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Messaggi del 22/02/2015

Rime del Berni 54-56

Post n°1260 pubblicato il 22 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

54

Capitolo in laude d'Aristotele

Non so, maestro Pier, quel che ti pare
di questa nuova mia maninconia,
che io ho tolto Aristotele a lodare.
Che parentado o che genologia
questo ragionamento abbia con quello,
ch'io feci l'altro dì, della moria,
sappi, maestro Pier, che quest'è 'l bello:
non si vuol mai pensar quel che si faccia,
ma governarsi a volte di cervello.
Io non trovo persona che mi piaccia,
né che più mi contenti che costui:
mi paion tutti gli altri una cosaccia,
che f-rno inanzi, seco e dopo lui,
e quel vantaggio sia fra loro appunto
ch'è fra il panno scarlatto e i panni bui,
quel ch'è fra la quaresima e fra l'unto,
ché sai quanto ti pesa, duole e incresce
quel tempo fastidioso, quando è giunto,
ch'ogni dì ti bisogna frigger pesce,
cuocer minestre e bollire spinaci,
stringer melanze sin che 'l succo n'esce.
Salvando, dottor miei, le vostre paci,
io ho detto ad Aristotele in secreto,
come il Petrarca: "Tu sola mi piaci".
Il qual Petrarca avea più del discreto,
in quella filosofica rassegna,
a porlo inanzi, come 'l pose drieto.
Costui, maestro Piero, è quel che insegna,
quel che può dirsi veramente dotto
e di vero saper l'anime impregna;
che non imbarca altrui senza biscotto,
non dice le sue cose in aria al vento,
ma tre e tre fa sei, quattro e quattro otto.
Ti fa con tanta grazia un argumento,
che te lo senti andar per la persona
fin al cervello e rimanervi drento.
Sempre con sillogismi ti ragiona
e le ragion per ordine ti mette;
quella ti scambia che non ti par buona.
Dilèttasi di andar per le vie strette,
corte, diritte, per fornirla presto,
e non istà a dir: "L'andò, la stette".
Fra li altri tratti Aristotele ha questo,
che non vuol che gl'ingegni sordi e loschi
e la canaglia gli meni l'agresto.
Però par qualche volta che s'imboschi,
passandosi le cose di leggiero,
e non abbia piacer che tu 'l conoschi.
Ma quello è con effetto il suo pensiero:
se gli è chi voglia dir che non l'intende,
làscialo cicalar, ché non è il vero.
Come falcon che a far la preda intende,
che gira un pezzo suspeso su l'ali,
poi di cielo in un tratto a terra scende,
così par ch'egli a te parlando cali
e venga al punto, e, perché tu l'investa,
comincia dalle cose generali
e le squarta e minuzza e trita e pesta,
ogni costura e buco gli ritrova,
sì che scrupolo alcuno non ti resta.
Non vuol che l'uomo a credergli si mova
se non gli mette prima il pegno in mano,
se quel che dice in sei modi no 'l prova.
Non fa proemii inetti, non in vano:
dice le cose sue semplicemente
e non affetta il favellar toscano.
Quando l'incorre a parlar della gente,
parla d'ogniun più presto ben che male;
poco dice d'altrui, di sé niente,
cosa che non han fatto assai cicale,
che, volendo avanzarsi la fattura,
s'hanno unto da sua posta lo stivale.
E` regola costui della natura,
anzi è lei stessa; e quella e la ragione
ci ha posto inanzi a gli occhi per pittura.
Ha insegnato i costumi alle persone:
la felicità v'è per chi la vuole,
con infinito ingegno e discrezione.
Hanno gli altri volumi assai parole,
questo è pien tutto e di fatti e di cose
e d'altro che di vento empir ci vuole.
O Dio, che crudeltà, che non compose
un'operetta sopra la cucina,
fra l'infinite sue miracolose!
Credo che la sarebbe altra dottrina
che quel tuo ricettario babbuasso,
dove hai imparato a far la gelatina;
che ti arebbe insegnato qualche passo,
più che non seppe Apicio né Esopo,
d'arrosto, lesso, di magro e di grasso.
Ma io che fo, che son come quel topo
ch'al leon si ficcò dentro all'orecchia
e del mio folle ardir m'accorgo dopo?
Arreco al mondo una novella vecchia,
bianchezza voglio aggiungere alla neve
e metter tutto il mare in poca secchia.
Io che soglio cercar materia breve,
sterile, asciutta e senza sugo alcuno,
che punto d'eloquenzia non riceve;
e che sia il ver, va', leggi ad uno ad uno
i capitoli miei, ch'io vo' morire
se gli è suggetto al mondo più digiuno.
Io non mi so scusar se non con dire
quel ch'io dissi di sopra: e' son capricci
ch'a mio dispetto mi voglion venire,
come a te di castagne far pasticci.



55

Capitolo del debito

Quanta fatica, messer Alessandro,
hanno certi filosofi durata,
come dir, verbigrazia, Anassimandro
e Cleombroto e quell'altra brigata,
per dichiararci qual sia 'l sommo bene
e la vita felice alma e beata!
Chi vuol di scudi aver le casse piene;
chi stare allegro sempre e far gran cera,
pigliando questo mondo com'e' viene:
andar a letto com'e' si fa sera,
non far da cosa a cosa differenzia,
non guardar più la bianca che la nera.
Questa hanno certi chiamata indolenzia,
ch'è, messer Alessandro, una faccenda,
che l'auditor non v'ha data sentenzia:
vo' dir ch'io credo che la non s'intenda;
voi chiamatela vita alla carlona,
qua è un che n'ha fatto una leggenda.
Un'altra opinion, che non è buona,
tien che l'imperador e 'l prete Ianni
sien maggior del torrazzo di Cremona,
perché veston di seta e non di panni,
son spettabili viri, ogniun gli guarda,
son come fra gli uccelli i barbagianni.
E fu un tratto una vecchia lombarda
che credeva che 'l papa non fuss'uomo,
ma un drago, una montagna, una bombarda;
e, vedendolo andare a vespro in duomo,
si fece croce per la maraviglia:
questo scrive uno istorico da Como.
Dell'altra filosofica famiglia
sono intricati più, dico, gli errori,
ch'una matassa quando si scompiglia.
Vergilio disse che i lavoratori
starebbon ben, s'egli avessin cervello,
se fussin del lor ben conoscitori;
ma questo alla sentenzia è stran suggello:
è come dare inanzi intero un pane
a chi non abbia denti né coltello.
Chi vuol che le persone sien mal sane
dice che lo studiar ci fa beati
e la scienzia delle cose strane;
e qui gridan le regole de' frati,
che danno l'ignoranzia per precetto
e non voglion che mai libro si guati.
Non è mancato ancor chi abbi detto
gran ben del matrimonio e de' contenti
che son nel marital pudico letto.
Questo amo io più che tutti i miei parenti
e dico che lo starvi è cosa santa,
ma senza compagnia, non altrimenti.
Son queste opinion più di novanta;
son tante, quanti gli uomini, le vite
e sempre ogniun l'altrui celebra e canta;
ma fra le più stimate e reverite
è, per detto d'ogniun, quella de' preti,
perch'egli han grandi entrate e poche uscite.
Or tacete, filosofi e poeti;
voi, Svetonio e Platina e Plutarco,
che scriveste le vite, state cheti:
lasciate dir a me, che non imbarco
e son in questo così buono autore,
stato per dir, come san Marco.
Più bella vita al mondo un debitore,
fallito, rovinato e disperato,
ha che 'l gran turco e che l'imperatore.
Questo è colui che si può dir beato:
in tutto l'universo ove noi stiamo
non è più lieto e più tranquillo stato.
E perché paia che noi procediamo
con le misure in mano e con le seste,
prima quel che sia debito vediamo.
Debito è far altrui le cose oneste,
come dir ch'a' più vecchi si conviene
trar le berette et abbassar le teste;
adunque far il debito è far bene
e quanto è fatto il debito più spesso,
tanto questa ragion più lega e tiene.
Or fatto il presupposito e concesso
che 'l debito sia opra virtuosa,
le consequenzie sue vengon appresso.
Ha l'anima gentile e generosa
un uom ch'affronti e faccia stocchi assai:
è uom da fargli fare ogni gran cosa.
Non ebbe tanto cuore Ercole mai,
né que' che vanno in piazza a dare al toro,
sbricchi, sgherri, barbon, bravi, sbisai.
O teste degne d'immortale alloro,
ma più delle carezze e de' rispetti
e delle feste che son fatte loro!
Non è tal carità fra' più diletti
figliuoli e padri, e fra moglie e marito,
e s'altri son fra sé di sangue stretti.
E` più accarezzato e più servito
un debitor da chi ha aver da lui
che se del corpo fuor gli fusse uscito:
non par che tenga memoria d'altrui.
Andate a dir ch'un avaraccio boia
abbia le belle grazie c'ha costui:
anzi non è chi non brami che muoia,
tanto è perseguitato e mal voluto,
tanto l'han proprio i suoi figliuoli a noia.
Un debitore è volentier veduto,
mai non si truova che nulla gli manchi,
sempre alle spese d'altri è mantenuto.
Guardate un prete, quando va per Banchi,
che sberettate egli ha da ogni canto,
quanta gente gli è sempre intorno a' fianchi.
Questo è colui che si può dare il vanto
di vera fama e di solida gloria,
quel ch'è canonizzato come un santo.
Non ha proporzione annale o istoria
con gli autentichi libri de' mercanti,
che son la vera idea della memoria;
e costor vi son drento tutti quanti,
e quindi tratti a farsi più immortali.
E' son dipinti su per tutti i canti:
voi vedete certi abiti ducali,
fatti con orpimento e zafferano,
con lettere patenti di speziali.
E sarà tal che prima era un cristiano,
che si farà più noto a questo modo
che non è Lancilotto né Tristano.
Un debitor, ch'è savio, dorme sodo;
fa sonni che così gli facess'io!
Par che bea papaveri nel brodo.
Disse un tratto Alcibiade a suo zio,
ch'avea di certi conti dispiacere:
"Voi sète pazzo, per lo vero Dio!
Lasciatevi pensare a chi ha avere,
o qualche modo più presto trovate,
ch'i creditor non gli abbino a vedere".
Vo' dir per questo, se ben voi notate,
che se i debiti ad un metton pensiero,
si vorria dargli cento bastonate.
Vedete, Caccia mio, s'io dico il vero,
ché il peggio che gli possa intervenire
è l'esserne portato com'un cero.
Voi vedete il bargello a voi venire
con una certa grazia e leggiadria,
che par che voglia menarvi a dormire;
né so, quand'io veggo un che vada via
con tanta gente da lato e d'intorno,
che differenzia a lui dal papa sia.
Poi, forse che lo menano in un forno?
Sèrronlo a chiave in una forte rocca,
com'un gioiel di molte perle adorno.
Come egli è giunto, ogniun la man gli tocca,
ogniun gli fa carezze e accoglienze,
ogniun per carità lo bacia in bocca.
O gloriose Stinche di Firenze,
luogo celestial, luogo divino,
degno di centomila riverenze:
a voi ne vien la gente a capo chino,
e prima che la vostra scala saglia,
s'abbassa in su l'entrar dell'usciolino;
a voi nessuna fabbrica s'agguaglia:
sète più belle assai che 'l culiseo,
o s'altra a Roma è più degna anticaglia;
voi sète quel famoso Pritaneo,
dove teneva in grasso i suoi baroni
el popol che discese da Teseo;
voi gli tenete in stia come i capponi,
mandate il piatto lor publicamente,
non altrimenti che si fa a' lioni.
Com'uno è quivi, è giunto finalmente
a quello stato ch'Aristotel pose,
che 'l senso cessa e sol opra la mente.
Voi fate anche le genti industriose:
chi cuce palle, chi lavora fusa,
chi stecchi e chi mille altre belle cose;
non vi ha né l'ozio né 'l negozio scusa,
l'uno e l'altro ricapito vi truova,
di tutti duoi v'è la scienzia infusa.
S'alla città vien qualche buona nuova,
voi sète quasi le prime a sapella:
par che corrieri addosso il ciel vi piova.
E qui si sente un romor di martella,
di picconi e di travi, per mandare
libero ogniun in questa parte e 'n quella.
Ma s'io vi son, lasciàtemivi stare;
di questa pietà vostra io non mi curo,
a pena morto me ne voglio andare.
Non so più bel che star drento ad un muro,
quieto, agiato, dormendo a chiusi occhi,
e del corpo e dell'anima sicuro.
Fate, parente mio, pur de gli stocchi;
pigliate spesso a credenza, a 'nteresse,
e lasciate ch'a gli altri il pensier tocchi,
ché la tela ordisce un, l'altro la tesse.



