,
ch'unita al suo bel cor convien ch'io stia.

Ma qual fu l'uom sì glorioso, e degno,
cui non preme de' vizj il grave pondo,
e fama ognor divulga i vanti suoi:

Doria, tu fosti, e lo fece chiaro a noi
tua grande virtù; sicché tu se' del Mondo
in questo secol nostro alto sostegno.

 
 
 

Marchesa Colombi

Post n°666 pubblicato il 23 Novembre 2014 da valerio.sampieri
 

Marchesa Colombi

La Gente per bene - Leggi di convenienza sociale
Torino, Presso la Direzione del Giornale delle Donne, Via di Po, N.1, piano terzo, 1877.

INTRODUZIONE

Le mie gentili lettrici, e i gentili lettori - dato che vi sieno lettori pel mio libriccino, e che sieno gentili, - debbono usarmi la cortesia di tornare colla mente alla presentazione che l'illustre commediografo Paolo Ferrari fece loro di me, Marchesa Colombi, in una serata che dedicò a Parini ed alla satira.
Si ricordano l'epoca di quella presentazione?
Fu poco dopo la pubblicazione del Mattino di Parini, fatta, come ognuno sa, nel 1763.
Io ero giovane, giovanissima allora, sposa da poco tempo. Non avevo che diciasette anni; non uno di più. Ma, se ai diciasette che avevo allora, aggiungo i centoventisei che sono trascorsi, non posso a meno di riconoscere che la mia fede di nascita deve attribuirmi la venerabile età di 130 anni.
Questo calcolo deve averlo fatto - poco galantemente bisogna convenire - il signor Amerìgo Vespucci direttore del Giornale delle Donne, il quale mi disse:
"Lei, Marchesa, che vive da tanti e tanti anni nella società elegante, che ha potuto osservarne i costumi durante tre o quattro generazioni, dovrebbe scrivermi un libro, che trattasse appunto dei doveri e delle convenienze sociali. Una specie di Galateo moderno, che, preso a studiare anche da una persona che abbia vissuto sempre in campagna, le servisse di guida, e le insegnasse a condursi ed a figurar bene in tutte le circostanze della vita."
Una cosa che mi ha sempre inspirato uno spavento indicibile, e mi ha preservata dal peccato capitale - non compreso fra i sette condannati dalla Santa Chiesa - di far gemere i torchi, è la critica.
L'idea di quei giudici ignoti, che sezionano un lavoro, lo tagliano, lo spolpano, lo analizzano, lo lambiccano sotto gli occhi dell'autore, senza commoversi menomamente allo strazio del suo cuore paterno, mi mette nello stato di sgomento d'un povero scolaretto, il quale deve esporre la sua pagina, il giorno degli esami, ad una Commissione esaminatrice, che non si compone dei suoi maestri, che gli è affatto ignota, che lui considera come un tribunale venerabile e pauroso.
Ora, il genere di libro che mi propose il signor Vespucci dovrebbe avere per critici naturali le signore. E però, dato anche che il tribunale supremo delle appendici di giornali avesse voluto scendere ad occuparsi di simile inezia, avrebbe sempre dovuto consultare su molti punti un giurì di signore, prima di pronunciare il suo terribile verdetto.
Ed io aveva tanta fede nell'indulgenza delle signore, che ne presi coraggio, ed accettai l'incarico.
Ai tempi remoti della mia giovinezza, non esisteva ancora il bel Galateo di Melchiorre Gioia. - E fra tutti gli altri libri dello stesso genere, pubblicati prima e dopo di esso, l'unico usato generalmente, era quello di Monsignor Della Casa, un vero gioiello di spirito, reso anche più ameno dallo stile candidamente ricercato e solenne, del cinquecento.
Ma l'illustre prelato scriveva il suo libro dedicandolo ad un giovinetto, conciossiacosachè questi cominciasse appena il viaggio della vita, che egli stava per compiere. E però sentiva il dovere di ammonirlo di non fare in compagnia cose laide o fetide, o schife o stomachevoli; di non spruzzare nel viso i circostanti, nel tossire e nello starnutare; di non urlare o ragghiar come un asino sbadigliando; e, soffiando il naso, di non aprire il moccichino e guatarvi dentro come se perle e rubini dovessero esser discesi dal celabro, ecc., ecc.
Tutti questi ammaestramenti negativi, sono pregevolissimi senza dubbio. Tanto pregevoli che riuscirono, con lungo andare, a sradicare completamente tra la gente per bene quelle straordinarie abitudini. Ma, per ciò appunto, è affatto inutile ch'io mi occupi di particolari tanto rudimentali, conciossiacosachè i miei lettori - se Dio vuole - non ne hanno bisogno, ed i Bosiemanni e le Pelli Rosse, a cui potrebbero ancora giovare, dubito molto che mi vogliano far l'onore di leggermi.
Il Galateo di Monsignor Della Casa è completo, ragionato, tanto da elevarsi quasi all'altezza d'un trattato di morale. Io sono certa, e rassegnata a priori, di non poter fare un lavoro, non dirò migliore, - sarebbe una pretesa ridicola, - ma neppure che s'avvicini al merito di quello. E tuttavia lo faccio. - Perchè?
Perchè vi sono certe cose speciali ai nostri tempi, ai nostri costumi, che io posso dire, perchè in questi costumi ed in questi tempi ci vivo, e che in nessun galateo antico si trovano, oppure vi si trovano differenti da quelle che pratichiamo tra noi.
Cadono le città, cadono i regni, e cadono le costumanze adottate fra la gente civile.
- Ai tempi di Monsignor Della Casa erano considerate inciviltà parecchie cose che ora sono ammesse. Invece non si troverà nulla nei galatei antichi sullo scambio delle carte di visita, sulle partecipazioni di matrimoni, nascite, morti, guarigioni; sulle strette di mano; sul contegno da tenere in viaggio, e tante altre cose che appartengono alle nostre usanze moderne.
È per questo soltanto - non per fare meglio di nessuno, ma per far altro - che imprendo a scrivere il mio galateo moderno. Ed in esso intendo parlare a persone ammodo che, se possono ignorare, tutte od in parte, le convenienze sociali, non hanno bisogno ch'io insegni loro l'a b c della creanza.
Non farò del mio libro un trattato di morale; sarebbe superfluo il pretendere d'instillare in tutti gli animi i veri sentimenti a cui debbono ispirarsi le leggi della cortesia; sentimenti che, del resto, si riassumono tutti nella massima: «Non fate ad altri quello che non vorreste fosse fatto a voi.»
Pur troppo i sentimenti umani hanno un limite, e sono pochi i filantropi che possono largire una parte del loro affetto a ciascuno dei loro simili. Non serve negarlo. Tutti possiamo avere rapporti con persone che ci sono uggiose, antipatiche, indifferenti. Tutti gli argomenti morali ch'io potrei scrivere non muterebbero questi sentimenti impulsivi. Mi limiterò dunque ad indicare quello scambio di cortesie che si praticano fra persone educate, e che l'uso generale ha fatto passare in costume: se saranno soltanto cortesie di forma, pazienza! Sarà sempre meglio che seguire l'impulso, e fare uno sgarbo ad una persona che non piace.
Dai dieci comandamenti del Decalogo derivarono tutti i trattati di morale che si scrissero poi, con tutti i loro raffinamenti e perfezionamenti. E dalle prime regole di civiltà insegnate da Monsignor Della Casa, emerse la cortesia cavalleresca dei nostri babbi, quella un po' più... cavalière - sono costretta a dirlo in francese - che usiamo noi; ed emergerà pure la civiltà più gentile, lo spero, e raffinata, che beatificherà l'esistenza dei nostri nepoti fino alla più remota discendenza.
È là, in quella parte di libriccino secentista, che ho imparato per la prima volta a condurmi coi miei simili, e però, tutto quanto so delle convenienze sociali, il mio galateo, ed i galatei di tutti i tempi che verranno, non sono altro che l'eredità di Monsignor Della Casa.

Il sito DigitaMi (La Biblioteca Digitale di Milano) riporta la seguente scheda bibliografica:

Vissuta in un ambiente culturalmente stimolante, con un passato che, lasciando trapelare uno stile di vita non del tutto conforme ai canoni tradizionali del suo tempo, evidenzia la ricerca di personale autonomia materiale, culturale ed artistica, la Marchesa Colombi, diverte ed affascina con questo manuale di bon ton, intenzionalmente rivolto ad un pubblico di giovinette e fanciulle.
Considerata una tra le più spregiudicate manualiste del suo tempo, in questo vero e proprio galateo sembra far coincidere il comportamento esteriore con i tratti essenziali della personalità femminile.
Le età della vita della donna, scandite nel susseguirsi temporale delle loro fasi e dei loro ruoli, dall’infante, alla signorina, alla zitellona, alla sposa e madre, sino alla vecchia, sono scandite e caratterizzate da una serie di comportamenti, di leggi, di doveri sociali in cui la dimensione dell’apparire appare predominante su quella dell’essere.
Permeato da un perbenismo di maniera, ispirato ad un codice che non concede a trasgressioni e comportamenti che non siano in linea con i dettami della cultura borghese ufficiale, tra l’ironia di un dialogo immaginario e la serietà di un tono esortativo e grazie ad un abile gioco di intrecci, rinvii ed esempi, questo manuale stabilisce le regole della "gente - le donne -per bene", invitando le sue giovani lettrici ad una saggezza tutta formale. Lo spirito che lo informa sembra essere infatti più quello dell’opportunità e della convenienza sociale di un dato comportamento che quello di una rigida valutazione di principi morali.