56

Capitolo di Gradasso

Voi m'avete, signor, mandato a dire
che del vostro Gradasso un'opra faccia:
io son contento, io ve voglio ubedire.
Ma s'ella vi riesce una cosaccia,
la vostra signoria non se ne rida
e pensi ch'a me anco ella dispiaccia.
Egli è nella Poetica del Vida
un verso, il qual voi forse anco sapete,
che così a gli autor moderni grida:
"O tutti quanti voi che componete,
non fate cosa mai che vi sia detta,
se poco onor aver non ne volete;
non lavorate a posta mai né in fretta,
se già non sète sforzati e constretti
da gran maestri e signori a bacchetta.
Non sono i versi a guisa de farsetti,
che si fanno a misura, né la prosa,
secondo le persone, or larghi or stretti.
La poesia è come quella cosa
bizzarra, che bisogna star con lei,
che si rizza a sua posta e leva e posa".
Dunque negarvi versi io non potrei,
sendo chi sète; e chi li negarebbe
anco a Gradasso mio, re de' pigmei?
Che giustamente non s'anteporrebbe
a quel gran serican che venne in Francia
per la spada d'Orlando e poi non l'ebbe?
Costui porta altrimenti la sua lancia:
non pesarebbe solo el suo pennacchio
la stadera dell'Elba e la Bilancia.
Con esso serve per ispaventacchio,
anzi ha servito adesso in Alamagna,
a turchi, ad altri: io so quel ch'io mi gracchio.
E` destro, snello, adatto di calcagna
a far moresche e salti; non è tale
un grillo, un gatto, un cane et una cagna:
in prima il periglioso e poi il mortale;
non ha tante virtù ne' prati l'erba
betonica quante ha questo animale.
La ciera verde sua brusca et acerba
pare un viso di sotto, quando stilla
quel che nel ventre smaltito si serba.
La sua genealogia chi potria dilla?
Io trovo ch'egli uscì d'un di quei buchi
dove abitava a Norcia la Sibilla.
Suo padre già faceva i porci eunuchi
e lui fé dottorar nel berrettaio
per non tenerlo in frasca come i bruchi.
Nacque nel duo di qua dal centinaio,
et è sì grande ch'io credo che manchi
poca cosa d'un braccio a farli un saio.
Se si trovava con la spada a i fianchi
quando i topi assaltaron li ranocchi,
egli era fatto condottier de i granchi.
E certo li somiglia assai ne gli occhi
e nella tenerezza della testa,
che va incontro alle punte de li stocchi.
M'è stato detto di non so che festa
che voi gli fate quando egli è a cavallo,
se così tosto a seder non s'appresta:
fate dall'altra banda traboccallo
s'a capo chino; e par che vadi a nozze,
sì dolce in quella parte ha fatto il callo.
Così le bestie non diventon rozze,
ché ve le mena meglio assai ch'a mano,
e parte il gioco fa delle camozze;
un certo gioco, ch'i' ho inteso, strano,
che si lascion le matte a corna innanzi
cader da gli alti scogli in terra al piano.
State cheti, poeti di romanzi;
non mi rompa la testa Rodomonte,
né quel Gradasso ch'io dicevo dianzi;
Buovo d'Antona e Buovo d'Agrismonte
e tutti i paladin farebbon meglio,
poi che sono scartati, andare a monte.
Questo è della Montagna el vero Veglio,
questo solo infra tutti pel più grasso
e dirò molto e pur sarà niente.
Questo è quel fiume che pur or si manda
fuora e quel mar che crescerà si forte
che il mondo allagherà da ogni banda.
Non se ne son ancor le genti accorte
per la novella età, ma tempo ancora
verrà, ch'aprir farà le chiuse porte.
E se le stelle che 'l vil popol ora
(dico Ascanio, San Giorgio) onora e cole,
oscura e fa sparir la vostra aurora,
che spererem che debbia far il sole?
Beato chi udirà dopo mill'anni
di questa profezia pur le parole.
Dirò di quel valor che mette i vanni
e potria far la spada e il pastorale
ancora un dì rifare i nostri danni,
e far tacere allor quelle cicale,
certi capocchi satrapi ignoranti,
che la vostra virtù commenton male;
genti che non san ben da quali e quanti
spiriti generosi accompagnato
l'altr'ier voleste a gli altri andare inanti;
dico oltre a quei che sempre avete allato,
ché tutta Italia con molta prontezza
v'arìa di là dal mondo seguitato.
Questo vi fece romper la cavezza
e della legazion tutti i legacci,
tanto da gentil cor gloria s'apprezza!
Portovvi in Ungheria fuor de' covacci,
sì che voi sol voleste passar Vienna,
voi sol de' turchi vedeste i mostacci.
Questa è la storia che qui sol s'accenna,
la lettera è minuta che si nota,
da poi s'estenderà con altra penna;
e mentre il ferro a temprarla s'arruota,
serbate questo schizzo per un pegno,
fin ch'io lo colorisca e lo riscuota:
che se voi sète di tela e di legno
e di biacca per man di Tiziano,
spero ancor'io, s'io ne sarò mai degno,
di darvi qualche cosa di mia mano.

 
 
 

Il Trecentonovelle 5-10

Post n°1259 pubblicato il 22 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Trecentonovelle
di Franco Sacchetti

NOVELLA V

Castruccio Interminelli, avendo un suo famiglio disfatto in uno muro il giglio dell'arma fiorentina, essendo per combattere, lo fa combattere con un fante che avea l'arma del giglio nel palvese, ed è morto.

Ora voglio mutare un poco la materia, e dire come Castruccio Interminelli, signore di Lucca, castigò uno gagliardo contro le mura. Questo Castruccio fu de' cosí savi, astuti e coraggiosi signori come fosse nel mondo già è gran tempo; e guerreggiando e dando assai che pensare a' Fiorentini, però che era loro cordiale nimico, fra l'altre notabili cose che fece fu questa: che essendo a campo in Valdinievole, e dovendo una mattina andare a mangiare in uno castello da lui preso, di quelli del Comune di Firenze, e mandando un suo fidato famiglio innanzi che apparecchiasse le vivande e le mense, il detto famiglio, giugnendo in una sala, dove si dovea desinare, vide tra molte arme, come spesso si vede, dipinta l'arme del giglio del Comune di Firenze, e con una lancia, che parea che avesse a fare una sua vendetta, tutta la scalcinò.
Venendo l'ora che Castruccio con altri valentri uomeni giunsono per desinare, il famiglio si fece incontro a Castruccio e, come giunse in su la sala, disse:
- Signore mio, guardate come io ho acconcio quell'arma di quelli traditori Fiorentini.
Castruccio, come savio signore, disse:
- Sia con Dio; fa' che noi desiniamo.
E tenne nella mente quest'opera, tanto che a pochi dí si rassembrò la sua gente per combattere con quella del Comune di Firenze; là dove, appressandosi li due eserciti, per avventura venne che innanzi a quello de' Fiorentini venía uno bellissimo fante bene armato con uno palvese in braccio, dove era dipinto il giglio.
Veggendo Castruccio costui essere de' primi a venirli incontro, chiamò il suo fidato famiglio, che cosí bene avea combattuto col muro, e disse:
- Vien qua; tu desti pochi dí fa tanti colpi nel giglio ch'era nel muro che tu lo vincesti e disfacesti: va' tosto, e armati come tu sai, e fa' che subito vadi a dispignere e vincere quello.
Costui nel principio credette che Castruccio beffasse. Castruccio lo costrinse, dicendo:
- Se tu non vi vai, io ti farò impiccar subito a quell'arbore.
Veggendosi costui mal parato, e che Castruccio dicea da dovero, v'andò il meglio che poteo. Come fu presso al fante del giglio, subito questo fante di Castruccio fu morto da quello con una lancia che 'l passò dall'una parte all'altra. Veggendo questo Castruccio, non fece alcun sembiante d'ira o cruccio, ma disse:
- Troppo bene è andato -; e volsesi a' suoi, dicendo: - Io voglio che voi appariate di combattere con li vivi, e non con li morti.
O non fu questa gran justizia? ché sono molti che danno per li faggi e per le mura e nelle cose morte, e fanno del gagliardo, come se avessono vinto Ettore; e oggi n'è pieno il mondo, che in questa forma, o contra minimi o pecorelle, sempre sono fieri; ma per ciascuno di questi tali fosse uno Castruccio che li pagasse della loro follia, come pagò questo suo famiglio.
Assai notabili cose fece ne' suoi dí Castruccio; fra l'altre, dicea a uno, che a sua petizione avesse fatto un tradimento:
- Il tradimento mi piace, ma il traditore no; pagati e vatti con Dio, e fa' che mai tu non mi venga innanzi.
Oggi si fa il contrario, ché se uno signore o Comune farà fare uno tradimento, fa il traditore suo provvisionato e sempre il tiene con lui, facendoli onore. Ma a molti è già intervenuto che quelli che hanno fatto fare il tradimento, dal traditore poi sono stati traditi.


NOVELLA VI

Marchese Aldobrandino domanda al Basso della Penna qualche nuovo uccello da tenere in gabbia, il Basso fa fare una gabbia, ed entrovi è portato a lui.

Marchese Aldobrandino da Esti, nel tempo che ebbe la signoria di Ferrara, gli venne vaghezza, come spesso viene a' signori, di avere qualche nuovo uccello in gabbia. Di che per questa cagione mandò un dí per uno Fiorentino che tenea albergo in Ferrara, uomo di nuova e di piacevolissima condizione, che avea nome Basso della Penna. Era vecchio e piccolo di persona, e sempre pettinato andava in zazzera e in cuffia. Giunto questo Basso dinanzi al marchese, il marchese sí gli dice:
- Basso, io vorrei qualche uccello per tenere in gabbia, che cantasse bene, e vorrei che fosse qualche uccello nuovo, che non se ne trovassono molti per l'altre genti, come sono fanelli e calderelli, e di questi non vo cercando; e però ho mandato per te, perché diversa gente e di diversi paesi ti vengono per le mani al tuo albergo; di che possibile ti fia che qualcuno di questi ti metta in via, donde se ne possa avere uno.
Rispose il Basso:
- Signore mio, io ho compreso la vostra intenzione, la quale m'ingegnerò di mettere ad effetto, e cercherò di far sí che subitamente serete servito.
Udendo il marchese questo, gli parve avere già in gabbia la fenice, e cosí si partío. Il Basso, avendo già immaginato ciò che far dovea, giunto che fu al suo albergo, mandò per un maestro di legname, e disse:
- Io ho bisogno di una gabbia di cotanta lunghezza, e tanto larga e tanto alta; e fa' ragione di farla sí forte ch'ella sia sofficiente a un asino, se io ve l'avessi a metter dentro, e abbia uno sportello di tanta grandezza.
Compreso che 'l maestro ebbe tutto, fu in concordia del pregio, e andò a fare la detta gabbia; fatta che l'ebbe, la fe' portare al Basso e tolse i denari.
Il Basso subito mandò per uno portatore, e là venuto entrando nella gabbia, disse al portatore che 'l portasse al marchese. Al portatore parve questa una nuova mercanzia e quasi non volea; se non che 'l Basso tanto disse che pur lo portò. Il qual giunto al marchese, con grande moltitudine di popolo che correa dietro alla novità; il marchese quasi dubitò, non conoscendo ancora che cosa fosse quella. Ma appressatosi la gabbia e 'l Basso ed essendo su portato presso al marchese, il marchese, conoscendo ciò che era, disse:
- Basso, che vuol dir questo?
Il Basso, cosí nella gabbia, con lo sportello serrato, cominciò a squittire, e disse:
- Messer lo marchese, voi mi comandaste pochi dí fa che io trovasse modo che voi avesse qualche nuovo uccello in gabbia, e che di quelli tali pochi ne fossono al mondo; di che, considerando chi io sono e quanto nuovo sono, ché posso dire che nessuno ne sia piú nuovo di me in su la terra, in questa gabbia intrai, e a voi mi rappresento, e mi vi dono per lo piú nuovo uccello che tra' cristiani si possa trovare; e ancora vi dico piú, che non ce n'ha niuno fatto com'io: il canto mio fia tale, che vi diletterà assai; e però fate posare la gabbia da quella finestra.
Disse il marchese:
- Mettetela sul davanzale.
Il Basso dice:
- Oimè, non fate, ché io potrei cadere.
Dice il marchese:
- Mettetelo su, ché 'l davanzale è largo.
E cosí messo su, accennò a un suo famiglio che dondolasse la gabbia, e nientedimeno la sostenesse.
E 'l Basso dice:
- Marchese, io ci venni per cantare, e voi volete ch'io pianga.
E cosí, quando il Basso fu rassicurato, disse:
- Marchese, se mi darete mangiare delle vivande che mangiate voi, io canterò molto bene.
Il marchese li fece venire un pane con un capo d'aglio, e tennelo tutto quel dí su la finestra, facendo a lui di nuovi giuochi; e tutto il popolo era sulla piazza a vedere il Basso nella gabbia; e in fine la sera cenò col signore, e poi si ritornò all'albergo, e la gabbia rimase al marchese, ché mai non la riebbe.
Il marchese da quell'ora innanzi ebbe il Basso piú caro che mai, e spesso l'invitava a mangiare, e facevalo cantare nella gabbia, e pigliava gran diletto di lui. Chi sapesse la disposizione de' signori, quando fossono in buona tempera, ognora penserebbono di cose nuove, come fece il Basso, che per certo ben serví il marchese, e non andò in India per l'uccello; ma essendogli presso presso, fu servito del piú nuovo e unico uccello che si potesse trovare.


NOVELLA VII

Messer Ridolfo da Camerino, al tempo che la Chiesa avea assediato Forlí, fa una nuova e notabile assoluzione sopra una questione che aveano valentri uomeni d'una insegna.

Messer Ridolfo da Camerino, savissimo signore, con poche parole e notabil judicio, contentò una brigata di valentri uomeni di quello che domandorono sopra una questione, sí come il Basso d'un nuovo uccello contentasse il marchese.
Al tempo che la Chiesa, e messer Egidio di Spagna cardinale per quella, avea per assedio costretta la città di Forlí per gran dimora; e di quella essendo signore messer Francesco Ardelaffi, notabile signore, molti signori notabili e valentri uomeni a petizione della Chiesa erano concorsi al detto assedio; ed essendo in una parte raccolti con una questione quasi quelli che erano i maggiori del campo, e tra loro essendo messer Unghero da Sassoferrato, il quale avea l'insegna del Crocifisso, la quale è quella insegna che è piú degna che alcun'altra; ed essendo gran contesa tra loro, però che quello che avea l'insegna dicea aver caro quel beneficio fiorini duemila; altri diceano: io vorrei innanzi fiorini duecento; e tali diceano fiorini cento, e tali fiorini trecento, e chi dicea di meno e chi di piú; passando per quel luogo messer Ridolfo da Camerino, che andava provveggendo il campo, s'accostò a loro domandando di quello che contendeano; di che per loro gli fu detto la cagione, pregandolo ancora che la loro questione diffinisse, e quello che si dovea prezzare la detta insegna.
Messer Ridolfo, avendo tosto considerata la questione, fece la risposta dicendo che chi tenea che la detta insegna si dovea prezzare e avere cara duecento, o trecento, o mille, o duemila, non potea avere ragione; però che quando il nostro Signore Jesú Cristo fu in questa vita, e di carne e d'ossa, fu venduto trenta danari, e ora ch'egli è dipinto nella pezza e morto e in croce, che si possa o debba ragionevolmente stimar piú, è cosa vana, e per la ragione allegata non potere justamente seguire. Udito che ebbono tutti questa sentenzia, con le risa s'accordorono a por fine alla questione, e dissono tutti, eccetto messer Unghero, messer Ridolfo avere ben detto e giudicato.
Notabile detto e strano fu quello di messer Ridolfo, e come che paresse ostico, raccontando come disse del nostro Signore, a ragione il judicio fu giusto; e mostrò, sanza dirlo, che son molti che fanno maggiore stima delle viste che de' fatti. E quanti ne sono già stati che hanno procacciato d'essere Gonfalonieri e Capitani, e d'avere l'insegna e reale e dell'altre, solo per vanagloria, ma dell'opere non si sono curati! E di questi apparenti ne sono stati, e tutto il dí sono piú che degli operanti. E non pur nelle cose dell'arme ma eziandio di quelli che in teologia si fanno maestrare, non per altro, se non per essere detto Maestro; Dottore di leggi, per essere chiamato Dottore; e cosí in filosofia e medicina, e di tutte l'altre cose: e Dio il sa quello che li piú di loro sanno!


NOVELLA VIII

Uno Genovese sparuto, ma bene scienziato, domanda Dante poeta come possa intrare in amore a una donna, e Dante gli fa una piacevole risposta.

Questo che seguita non fu meno notabile consiglio che fosse il judicio di messer Ridolfo. Fu già nella città di Genova uno scientifico cittadino e in assai scienze bene sperto, ed era di persona piccolo e sparutissimo. Oltre a questo era forte innamorato d'una bella donna di Genova, la quale, o per la sparuta forma di lui, o per moltissima onestà di lei, o per che che si fosse la cagione, giammai, non che ella l'amasse, ma mai gli occhi in verso lui tenea, ma piú tosto fuggendolo, in altra parte gli volgea. Onde costui, disperandosi di questo suo amore, sentendo la grandissima fama di Dante Allighieri, e come dimorava nella città di Ravenna, al tutto si dispose d'andar là per vederlo e per pigliare con lui dimestichezza, considerando avere da lui o consiglio o aiuto come potesse entrare in amore a questa donna, o almeno non esserli cosí nimico. E cosí si mosse, e pervenne a Ravenna, là dove tanto fece che fu a un convito dove era il detto Dante; ed essendo alla mensa assai di presso l'uno all'altro, il Genovese, veduto tempo, disse:
- O messer Dante, io ho inteso assai della vostra virtú e della fama che di voi corre; potre' io avere alcuno consiglio da voi?
Disse Dante:
- Purché io ve lo sappia dire.
Allora il Genovese dice:
- Io ho amato e amo una donna con tutta quella fede che amore vuole che s'ami; giammai da lei, non che amore mi sia stato conceduto, ma solo d'uno sguardo mai non mi fece contento.
Udendo Dante costui, e veggendo la sua sparuta vista, disse:
- Messere, io farei volentieri ogni cosa che vi piacesse; e di quello che al presente mi domandate, non ci veggio altro che un modo, e questo è che voi sapete che le donne gravide hanno sempre vaghezza di cose strane; e però converrebbe che questa donna che cotanto amate, ingravidasse: essendo gravida, come spesso interviene ch'ell'hanno vizio di cose nuove, cosí potrebbe intervenire che ella avrà vizio di voi; e a questo modo potreste venire ad effetto del vostro appetito: per altra forma sarebbe impossibile.
Il Genovese, sentendosi mordere, disse:
- Messer Dante, voi mi date consiglio di due cose piú forte che non è la principale; però che forte cosa sarebbe che la donna ingravidasse, però che mai non ingravidò; e vie piú forte serebbe che poi ch'ella fosse ingravidata, considerando di quante generazioni di cose ell'hanno voglia, che ella s'abbattesse ad avere voglia di me. Ma in fé di Dio, che altra risposta non si convenía alla mia domanda che quella che mi avete fatto.
E riconobbesi questo Genovese, conoscendo Dante per quello ch'egli era, meglio che non avea conosciuto sé, che era sí fatto che erano poche che non l'avessono fuggito. E conobbe Dante sí che piú dí stette il Genovese in casa sua, pigliando grandissima dimestichezza per tutti li tempi che vissono. Questo Genovese era scienziato, ma non dovea essere filosofo, come la maggior parte sono oggi; però che la filosofia conosce tutte le cose per natura; e chi non conosce sé principalmente, come conoscerà mai le cose fuora di sé? Costui, se si fosse specchiato, o con lo specchio della mente, o col corporale, averebbe pensato la forma sua e considerato che una bella donna, eziandio essendo onesta, è vaga che chi l'ama abbia forma di uomo, e non di vilpistrello.
Ma e' pare che li piú son tocchi da quel detto comune: "E' non ci ha maggiore inganno che quello di sé medesimo".


NOVELLA IX

Messer Giovanni della Lana chiede a uno buffone che faccia un bel partito: quelli ne fa uno molto nuovo: a colui non piace; fanne un altro, donde messer Giovanni scornato si parte.

Non so qual fosse piú sparuto di persona, o il Genovese passato, o messer Giovanni della Lana da Reggio, del quale brievemente dirò in questa novella. Il quale messer Giovanni, non possendo stare in Reggio, stando in Imola, ed essendo in uno cerchio di valentri uomeni, non considerando alla deformità della sua persona (ché era piccolissimo judice, e avea una foggetta in capo foderata d'indisia, che pare' l'erba luccia, ed era troglio, o vero balbo), disse a uno uomo di corte, chiamato maestro Piero Guercio da Imola, piacevole buffone e sonatore di stormenti, il quale era nel detto cerchio:
- Doh, maestro Piero, fate qualche bel partito dinanzi a questi valentri uomeni.
Rispose maestro Piero:
- Io il farò, poiché voi volete. Il partito è questo: qual volete voi pigliare delle due cose l'una, o volete che io cachi in codesta vostra foggia, o voletevi cacare voi?
Disse il maestro Giovanni quasi mezzo imbiancato:
- Io non voglio né l'uno né l'altro; fatene un altro che diletti questa brigata.
Disse il buffone:
- Io lo farò, poiché voi volete; dicendo: "Qual volete voi, messer Giovanni, quando avesse cacato nel vostro cappuccio, o mettervelo in capo voi, o volete che io vel metta in capo io?"
Messer Giovanni udendo questo, se al primo partito era divenuto bianco, a questo secondo diventò rosso e bizzarro, rimanendo scornato, dicendo:
- Mo vi nasca il vermocan, ché vui se' in brutto rubaldo di merda, e cosí di quella vi menate per bocca, ché da altro non se' vui.
Il maestro Piero con motti si difendea e dicea:
- Vo' se' judice, veggiamo a ragione chi ha il torto di noi due -; pigliandolo per lo lembo, acciò che non si partisse, però che era già in cammino; pur con quella poca di forza che avea, si spiccò e andonne rampognando; gli altri rimasono ridendo.
Cosí a messer Giovanni fu insegnato dal maestro Piero una legge che giammai piú non l'avea trovata. Cosí s'acquista spesso con gli uomeni di corte, che spesso s'entra in motti con loro, ed elli vituperano altrui; e però non si potrebbe errare a tacere, e lasciar dire un altro. Per farsi innanzi messer Giovanni, e non considerando a sé, fu beffeggiato da questo buffone con due cosí nobili partiti, come avete udito.


NOVELLA X

Messer Dolcibene, essendo con messer Galeotto alla valle di Josafat e udendo che in sí piccol luogo ciascuno ha a concorrere al diejudicio, piglia nuovamente luogo per non affogare allora.