 
 
 

Er pappagallo scappato

Post n°665 pubblicato il 23 Novembre 2014 da valerio.sampieri
 

Er pappagallo scappato

Lei me chiamò e me fece: - Sarvatore, 
Er pappagallo ieri scappò via 
Perché nu' richiudeste er curidore: 
E'ccheve er mese, e fòr de casa mia. - 

Te pare carità, te pare core, 
Pe' 'na bestiaccia fa' 'sta bojeria: 
Mette in mezz' a 'na strada un servitore
Che deve porta' er pane a la famia?.,. 

Ma io so tutto: er fatto der tenente, 
Le visite a Fiorenza ar maresciallo, 
La balia a Nemi... e nun ho detto gnente. 

Per cui stia attenta a lei, preghi er su' Dio 
Che, si me manna via p'er pappagallo, 
Vedrà  che pappagallo che so' io. 

Trilussa
Tratta da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895)

 
 
 

Elisabetta Caminer Turra

Post n°664 pubblicato il 23 Novembre 2014 da valerio.sampieri
 

Elisabetta Caminer Turra

Suoi genitori furono Domenico Caminer, estensore di un Giornale, ed Anna Maldini, donna di antichi costumi. Fu educata ad una scuola di lavoratici di biancherie e di cuffie sino ai 14 anni, ed ivi tratta da ignota forza lasciava a quando a quando i donneschi lavori o per leggere o per iscarabocchiare. Tornandosene dalla scuola alla casa fu visto chi sfacciato le susurrava all’orecchio, del che la madre la sgridò, e per punirla la collocò tra i copisti che tenea il padre. Elisabetta da quel materiale ministero trasse buon costrutto, apprendendo di per sè la facilità del comporre e l’idioma francese; da cui tradusse l’ Onesto Capriccio, dramma che rappresentato nel teatro di s. Luca ebbe esito felicissimo. Incoraggiata dal capo de’ comici, gli apparecchiò altre versioni, che mandò anche a stampa, e spezialmente quella del Disertore francese, che ebbe oltre venti recite. Le avvenenze e lo spirito resero della donzella innamorato Francesco Albergati Cappacelli che volea farla sua sposa, ma aveala in vece destinata la sorte ad Antonio Turra, medico di Vicenza, e [p. 336]botanico di qualche fama. Non cessò mai, anche dopo essere divenuta moglie, dalle letterarie occupazioni, e già addestrata alla compilazione de’ Giornali, lavorato avendo in compagaia del padre nell’ Europa letteraria, assumer volle il difficile incarico di compilarne uno di per sè stessa, di cui uscirono parecchi volumi col titolo di Nuovo Giornale enciclopedico. Non contenta di questo lavoro, mirò eziandio a rendere alla sua nazione familiari i più celebrati libri che venivano d’oltremonte. Gli Idillj di Gessner furono fra noi conosciuti per la prima volta mediante una sua versione; e lo stesso dicasi del Quadro di Storia moderna di Mehegan. Ardente era il suo trasporto pel recitare, ed in Vicenza potè riuscire ad innalzar un picciol teatro dove videsi per sua infaticabil solerzia allevato all’arte uno stuolo di giovani che bellissima riuscita fecero. Ma in questo teatro volle il destino che la infelice donna trovasse la causa della troppo acerba sua fine. Stava assistendo a’ preparativi d’una rappresentazione quando, rivoltosi a lei un soldato ubbriaco, le colpì il petto con percossa tale che la contusione degenerò in tumore. Non valse l’amputazione di questo a salvarle la vita, che compiè con eroico coraggio nel giugno dell’anno 1796.

Tratto da: Alcuni ritratti di donne illustri delle provincie veneziane (1826) di Bartolommeo Gamba.

 
 
 

La serva ar telefono

Post n°663 pubblicato il 23 Novembre 2014 da valerio.sampieri
 

La serva ar telefono

Pronto? pronto? più forte, nun se sente... 
E' lei, sor conte, ch'ha telefenato? 
Che? voleva parla' cor deputato? 
Nun c'è. Sta fora. E' ito a Acquapennente. 

Vò' sape' s'aritorna? Nun so gnente: 
Lui m'ha lassato sola, m'ha lassato... 
Che dice? viè' qua lei? come? ch'è stato? 
Dico.., sor conte, che je sarta in mente? 

E già... ciamancherebbe puro questa! 
Si viè' nu' j'opro,.. nu' je la do vinta... 
Pe' chi m' ha preso? So' 'na donna onesta, 

'Mbè? la finisce? gnente ce vò' un pugno? 
Lei badi come parla, che so' grinta 
De daje 'sto telèfeno sur grugno!

Trilussa
Tratta da: Quaranta sonetti romaneschi (Enrico Voghera, Roma, 1895)

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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