Messer Dolcibene fu, secondo cavaliere di corte, d'assai, quanto alcun altro suo pari, e molte novelle assai vaghe e di brutta materia si possono scrivere di lui; e in questa novella, non per via di fare partito, come volea fare il maestro Piero da Imola, ma per altra forma, andando al Sepolcro con messer Galeotto e con messer Malatesta Unghero, trovò nuovo stile per dare diletto a questi due signori.
Andando adunque messer Galeotto e messer Malatesta detti, e messer Dolcibene con loro, al Santo Sepolcro, giugnendo là costoro e passando dalla valle di Josafat, disse messer Galeotto:
- O Dolcibene, in questa valle dobbiamo tutti venire al diejudicio a ricevere l'ultima sentenzia.
Disse messer Dolcibene:
- O come potrà tutta l'umana generazione stare in sí piccola valle?
Disse messer Galeotto:
- Sarà per potenza divina.
Allora messer Dolcibene scese da cavallo, e corre nel mezzo d'un campo della detta valle, e calati giuso i panni di gamba, lasciò andare il mestiere del corpo, dicendo:
- Io voglio pigliare il luogo, acciò che quando sarà quel tempo, io truovi el segno e non affoghi nella calca.
Li due signori diceano ridendo:
- Che vuol dire questo? e che fai tu?
Messer Dolcibene risponde:
- Signori, io ve l'ho detto: e' non si può essere savio, se l'uomo non s'argomenta per lo tempo che dee venire.
Dice messer Galeotto:
- O Dolcibene, lasciavi la parte del nibbio che serà maggiore segnale.
Disse allora messer Dolcibene:
- Signore, se io ci lasciassi el segnale che voi mi dite, e' non sarebbe buono per due cagioni: la prima, ch'e' ne serebbe portato da' nibbi, e 'l luogo rimarrebbe senza segno; e l'altra, che voi perdereste la mia compagnia.
Allora gli fu risposto da quelli signori:
- Per certo, Dolcibene, tu sai ben dire gli argomenti a ogni cosa; sali a cavallo, ché per certo tu hai ben provveduto -; e con questo sollazzo seguirono il loro cammino.
O questi son li trastulli de' buffoni, e' diletti che hanno li signori! Per altro non son detti buffoni, se non che sempre dicono buffe; e detti giucolari, ché continuo giuocono con nuovi giuochi. E' non fu però questo messer Dolcibene sí scellerato che non componesse in questa andata del Sepolcro in versi vulgari una orazione alla nostra Donna che gli facesse grazia, raccontando tutti i luoghi santi che oltre mare avea vicitato.

 
 
 

Il Trecentonovelle, indice

Post n°1258 pubblicato il 22 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Franco Sacchetti (nato a Ragusa, Dalmazia nel 1332 e morto a San Miniato, Pisa, nel 1400) intraprese la carriera paterna di mercante, stabilendosi a Firenze dal 1363.
Le sue opere principali sono:
- La battaglia delle belle donne di Firenze con le vecchie (scritta prima del 1354) che  è una rielaborazione di motivi boccacciani;
- Il Libro delle Rime, repertorio di liriche in cui si sviluppano in maniera convenzionale le tematiche moralistiche e amorose.
- Sposizioni dei Vangeli (1378-1381), meditazioni in prosa su brani del Vangelo.
- Il Trecentonovelle, ideato forse a Bibbiena nel 1385 ma scritto dopo il 1392 a San Miniato, in cui Sacchetti raccoglie senza alcun criterio storie di varia lunghezza in uno stile piuttosto semplice e immediato, ricalcato sul parlato vivace e immediato della società popolana e borghese. Ci sono pervenute soltanto 223 delle trecento novelle originarie.

Proemio e Novella 2
Novelle 3-4
Novelle 5-10
Novelle 11-15
Novelle 16-20
Novelle 21-25
Novelle 26-30
Novelle 31-33
Novelle 34-37
Novelle 38-47
Novelle 48-50
Novelle 51-54
Novelle 59-65
Novelle 66-70
Novelle 71-75
Novelle 76-80
Novelle 81-84
Novelle 85-89
Novelle 90-92
Novelle 93-99

Indice 2.

 
 
 

Il Trecentonovelle 3-4

Post n°1257 pubblicato il 22 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Trecentonovelle
di Franco Sacchetti

NOVELLA III

Parcittadino da Linari vagliatore si fa uomo di corte, e va a vedere lo re Adoardo d'Inghilterra, il qual, lodandolo, ha da lui molte pugna, e poi, biasimandolo, riceve dono.

Lo re Adoardo vecchio d'Inghilterra fu re di gran virtú e fama, e fu tanto discreto che la presente novella ne dimostrerrà in parte. Fu adunque nel suo tempo uno vagliatore a Linari in Valdensa nel contado di Firenze, il quale aveva nome Parcittadino. Venne a costui volontà di lasciare in tutto il vagliare ed esser uomo di corte, e in questo diventò assai sperto; e cosí spermentandosi nell'arte cortigiana, gli venne gran volontà di andare a vedere il detto re Adoardo; e non sine quare , ma perché avea udito molto delle sue magnanimità, e spezialmente verso li suoi pari. E cosí pensato, una mattina si misse in cammino, e non ristette mai che elli pervenne in Inghilterra alla città di Londra, dove lo re dimorava; e giunto al palagio reale, dove il detto re dimorava, di porta in porta trapassando, giunse nella sala, dove lo re il piú del tempo facea residenza; e trovollo fiso giucare a scacchi con lo gran dispensiere.
Parcittadino, giunto dinanzi al re, inginocchiandosi con le reverenti raccomandazioni, quella vista o quella mutazione fece il re come prima che giugnesse: di che stette Parcittadino per grande spazio in tal maniera. E veggendo che lo re alcun sembiante non facea, si levò in piede e cominciò a dire:
- Benedetto sia l'ora e 'l punto che qui m'ha condotto, e dove io ho sempre desiderato, cioè di vedere il piú nobile e 'l piú prudente e 'l piú valoroso re che sia fra cristiani; e ben mi posso vantare piú che altro mie pari, dappoi che io sono in luogo dove io veggio il fiore di tutti li altri re. O quanta gloria mi ha conceduta la fortuna! ché oggimai, se io morisse, con poca doglia verrei a quel passo, dappoi che io sono innanzi a quella serenissima corona la quale, come calamita tira il ferro, cosí con la sua virtú tira ciascuno con desiderio a veder la sua dignità.
Appena ebbe insino a qui Parcittadino condotto il suo sermone, che lo re si levò dal giuoco, e piglia Parcittadino, e con le pugna e calci, cacciandolo per terra, tante gliene diede che tutto il pestò; e fatto questo, subito ritornò al giuoco delli scacchi. Parcittadino assai tristo, levandosi di terra, appena sapea dove si fosse; parendoli aver male spesi i passi suoi, e similmente le lode date al re, si stava cosí tapino, non sapendo che si fare. E pigliando un po' di cuore, volle provare se, dicendo il contrario al re, gliene seguisse meglio, da che per lo ben dire glien'era colto male; incominciando a dire:
- Maladetto sia l'ora e 'l dí che in questo luogo mi condusse, che credendo esser venuto a vedere un nobile re, come la fama risuona, e io sono venuto a vedere un re ingrato e sconoscente: credea esser venuto a vedere un re virtuoso, e io sono venuto a vedere un re vizioso: credea esser venuto a vedere un re discreto e sincero, e io sono venuto a vedere un re maligno, pieno di nequizia: credea esser venuto a vedere una santa e giusta corona, e io ho veduto costui che male per ben guiderdona; e la prova il dimostra, che me piccola creatura, magnificando e onorando lui, m'ha sí concio ch'io non so se mai potrò piú vagliare, se mai al mio mestiero antico ritornare mi convenisse.
Lo re si lieva la seconda volta piú furioso che la prima, e va a una porta, e chiama un suo barone. Veggendo questo Parcittadino, qual elli diventò non è da domandare, però che parea un corpo morto che tremasse, e s'avvisò essere dal re ammazzato; e quando udí lo re chiamare quel barone, credette chiamasse qualche justiziere che lo crucifiggesse.
Giunto il barone chiamato dal re, lo re gli disse:
- Va', da' la cotal mia vesta a costui, e pagalo della verità, ch'io l'ho ben pagato della bugia io.
Il barone va subito, e recò a Parcittadino una robba reale delle piú adorne che lo re avesse, con tanti bottoni di perle e pietre preziose che, sanza le pugna e' calci ch'egli ebbe, valea fiorini trecento o piú. E continuo sospettando Parcittadino che quella robba non fosse serpe o badalischio che 'l mordesse, a tentone la ricevette. Dappoi rassicuratosi e messasela indosso, e dinanzi allo re si appresentò, dicendo:
- Santa corona, qualora voi mi volete pagare a questo modo delle mie bugie, io dirò rade volte il vero.
E conobbe lo re per quello che avea udito, e lo re ebbe piú diletto di lui.
Dappoi, stato quello che gli piacque, prese commiato e dal re si partí, tenendo la via per la Lombardia; dove andò ricercando tutti li signori, raccontando questa novella, la quale gli valse piú di altri fiorini trecento; e tornossi in Toscana, e andò a rivedere con quella robba gli suoi parenti vagliatori da Linari, tutti polverosi di vagliatura e poveri; li quali maravigliandosi, Parcittadino disse loro:
- Tra molte pugna e calci fui in terra, poi ebbi questa robba in Inghilterra.
E fece bene a assai di loro; poi si partí e andò a procacciare sua ventura.
Questa fu cosí bella cosa a uno re, come potesse avvenire. E quanti ne sono che, essendo lodati come questo re, non avessono gonfiato le gote di superbia? Ed elli sappiendo che quelle lode meritava, volle dimostrare che non era vero, usando nella fine tanta discrezione. Assai ignoranti, essendo lodati nel loro cospetto da piasentieri, se lo crederanno; costui, essendo valoroso, volle dimostrare il contrario.


NOVELLA IV

Messer Bernabò signore di Melano comanda a uno abate che lo chiarisca di quattro cose impossibili; di che uno mugnaio, vestitosi de' panni dello abate, per lui le chiarisce in forma che rimane abate e l'abate rimane mugnaio.

Messer Bernabò signore di Melano, essendo trafitto da un mugnaio con belle ragioni, gli fece dono di grandissimo benefizio. Questo signore ne' suoi tempi fu ridottato da piú che altro signore; e come che fosse crudele, pur nelle sue crudeltà avea gran parte di justizia. Fra molti de' casi che gli avvennono fu questo, che uno ricco abate, avendo commesso alcuna cosa di negligenza di non avere ben notricato due cani alani, che erano diventati stizzosi, ed erano del detto signore, li disse che pagasse fiorini quattromila. Di che l'abate cominciò a domandare misericordia. E 'l detto signore, veggendolo addomandare misericordia, gli disse:
- Se tu mi fai chiaro di quattro cose, io ti perdonerò in tutto; e le cose son queste che io voglio che tu mi dica: quanto ha di qui al cielo; quant'acqua è in mare; quello che si fa in inferno; e quello che la mia persona vale.
Lo abate, ciò udendo, cominciò a sospirare, e parveli essere a peggior partito che prima; ma pur, per cessar furore e avanzar tempo, disse che li piacesse darli termine a rispondere a sí alte cose. E 'l signore gli diede termine tutto il dí sequente; e come vago d'udire il fine di tanto fatto, gli fece dare sicurtà del tornare.
L'abate, pensoso, con gran malenconia, tornò alla badía, soffiando come un cavallo quando aombra; e giunto là, scontrò un suo mugnaio, il quale, veggendolo cosí afflitto, disse:
- Signor mio, che avete voi che voi soffiate cosí forte?
Rispose l'abate:
- Io ho ben di che, ché 'l signore è per darmi la mala ventura se io non lo fo chiaro di quattro cose, che Salamone né Aristotile non lo potrebbe fare.
Il mugnaio dice:
- E che cose son queste?
L'abate gli lo disse.
Allora il mugnaio, pensando, dice all'abate:
- Io vi caverò di questa fatica, se voi volete.
Dice l'abate:
- Dio il volesse.
Dice il mugnaio:
- Io credo che 'l vorrà Dio e' santi.
L'abate, che non sapea dove si fosse, disse:
- Se 'l tu fai, togli da me ciò che tu vuogli, ché niuna cosa mi domanderai, che possibil mi sia, che io non ti dia.
Disse il mugnaio:
- Io lascerò questo nella vostra discrizione.
- O che modo terrai? - disse l'abate.
Allora rispose il mugnaio:
- Io mi voglio vestir la tonica e la cappa vostra, e raderommi la barba, e domattina ben per tempo anderò dinanzi a lui, dicendo che io sia l'abate; e le quattro cose terminerò in forma ch'io credo farlo contento.
All'abate parve mill'anni di sustituire il mugnaio in suo luogo; e cosí fu fatto.
Fatto il mugnaio abate, la mattina di buon'ora si mise in cammino; e giunto alla porta, là dove entro il signore dimorava, picchiò, dicendo che tale abate voleva rispondere al signore sopra certe cose che gli avea imposte. Lo signore, volontoroso di udire quello che lo abate dovea dire, e maravigliandosi come sí presto tornasse, lo fece a sé chiamare: e giunto dinanzi da lui un poco al barlume, facendo reverenza, occupando spesso il viso con la mano per non esser conosciuto, fu domandato dal signore se avea recato risposta delle quattro cose che l'avea addomandato.
Rispose:
- Signor sí. Voi mi domandaste: quanto ha di qui al cielo. Veduto appunto ogni cosa, egli è di qui lassú trentasei milioni e ottocento cinquantaquattro mila e settantadue miglia e mezzo e ventidue passi.
Dice il signore:
- Tu l'hai veduto molto appunto; come provi tu questo?
Rispose:
- Fatelo misurare, e se non è cosí, impiccatemi per la gola. Secondamente domandaste: quant'acqua è in mare. Questo m'è stato molto forte a vedere, perché è cosa che non sta ferma, e sempre ve n'entra; ma pure io ho veduto che nel mare sono venticinque milia e novecento ottantadue di milioni di cogna e sette barili e dodici boccali e due bicchieri.
Disse il signore:
- Come 'l sai?
Rispose:
- Io l'ho veduto il meglio che ho saputo: se non lo credete, fate trovar de' barili, e misurisi; se non trovate essere cosí, fatemi squartare. Il terzo mi domandaste quello che si faceva in inferno. In inferno si taglia, squarta, arraffia e impicca, né piú né meno come fate qui voi.
- Che ragione rendi tu di questo?
Rispose:
- Io favellai già con uno che vi era stato, e da costui ebbe Dante fiorentino ciò che scrisse delle cose dell'inferno; ma egli è morto; se voi non lo credete, mandatelo a vedere. Quarto mi domandaste quello che la vostra persona vale; e io dico ch'ella vale ventinove danari.
Quando messer Bernabò udí questo, tutto furioso si volge a costui, dicendo:
- Mo ti nasca il vermocan; sono io cosí dappoco ch'io non vaglia piú che una pignatta?
Rispose costui, e non sanza gran paura:
- Signor mio, udite la ragione. Voi sapete che 'l nostro Signore Jesú Cristo fu venduto trenta danari; fo ragione che valete un danaro meno di lui.
Udendo questo il signore, immaginò troppo bene che costui non fosse l'abate, e guardandolo ben fiso, avvisando lui esser troppo maggiore uomo di scienza che l'abate non era, disse:
- Tu non se' l'abate.
La paura che 'l mugnaio ebbe ciascuno il pensi; inginocchiandosi con le mani giunte, addomandò misericordia, dicendo al signore come egli era mulinaro dell'abate, e come e perché camuffato dinanzi dalla sua signoria era condotto, e in che forma avea preso l'abito, e questo piú per darli piacere che per malizia.
Messer Bernabò, udendo costui, disse:
- Mo via, poi ch'ello t'ha fatto abate, e se' da piú dí lui, in fé di Dio, e io ti voglio confirmare, e voglio che da qui innanzi tu sia l'abate, ed ello sia il mulinaro, e che tu abbia tutta la rendita del monasterio, ed ello abbia quella del mulino.
E cosí fece ottenere tutto il tempo che visse che l'abate fu mugnaio, e 'l mugnaio fu abate.
Molto è scura cosa, e gran pericolo, d'assicurarsi dinanzi a' signori, come fe' questo mugnaio, e avere quello ardire ebbe lui. Ma de' signori interviene come del mare, dove va l'uomo con grandi pericoli, e ne' gran pericoli li gran guadagni. Ed è gran vantaggio quando il mare si truova in bonaccia, e cosí ancora il signore: ma l'uno e l'altro è gran cosa di potersi fidare, che fortuna tosto non venga.
Alcuni hanno già detto essere venuta questa, o simil novella, a... papa, il quale, per colpa commessa da un suo abate, li disse che li specificasse le quattro cose dette di sopra, e una piú, cioè: qual fosse la maggior ventura che elli mai avesse aúto. Di che l'abate, avendo rispetto della risposta, tornò alla badía, e ragunati li monaci e' conversi, infino al cuoco e l'ortolano, raccontò loro quello di che avea a rispondere al detto papa; e che a ciò gli dessono e consiglio e aiuto. Eglino, non sappiendo alcuna cosa che si dire, stavano come smemorati: di che l'ortolano, veggendo che ciascheduno stava muto, disse:
- Messer l'abate, però che costoro non dicono alcuna cosa, e io voglio esser colui e che dica e che faccia, tanto che io credo trarvi di questa fatica; ma datemi li vostri panni, sí che io vada come abate, e di questi monaci mi seguano; e cosí fu fatto.
E giunto al papa, disse dell'altezza del cielo esser trenta voci. Dell'acqua del mare disse: "Fate turare le bocche de' fiumi, che vi mettono entro, e poi si misuri". Quello che valea la sua persona, disse: "Danari ventotto"; ché la facea due danari meno di Cristo, ché era suo vicario. Della maggior ventura ch'egli avesse mai, disse: "Come d'ortolano era diventato abate"; e cosí lo confermò. Come che si fosse, o intervenne all'uno e all'altro, o all'uno solo, e l'abate diventò o mugnaio o ortolano.

 
 
 

Il Trecentonovelle

Post n°1256 pubblicato il 22 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Trecentonovelle
di Franco Sacchetti

Proemio

Considerando al presente tempo e alla condizione dell'umana vita, la quale con pestilenziose infirmità e con oscure morti è spesso vicitata; e veggendo quante rovine con quante guerre civili e campestre in essa dimorano; e pensando quanti populi e famiglie per questo son venute in povero e infelice stato e con quanto amaro sudore conviene che comportino la miseria, là dove sentono la lor vita esser trascorsa; e ancora immaginando come la gente è vaga di udire cose nuove, e spezialmente di quelle letture che sono agevoli a intendere, e massimamente quando danno conforto, per lo quale tra molti dolori si mescolino alcune risa; e riguardando in fine allo eccellente poeta fiorentino messer Giovanni Boccacci, il quale descrivendo il libro delle Cento Novelle per una materiale cosa, quanto al nobile suo ingegno... quello è divulgato e richie... che infino in Francia e in Inghilterra l'hanno ridotto alla loro lingua, e grand...so; io Franco Sacchetti fiorentino, come uomo discolo e grosso, mi proposi di scrivere la presente opera e raccogliere tutte quelle novelle, le quali, e antiche e moderne, di diverse maniere sono state per li tempi, e alcune ancora che io vidi e fui presente, e certe di quelle che a me medesimo sono intervenute.
E non è da maravigliare se la maggior parte delle dette novelle sono fiorentine... che a quelle sono stato prossima... e se non al fatto piú presso a la... e perché in esse si tratterà di... condizioni di genti, come di... marchesi e conti e cavalieri, e di... grandi e piccoli, e cosí di grandi donne, mezzane e minori, e d'ogni altra generazione; nientedimeno nelle magnifiche e virtuose opere seranno specificati i nomi di quelli tali; nelle misere e vituperose, dove elle toccassino in uomini di grande affare o stato, per lo migliore li nomi loro si taceranno; pigliando esempio dal vulgare poeta fiorentino Dante, che quando avea a trattare di virtú e di lode altrui, parlava egli, e quando avea a dire e' vizii e biasimare altrui, lo faceva dire alli spiriti.
E perché molti e spezialmente quelli, a cui in dispiacere toccano, forse diranno, come spesso si dice: "queste son favole", a ciò rispondo che ce ne saranno forse alcune, ma nella verità mi sono ingegnato di comporle. Ben potrebbe essere, come spesso incontra, che una novella sarà intitolata in Giovanni, e uno dirà: ella intervenne a Piero; questo serebbe piccolo errore, ma non sarebbe che la novella non fosse stata. E altri potran dire...

NOVELLA II

Lo re Federigo di Cicilia è trafitto con una bella storia da ser Mazzeo speziale di Palermo.

Di valoroso e gentile animo fu il re Federigo di Cicilia nel cui tempo fu uno speziale in Palermo, chiamato ser Mazzeo, il quale avea per consuetudine ogni anno al tempo de' cederni, con una sua zazzera pettinata in cuffia, mettersi una tovagliuola in collo e portare allo re dall'una mano in un piattello cederni e dall'altra mele; e lo re questo dono ricevea graziosamente.
Avvenne che questo ser Mazzeo, venendo nel tempo della vecchiezza, cominciò alquanto a vacillare, e non sí però che l'usato presente di fare non seguisse. Fra l'altre volte, essendosi molto ben pettinato, e assettata la chioma sotto la cuffia, tolse la tovagliuola e' piattelli de' cederni e delle mele per fare l'usato presente; e messosi in cammino, pervenne alla porta del palazzo del re.
Il portinaio, veggendolo, cominciò a fare scherne di lui e a tirargli il bendone della cuffia; e contendendosi da lui, e un altro il tirava d'un'altra parte, però che quasi il tenevano insensato; e cosí datoli la via, or da uno e ora da un altro fu tanto tirato e rabbuffato che tutto il capo avea avviluppato; e con tutto questo, s'ingegnò di portar pure a salvamento il presente, giugnendo dinanzi al re con debita reverenza. Lo re, veggendolo cosí schermigliato, disse:
- Ser Mazzeo, che vuol dir questo, che tu sei cosí avviluppato?
Rispose ser Mazzeo:
- Monsignore, egli è quello che voi volete.
Lo re disse:
- Come è?
Ser Mazzeo disse:
- Sapete voi qual è la piú bella storia che sia nella Bibbia?
Lo re, che era di ciò intendentissimo, rispose:
- Assai ce ne sono, ma il superlativo grado non saprei ben quale.
Allora ser Mazzeo disse:
- Se mi date licenzia vel dirò io.
Rispose lo re:
- Di' sicuramente ciò che tu vuogli.
E ser Mazzeo dice:
- Monsignore lo re, la piú bella istoria che sia in tutta la Bibbia è quando la reina di Saba, udendo la sapienza mirabile di Salamone, si mosse cosí da lungi per andare a vedere le terre sue e lui in Egitto; la quale, giugnendo alle terre governate per Salamone, tanto trovava ogni cosa ragionevolmente disposta che quanto piú vedea, piú si maravigliava, e piú s'infiammava di vedere Salamone, tanto che, giugnendo alla principal città, pervenne al suo palazzo, e di passo in passo ogni cosa mirando e considerando, vidde li servi e' sudditi suoi molto ordinati e costumati; tanto che, giunta in su la gran sala, fece dire a Salamone come ella era e perché quivi venuta. E Salamone subito uscío della camera e faglisi incontro; il quale la detta reina veggendo, si gittò inginocchioni, dicendo ad alta voce: "O sapientissimo re, benedetto sia il ventre che portò tanta prudenza, quanta in te regna".
E qui ristette ser Mazzeo.
Disse allora il re Federigo:
- Be', che vuoi tu dir, ser Mazzeo?
E ser Mazzeo rispose:
- Monsignor lo re, voglio dire che se questa reina comprese bene, per l'ordine e costume delle terre e de' sudditi di Salamone, esser lui il piú savio uomo del mondo; io per quella medesima forma posso considerare voi essere il piú matto re che viva, pensando che io, vostro minimo servo, venendo con questo usato dono alla vostra maestà, li servi vostri m'abbino concio come voi vedete.
Lo re, veggendo e considerando ser Mazzeo, lo consolò con parole, volendo sapere chi e come era stato, quelli tali fece dinanzi a sé venire, e corressegli e puní innanzi a ser Mazzeo, e del suo servizio gli cacciò; comandando a tutti gli altri che quando ser Mazzeo volesse venire a lui, giammai porta non gli fusse tenuta e sempre a lui facessono onore: e cosí seguirono di fare, maravigliandosi il detto del fine di sí notabile istoria, a proposito detta per un vecchierello a cui la mente già diffettava. Fu cagione questo ser Mazzeo, col suo dire, che questo re d'allora innanzi tenne molto meglio accostumata la sua famiglia che prima non tenea: ed è talor di necessità che si truovino uomeni di questa forma.

 
 
 

La Secchia Rapita 01-2

Post n°1255 pubblicato il 22 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

La Secchia Rapita
di Alessandro Tassoni

        33
Quei ch'erano con lui dianzi passati
dal figlio di Rangon tutti fûr morti;
e già gli altri fuggian rotti e sbandati,
del mal consiglio lor, ma tardi, accorti;
quando in aiuto da' vicini prati
vider venir correndo i lor consorti,
che del Panaro a la sinistra sponda
passâr piú lenti, ov'è piú cupa l'onda.

        34
Gian Maria de la Grascia, un furbacciotto
ch'era di quella squadra il capitano,
come vide fuggir dal campo rotto
quei di Bordocchio insanguinando il piano,
rinfacciò lor con dispettoso motto
la fuga vile e l'ardimento insano;
e furioso i suoi quindi spingendo,
fe' de' nemici un potticidio orrendo.

        35
Radaldo Ganaceti era su 'l ponte
con molti suoi per impedir il passo,
e insieme col destrier tutto in un monte
fu da la sponda ruinato al basso.
Voltò Gherardo a quel rumor la fronte
e in aiuto de' suoi venía a gran passo,
quando comparve 'l Potta al suon di mille
corni, gridi, tamburi e trombe e squille.

        36
Si raccoglie il nemico, e si ritira
al terror di tant'armi, al suono, a i lampi,
ma l'incalza Gherardo, e al vanto aspira
d'aver col suo valor rotti due campi;
corre a destra, a sinistra, urta, raggira
il destriero, e di sangue inonda i campi;
rotta ha la spada, e porta ne lo scudo
cento saette, e mezzo 'l capo ha ignudo.

        37
Ma tratta da l'arcion ferrata mazza,
Fantin Vizzani e Prospero Castelli,
Astor de l'Armi e Taddeo Bianchi ammazza
e 'l cavalier Martin de gli Asinelli.
A questi spada, scudo, elmo e corazza
fece levar, ch'eran dorati e belli,
per onorarsen poi; ma veramente
fu peccato ammazzar sí nobil gente.

        38
Spinte il Potta in aiuto in tanto avea
le prime insegne a i Gemignani stracchi;
ed egli verso il ponte, ove parea
che piú fossero i suoi deboli e fiacchi,
sopra una mula a piú poter correa,
che mordendo co' piè giucava a scacchi,
quando ferito fu d'una zagaglia
quel de la Grascia, e uscí de la battaglia.

        39
Poiché mirò de' capitani suoi
l'un fatto prigionier, l'altro ferito
la progenie antichissima de' Boi,
e si vide ridotta a mal partito,
que' valorosi che facean gli eroi,
senza aspettar chi lor facesse invito,
chi a cavallo, chi a piè per la campagna
si diedono a menar de le calcagna.

        40
Ma ratto fu con una ronca in mano
il Potta lor come un demonio addosso,
e tanti ne mandò distesi al piano
che ne fu il Ciel de la pietà commosso.
Quel fiume crebbe sí di sangue umano
che piú giorni durò tiepido e rosso,
e dove prima il Fiumicel chiamato,
fu dappoi sempre il Tepido nomato.

        41
Tutto quel dí, tutta la notte intiera
i miseri Petroni ebber la caccia;
ne coperse ogni strada, ogni riviera
Manfredi Pio, che ne seguí la traccia.
Con trecento cavalli a la leggiera
con tanto ardire il giovane li caccia,
che su 'l primo sparir de l'aria scura
si trovò giunto a le nemiche mura.

        42
La porta San Felice aperta in fretta
fu a' cittadini suoi, ch'erano esclusi,
ma tanta fu la calca in quella stretta
che i vincitori e i vinti entrar confusi.
Quei di Manfredi un tiro di saetta
corser la terra, e vi restavan chiusi,
s'ei da la porta ove fermato s'era
non li chiamava tosto a la bandiera.

        43
Spinamonte del Forno e Rolandino
Savignani e Aliprando d'Arrigozzo
de' Denti da Balugola e Albertino
Foschiera e Calatran di Borgomozzo,
affannati dal caldo e dal cammino
trovâr non lunge da la porta un pozzo,
e una Secchia calâr nuova d'abete
per rinfrescarsi e discacciar la sete.

        44
La carrucola rotta e saltellante,
e la fune annodata in quella mena,
e l'acqua ch'era assai cupa e distante,
feron piú tardi uscir la Secchia piena:
le si avventaron tutti in un istante,
e Rolandino avea bevuto a pena,
quand'ecco a un tempo da diverse strade
fûr lor intorno piú di cento spade.

        45
Scarabocchio, figliol di Pandragone,
Petronio Orso e Ruffin dalla Ragazza
e Vianese Albergati e Andrea Griffone
venían gridando innanzi: - Ammazza, ammazza. -
ma i Potteschi già pronti in su l'arcione,
d'elmo e di scudo armati e di corazza,
strinser le spade e rivoltâr le facce
a l'impeto nemico e a le minacce.

        46
E Spinamonte, che la Secchia presa
per bere avea, spargendo l'acqua in terra
e tagliando la fune ond'era appesa,
se ne serví contro i nemici in guerra;
con la sinistra man la tien sospesa
per riparo, e con l'altra il brando afferra;
l'aiutano i compagni e fangli sponda
contra il furor che d'ogni parte inonda.

        47
Lotto Aldrovandi e Campanon Ringhiera
gridavano ambidue: - Canaglia matta,
lasciate quella Secchia ove prim'era,
o la bestialità vi sarà tratta. -
- Fatevi innanzi voi, disse il Foschiera,
notate la consegna che v'è fatta. -
E 'n questo dire un manrovescio lascia,
e taglia a Campanone una ganascia.

        48
Non fu rapita mai con piú fatica
Elena bella al tempo di Sadocco,
né combattuta Aristoclèa pudica,
al par di quella Secchia da un baiocco.
Passata a Calatran fu la lorica
sí che nel ventre penetrò lo stocco
d'un fiero colpo di Carlon Cartari,
falciatore sovran de' macellari.

        49
Rolandino ferí d'un sopramano
Napulion di Fazio Malvasía,
ed egli a lui storpiò la manca mano
con una daga che brandita avía.
Se di Manfredi un poco piú lontano
era il soccorso, alcun non ne fuggía;
restò ferito quel de la Balugola,
e del tanto gridar gli cadde l'ugola.

        50
Manfredi in su la porta i suoi raccoglie
e l'inimico stuol frena e reprime,
e poiché dal periglio si discioglie
torna, e ripassa il Ren su l'orme prime;
né potendo mostrar piú degne spoglie,
in atto di trofeo leva sublime
sopra una lancia l'acquistata Secchia,
ché presentarla al Potta s'apparecchia;

        51
parendo a lui via piú nobile e degno
de la vittoria, aver su 'l chiaro giorno
corsa Bologna, e trattone quel pegno
che sarebbe a' nemici eterno scorno.
Da la Samoggia un messo a darne segno
a Modana spedí senza soggiorno,
e tosto la città si mise in core
di girgli incontro e fargli un bell'onore.

        52
Era vescovo allor per aventura
de la città messer Adam Boschetto,
che di quel gregge avea solenne cura,
e 'l mantenea d'ogni contagio netto;
non dava troppo il guasto a la Scrittura,
ed era entrato al popolo in concetto
che in cambio di dir Vespro e Matutino
giucasse i benefici a sbarraglino.

        53
Questi, poiché venir dal messaggiero
con quella Secchia udí l'amica gente
tolta per forza a un popolo sí fiero
di mezzo una città tanto possente,
si mise anch'egli in ordine col clero
per girla ad incontrar solennemente,
e si fe' porre intorno il piviale
ch'usava il dí di Pasqua e di Natale.

        54
Un superbo robon di drappo rosso
si mise il Potta e una beretta nera,
che mezzo palmo largo e un dito grosso
avea l'orlo d'intorno a la testiera;
gli Anziani appo lui col lucco indosso
seguivano a cavallo in lunga schiera
sopra certe lor mule afflitte e grame,
che pareano il ritratto de la fame.

        55
Gli portava dinanzi un paggio armato
la spada nuda e la rotella bianca,
e avea dal destro e dal sinistro lato
i due primi Anzian, teste di banca;
lo stendardo del popolo spiegato
portava il cont'Ettòr da Villafranca,
giovinetto che Marte avea nel core
e ne la bocca e ne' begli occhi Amore.

        56
Due compagnie di lance e di corrazze,
una dinanzi e l'altra iva di dietro;
i cursori del popol con le mazze
facevan ritirar le genti indietro,
che correan tutte a gara come pazze
a la vicina porta di San Pietro,
per veder quella Secchia a la campagna
credendosi che fosse una montagna.

        57
In ultimo cinquanta contadine
con le gonnelle bianche di bucato,
ne le canestre lor di vinco fine
portavan pane, vin, torta in buon dato,
uova sode, frittate e gelatine
al famoso drappello affaticato
che venía con la Secchia; e cosí andando
giunsero a la Fossalta ragionando.

        58
Quivi trovâr che 'l prete de la cura
gía confortando ancor gli agonizzanti,
gli assolvea da' peccati, e ponea cura
fra i paterni ricordi onesti e santi,
se 'n dito anella avean per aventura,
o ne le borse o nel giubbon contanti,
e per guardargli da gli furti altrui
gli togliea in serbo e gli mettea co' sui.

        59
Manfredi in tanto apparve, e conducea
distinta a coppia a coppia la sua schiera-
Portar la Secchia in alto egli facea
da Spinamonte innanzi a la bandiera;
e di mirto e di fior cinta l'avea,
sí che spoglia parea pomposa e altera.
Subito il Potta il corse ad abbracciare
dicendogli: - Ben venga mio compare. -

        60
Indi gli chiese come avea potuto
con quella Secchia uscir fuor di Bologna,
che non l'avesse ucciso o ritenuto
quel popolo per ira o per vergogna.
Ddisse Manfredi: - Iddio sa dare aiuto
a chi si fida in lui, quando bisogna:
il nemico a seguirci ebbe due piedi,
e noi quattro a fuggir, come tu vedi. -

        61
Fêr poi le Cataline il lor invito
su l'erba fresca d'un fiorito prato,
e perché ognun moriva d'appetito
in un Avemaria fu sparecchiato.
Finita la merenda, e risalito
a cavallo ciascuno al loco usato,
ripresero il cammino in vêr la porta
raccontando fra lor la gente morta.

        62
Sotto la porta stava Monsignore
con lo spruzzetto in man da l'acqua santa,
e intonando la laude in quel tenore
che fa il capon quando talvolta canta.
Quivi smontaro tutti a farli onore,
e l'inchinâr con l'una e l'altra pianta,
e a suon di trombe se n'andâr con esso
a render grazie a Dio del gran successo.

        63
Ma la Secchia fu subito serrata
ne la torre maggior dove ancor stassi,
in alto per trofeo posta e legata
con una gran catena a' curvi sassi;
s'entra per cinque porte ov'è guardata
e non è cavalier che di là passi
né pellegrin di conto, il qual non voglia
veder sí degna e gloriosa spoglia.

 
 
 

Rime del Berni 52-53

Post n°1254 pubblicato il 22 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Francesco Berni

52

CAPITOLO PRIMO DELLA PESTE

Non ti maravigliar, maestro Piero,
s'io non volevo l'altra sera dare
sopra quel dubbio tuo giudizio intero,
quando stavamo a cena a disputare
qual era il meglior tempo e la più bella
stagion che la natura sappi fare,
perché questa è una certa novella,
una materia astratta, una minestra
che non la può capire ogni scudella.
Cominciano e poeti dalla destra
parte dell'anno e fanno venir fuori
un castron coronato di ginestra;
copron la terra d'erbette e di fiori,
fanno ridere il cielo e gli elementi,
voglion ch'ogniun s'impregni e s'inamori;
che i frati, allora usciti de' conventi,
a' capitoli lor vadano a schiera,
non più a dui a dui, ma a dieci e venti;
fanno che 'l pover asin si dispera,
ragghiando dietro alle sue inamorate;
e così circonscrivon primavera.
Altri hanno detto che gli è me' la state,
perché più s'avvicina la certezza
ond'abbiano a sfamarsi le brigate;
si batte il gran, si sente una dolcezza
de' frutti che si veggono indolcire,
dell'uva che comincia a farsi ghezza,
che non si può così per poco dire;
son que' dì lunghi, che par che s'intenda
per discrezion che l'uom debba dormire;
ha tempo almen di farla, chi ha faccenda;
chi non ha sonno, faccenda o pensieri,
per non peccare in ozio, va a merenda,
o si mette dinanzi un tavolieri,
incontro al ventolin di qualche porta,
con un rinfrescatoio pien di bicchieri.
Son altri c'hanno detto che più importa
averla inanzi cotta che vedere
le cose insieme onde si fa la torta,
e però la stagion che dà da bere,
ch'apparecchia le tavole per tutto,
ha quella differenzia di piacere
che l'opera il disegno, il fiore e 'l frutto;
credo che tu m'intenda, ancor che scuro
paia de' versi miei forse il construtto.
Dico che questi tai voglion maturo
il frutto, e non in erba; avere in pugno,
non in aria l'uccel, ch'è più sicuro:
però lodan l'ottobre più che 'l giugno,
più che 'l maggio il settembre, e con effetto
anch'io la lor sentenzia non impugno.
Non è mancato ancor chi abbia detto
gran ben del verno, allegando ragioni:
ch'allor è dolce cosa stare in letto;
che tutti gli animali allor son buoni,
infino a' porci, e fansi le salcicce,
cervellate, ventresche e salciccioni;
escono in Lombardia fuor le pellicce,
crèsconsi li pennacchi alle berette
e fassi il Giorgio con le seccaticce;
quel che i dì corti tolgon si rimette
in altrettante notti: stassi a vegghia
fino a quattro ore e cinque e sei e sette;
adoprasi in quel tempo più la tegghia
a far torte, migliacci et erbolati,
che la scopetta a Napoli e la stregghia.
Son tutti i tempi egualmente lodati,
hanno tutti essercizio e piacer vario,
come vedrai tu stesso, se lo guati;
se guati, dico, in su 'l tuo breviario,
mentre che di' l'ufficio e cuoci il bue
dipinto a dietro a pie' del calendario;
chi cuoco ti parrà, come sei tue,
e chi si scalda e chi pota le vigne,
chi va con lo sparvier pigliando grue,
chi imbotta il vin, chi la vinaccia strigne:
tutti i mesi hanno sotto le sue feste,
com'ha fantasticato chi dipigne.
Or piglia tutte quante insieme queste
oppenioni e tien che tutto è baia,
a parangon del tempo della peste.
Né vo' che strano il mio parlar ti paia,
 83né ch'io favelli, anzi cicali, a caso,
come s'io fossi un merlo o una ghiandaia;
io voglio empirti fino all'orlo il vaso
dell'intelletto, anzi colmar lo staio,
e che tu facci come san Tomaso.
Dico che, sia settembre o sia gennaio
o altro, a petto a quel della moria,
non è bel tempo che vaglia un danaio;
e perché vegghi ch'io vo per la via
e dotti il tuo dover tutto in contanti,
intendi molto ben la ragion mia.
Prima, ella porta via tutti i furfanti:
gli strugge e vi fa buche e squarci drento,
come si fa dell'oche l'ognisanti.
E fa gran bene a cavarli di stento:
in chiesa non è più chi ti urti o pesti
in su 'l più bel levar del sacramento.
Non si tien conto di chi accatti o presti:
accatta e fa' pur debiti, se sai,
ché non è creditor che ti molesti;
se pur ne vien qualch'un, di' che tu hai
doglia di testa e che ti senti al braccio:
colui va via senza voltarsi mai.
Se tu vai fuor, non hai chi ti dia impaccio,
anzi ti è dato luogo e fatto onore,
tanto più se vestito sei di straccio.
Sei di te stesso e de gli altri signore,
vedi fare alle genti i più strani atti,
ti pigli spasso dell'altrui timore.
Vìvesi allor con nuove leggi e patti,
tutti i piaceri onesti son concessi,
quasi è lecito a gli uomini esser matti.
Buoni arrosti si mangiano e buon lessi;
quella nostra gran madre vacca antica
si manda via con taglie e bandi espressi.
Sopra tutto si fugge la fatica,
ond'io son schiavo alla peste in catena,
ché l'una e l'altra è mia mortal nemica.
Vita scelta si fa, chiara e serena:
il tempo si dispensa allegramente
tutto fra il desinare e fra la cena.
S'hai qualche vecchio ricco tuo parente,
puoi disegnar di rimanergli erede,
pur che gli muoia in casa un solamente.
Ma questo par che sia contra la fede,
però sia detto per un verbigrazia,
ché non si dica poi: "Costui non crede".
Di far pazzie la natura si sazia,
perché in quel tempo si serran le scuole,
che a' putti esser non può maggior disgrazia.
Fa ogniun finalmente ciò ch'e' vuole:
dell'alma libertà quell'è stagione,
ch'esser sì cara a tutto 'l mondo suole.
E` salvo allor l'avere e le persone:
non dubitar, se ti cascassin gli occhi,
trova ogniun le sue cose ove le pone.
La peste par ch'altrui la mente tocchi
e la rivolti a Dio: vedi le mura
di san Bastian dipinte e di san Rocchi.
Essendo adunque ogni cosa sicura,
questo è quel secol d'oro e quel celeste
stato innocente primo di natura.
Or se queste ragioni son manifeste,
se le tocchi con man, se le ti vanno,
conchiudi e di' che 'l tempo della peste
è 'l più bel tempo che sia in tutto l'anno.



53

CAPITOLO SECONDO DELLA PESTE

Ancor non ti ho io detto della peste
quel ch'io dovevo dir, maestro Piero,
non l'ho vestita dal dì delle feste;
et ho mezza paura, a dirti il vero,
ch'ella non si lamenti, come quella
che non ha avuto il suo dovere intero.
Ell'è bizzarra e poi è donna anch'ella;
sai tutte quante che natura ell'hanno:
voglion sempre aver piena la scudella.
Feci di lei quel capitolo uguanno
e, come ho detto, le tagliai la vesta
larga e pur mi rimase in man del panno,
però de' fatti suoi quel ch'a dir resta,
con l'aiuto di Dio, si dirà ora;
non vo' ch'ella mi rompa più la testa.
Io lessi già d'un vaso di Pandora,
che v'era dentro il cancaro e la febbre
e mille morbi che n'usciron fuora.
Costei le genti che 'l dolor fa ebbre
saetterebbon veramente a segno;
le mandano ogni dì trecento lebbre,
perché par loro aver con essa sdegno;
dicon: "Se non s'apriva quel cotale,
non bisognava a noi pigliare il legno".
In fin, questo amor proprio ha del bestiale
e l'ignoranza, che va sempre seco,
fa che 'l mal bene e 'l ben si chiama male.
Quella Pandora è un vocabol greco,
che in lingua nostra vuol dir òtutti doni';
e costor gli hanno dato un senso bieco.
Così sono anche molte oppenioni,
che piglian sempre al riverso le cose:
tiran la briglia insieme e dan de sproni.
Piange un le doglie e le bolle franciose,
perché gli è un pazzo e non ha ancor veduto
quel che già messer Bin di lor compose:
ne dice un ben che non saria creduto;
leggi, maestro Pier, quella operetta,
ché tu arai quel mal, se non l'ha' avuto.
Non fu mai malattia senza ricetta:
la natura l'ha fatte tutt'e due:
ella imbratta le cose, ella le netta.
Ella trovò l'aratol, ella il bue,
ella il lupo, l'agnel, la lepre, il cane,
e dette a tutti le qualità sue;
ella fece l'orecchie e le campane,
fece l'assenzio amaro e dolce il mèle,
e l'erbe velenose e l'erbe sane;
ella ha trovato il buio e le candele,
e finalmente la morte e la vita,
e par benigna ad un tratto e crudele.
Par, dico, a qualche pecora smarrita:
vedi ben tu che da lei non si cava
altro che ben, perch'è bontà infinita.
Trovò la peste perché bisognava:
eravamo spacciati tutti quanti,
cattivi e buon, s'ella non si trovava,
tanto multiplicavano i furfanti;
sai che nell'altro canto io messi questo
fra i primi effetti della peste santi.
Come si crea in un corpo indigesto
collora e flegma et altri mali umori,
per mangiar, per dormir e per star desto,
e bisogna ir del corpo e cacciar fuori
(con riverenza) e tenersi rimondo
com'un pozzo che sia di più signori,
così a questo corpaccio del mondo,
che per esser maggior più feccia mena,
bisogna spesso risciacquare il fondo;
e la natura, che si sente piena,
piglia una medicina di moria,
come di reubarbaro o di sena,
e purga i mali umor per quella via;
quel che i medici nostri chiaman crisi
credo che appunto quella cosa sia.
E noi, balordi, facciam certi visi,
come si dice: "La peste è in paese!";
ci lamentiam, che par che siamo uccisi,
che dovrebbemo darle un tanto al mese,
intertenerla come un capitano,
per servircene al tempo a mille imprese.
Come fan tutti i fiumi all'oceàno,
così vanno alla peste gli altri mali
a dar tributo e basciarle la mano;
e l'accoglienze sue son tante e tali
che di vassallo ogniun si fa suo amico,
anzi son tutti suoi fratei carnali.
Ogni maluzzo furfante e mendico
è allor peste o mal di quella sorte,
com'ogni uccel d'agosto è beccafico.
Se tu vuoi far le tue faccende corte,
avendosi a morir, come tu sai,
muori, maestro Pier, di questa morte:
almanco intorno non arai notai
che ti voglin rogare il testamento,
né la stampa volgar del "come stai",
che non è al mondo il più crudel tormento.
La peste è una prova, uno scandaglio,
che fa tornar gli amici ad un per cento:
fa quel di lor che fa del grano il vaglio,
ché quando ella è di quella d'oro in oro,
non vale inacetarsi o mangiar l'aglio.
Allor fanno li amanti i fatti loro:
vedesi allor s'egli stava alla prova
quel che dicea: "Madonna, io spasmo, io moro";
che se l'ammorba et ei la lasci sola,
s'e' non si serra in conclavi con lei,
si dice: "E' ne mentiva per la gola".
Bisogna che gli metta de' cristei,
sia spedalingo e facci la taverna;
e son poi grazie date dalli dèi.
Non muor, chi muor di peste, alla moderna:
non si fa troppo spesa in frati o preti,
che ti cantino il requiem eterna.
Son gli altri mali ignoranti e indiscreti:
corrono il corpo per tutte le bande;
costei va sempre a' luoghi più secreti,
come dir quei che copron le mutande
o sotto il mento o ver sotto le braccia,
perch'ell'è vergognosa e fa del grande.
Non vòl che l'uom di lei la mostra faccia:
vedi san Rocco com'egli è dipinto,
che per mostrar la peste si dislaccia.
O sia che questo mal ha per istinto
ferir le membra ov'è il vital vigore
et è da loro in quelle parti spinto,
o veramente la carne del core,
il fegato e 'l cervel gli den piacere,
perch'ell'è forsi di razza d'astore;
questo problema debbi tu sapere
che sei maestro e intènditi di carne
più che cuoco del mondo, al mio parere.
E però lascio a te sentenzia darne:
so che tu hai della peste giudicio
e cognosci li storni dalle starne.
Or le sue laudi sono un edificio,
che chi lo vuol tirare infino al tetto
arà facenda più che a dir l'officio
non hanno i frati de san Benedetto;
però qui di murar finirò io,
lasciando il resto a miglior architetto.
E lascio a te, maestro Piero mio,
questo notabilissimo ricordo,
che la peste è un mal che manda Dio;
e chi crede altramente egli è un balordo.

 
 
 

Il Meo Patacca 05-3

Post n°1253 pubblicato il 22 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Fu quell'attizza foco e razza indegna,
Dico Calfurnia, dico, eh'alle coste
Me se mette importuna, e che disegna,
Ch'io v'habbia da fa' stane alle batoste;
In un tanto sproposito m'impegna,
Con me facenno el conto senza l'oste;
Ma prima me fa crede, 'sta frabbutta,
Che voi dissivo a Nuccia e vecchia e brutta".

"Non accurr'altro no", Cencio riprese,
"La verità assai ben s'è conosciuta;
Calfurnia fu, ch'a 'sta maniera crese
Di vendicarzi della spinta havuta:
Marco Pepe il perdon di già vi chiese,
E pe' faglielo havè, Cencio s'aiuta,
Lo spera, e sa che lo concederete,
Se tutta garbataggine voi sete".

MEO PATACCA la fece allor da grande,
Piacevole si mostra con sussiego:
"A meritevolissime domande
D'un caro amico, - disse, - ecco mi piego.
Simile a un animai, che magna jande
Fu 'sto poltrone in tel guerresco impiego,
Et io penzato havevo di sventrarlo,
Ma sol pe' vostro amor lasso di farlo.

Senti poi tu, quel, che da te pretenno,
- Dice voltato a Marco Pepe, - e penza
Ch'è tua grolla ubbidir, che giù te stenno",
Se ce fai gnente gnente resistenza:
Che Nuccia mo' vadi a trovane, intenno
Et haverai di Cencio l'assistenza;
La verità sapè tu glie farai,
Che brutta e vecchia io non glie dissi mai.

Noto sia di Calfurnia a lei l'inganno,
Sappia da te quel che costei t'ha detto;
Che quest'attione i pari miei non fanno
Di maltrattane chi gli porta affetto;
Che s'a quella credè, sarà su' danno,
E s'ardì poi di perdermi il rispetto,
Con farmi una bruttissima creanza,
Ch'io più l'ami ha d'havè poca speranza.

E tu sappi alla fin, che ti perdono
La sfacciata insolenza che mostrasti,
Solo in grazia di Cencio, e ti fo dono
Della sferra, ch'in preda a me lassasti:
Fortuna havesti, e dettene de bono,
Ch'a 'sto mio grand'amico t'appoggiasti;
Senza lui, pe' le cose che m'hai fatte,
Ci annavi a fè ci annavi pe' le fratte.

Solo in riguardo suo ti lasso vive,
Se no te la sonavo assai di breve,
Che con le bone, e no co' le cattive
Da me piacer o grazia si riceve;
Ma non penzà, ch'io più te voglio scrive
Tra li mi' sgherri, che menà non deve
Un comannante 'sti ciafèi là dove,
Senza fuggì, s'intosta a fa' gran prove".

"Come commanna, Lei sarà servita",
Rispose Marco Pepe, et un inchino
Fece, ch'arrivò il capo a mezza, vita,
Nelle spalle stregnennosi el meschino:
"La vostra volontà s'è già sentita -
Ripigliò Cencio, - io puro a voi m'inchino".
Lui disse: "A rivedecce capitano"
E Marco Pepe a MEO basciò la mano.

Spariscono costoro come un lampo,
E doppo resce MEO, che gira attorno,
Pe' fa' sapè, che la comparza in campo
Da fa' s'haveva in tel seguente giorno.
Ecco s'infronta in un gustoso inciampo
D'un, che teneva molta gente intorno:
Stava costui facenno a 'sta brigata,
Di due tamburri al son la bandierata.

Questa è 'na certa festa, che la fanno
Innanzi alle lor case i bottegari,
E mentre uno sta in mezzo sbandieranno,
La gente ce se fenna a piedi pari.
Tocca ad ogn'arte una sol volta l'anno,
Questi per ordinario Macellari,
Pizzicaroli sono, Osti, Erbaroli,
Fornari, Ciammellari, e Fruttaroli.

Piglia un di loro in te la strada el posto,
L'asta della bandiera acchiappa e stregne;
Fan largo i riguardanti, e van discosto,
Stanno in circolo, e l'un l'altro poi spegne;
Suol'esser questo un giovane disposto,
Ch'habbia imparato a maneggià l'insegne;
Chalch'un ce fa gran studio, e se ne tiene,
Perchè riesce a maraviglia bene.

'Sta sorte di bandiera si fa solo
Di taffettano e di più teli uniti.
Larga e longa a misura d'un lenzolo;
So' i teli in bianchi e rosci scompartiti.
Colui, ch'è qui nel mezzo, è un tal Fasciolo:
Fa l'ortolano, et assai ben vestiti
Con lui sono i compagni, et è sol questa
La causa, ch'in quel giorno è la lor festa.

Ecco già si stambura a più potere
Giusto d'un erbarolo innanzi al banco;
Affollato sta il popolo a vedere,
Mentre Fasciolo tiè la mano al fianco.
Doppo, con sfarzosissime maniere,
Perchè in tel fa' questi esercizi è franco,
Per onorà di tutti la presenza,
Glie fa con la bandiera riverenza.

Stesa a mezz'aria poi la sventolicchia;
Hor con la punta al popolo un assalto
Finge di dare, all'asta hor l'avviticchia,
E attorcinata poi, la butta in alto;
L'incontra, la ripiglia, la sviticchia,
L'abbassa, e su ce zompa con un salto;
Hor la gira con furia, hora pian piano,
Hor la butta dall'una all'altra mano.

PATACCA osserva, e non se move gnente,
Ma sol, come succede a genti guappe,
In drento al petto el cor se gli risente
De tamburri battuti al tippe tappe.
Di farzi amico gli è venuto in mente,
E appiccicasse come fan le lappe
A questo tal, che sbandierà qui vede;
Gli vuò chiede un servizio gli vuò chiede.

Fasciolo la bandiera ancor non lassa,
Maneggianno la va com'una penna,
Mò de sotto alle gamme se la passa,
Mò fa, che sopra 'l capo si distenna;
Alla fin poi, mentre ch'in giù l'abbassa,
Tutti saluta, et a un compagno azzenna,
Che venga innanzi, e mentre fora scappa,
Glie la tira, e colui lesto l'acchiappa.

MEO, che vede la festa esser finita,
Largo si fa tra quei martufi e grisci,
Ch'erano attorno, e spara assai compita
Una cerimoniata allor suisci:
"Sete, - dice, - un gran homo, et applaudita
La virtù vostra è stata da nostrisci:
Ve voglio esser amico, e saperete
Chi è 'sto fusto, e gran gusto ci haverete".

"Oh signor MEO PATACCA! ve so' schiavo;
- Disse Fasciolo, - io già ve conoscevo,
Ma a dirla giusta non m'arrisicavo
De fa' con voi, quello che fa' dovevo;
So, che tra sgherri voi sete il più bravo,
Di venirvi a trovà gran voglia havevo;
So ch'annate alla guerra, e se sentivo,
Che per me c'era loco, io ci venivo".

"Vi stimo, - dice MEO, - m'havete cera
D'un giovane de garbo, e v'ho per tale.
Già m'accorci, ch'in voi spirito c'era
Che non sete uno sgherro dozzinale:
Mi bisogna, pe' dilla, 'sta bandiera,
Dell'istessa, e di voi fo capitale;
Et assai più vostrodine m'onora,
Se mi fa havè li tamburrini ancora.

Domani doppo pranzo el mi' squadrone
Farà in Campo Vaccino la gran mostra;
Perchè sia tutta scialo 'sta funzione
Ci manca solo la perzona vostra;
Appena v'allampai, che con raggione
Incrapicciato el genio mio si mostra,
Già che pratico sete del mestiero,
D'havervi in detto giorno per alfiero.

Se inverso VIENNA poi marcià volete,
Ci haverò gusto ci haverò più assai,
E la carica vostra riterrete,
Nè quest'onor vi sarà tolto mai".
"M'haverete fidele, m'haverete,
- Fasciolo risponnè, - ch'io già penzai,
S'a tempo lo sapevo, da me stesso,
Chiedervi quel, ch'a me chiedete adesso.

Verrò alla guerra e con me ancor verranno
Li tamburrini, che costoro vònno
Quel che vogl'io, perchè a mi' modo fanno,
E a me non pònno contradì non pònno.
Con noi 'sto viaggio volentier faranno,
Che ci hanno gusto di girane el monno;
Hor mentre, del favor grazie vi renno,
Obrigo me con loro al vostro cenno".

Fu di PATACCA allor tale il contento,
Che gonfio non capiva in te la pelle;
De fatto te gli dà l'appuntamento,
E li essorta a venì con foggie belle.
Ma all'improviso la bandiera attento
Guarda e fa certe smorfie, e certe quelle,
Che Fasciolo, ch'osserva si stordisce,
E perchè così faccia non capisce.

Alfin dice PATACCA: "O quanta guazza Chi
contro l'altri ogn'hor l'ingegno aguzza
A noi darà, con dir: Che gente pazza!
Ci vuò fa' tanta vernia e tanta puzza,
Poi tiè nella bandiera, che svolazza,
Una rapa dipinta e 'na cucuzza.
Ben fa vede, ch'è a baronate avvezza,
Se per arme 'sta robba ricapezza.

Ma zitto! c'è rimedio. Ecco sentite,
Di fa' quel ch'io vi dico non v'increschi;
Con carte gialle e roscie ricropite
'Sti cibbi grossolani ortolaneschi;
Di questi in scammia siano qui sculpite
L'insegne di noi altri romaneschi,
Che so' cose civili, e no villane,
Fionne, rocci, stortini, e dorindane".

"Il non farlo sarìa gran pregiudizio,
- Disse Fasciolo, - a fè', che non me sazio
Di far apprauso al vostro gran giudizio,
E dell'avvertimento vi ringrazio.
Un certo amico mi farà el servizio,
Che dipigne, e si chiama Scotifazio;
Però tempo non c'è da star in ozio,
Mò me la sbatto ad aggiustà 'l negozio".

Assai piacque a Patacca 'sta risposta,
E 'l discorzo fu allor così fornito.
Si spartirno, e si dettero la posta
Di trovarzi in tel loco stabbilito.
Va quello dal pittor, va MEO de posta
Di gente maiorenga a fa' l'invito,
Ch'havè prauso da questa, e busca insieme
Chalche aiuto di costa assai gli preme.

Hor mentre è intento a 'st'opera onorata,
Nuccia un'altra ne fa poco civile;
Resce de casa sua tutta infoiata,
Mena Tuzia con sé, com'è 'l su' stile.
Va per far a Calfurnia una piazzata,
E peggio ancora, pe' sfogà la bile,
Che glie rosica el cor, perchè gli è nota,
Quella che lei piantò grossa carota.

Già Marco Pepe e Cencio in compagnia,
Per ubbidir a MEO, che glie l'impose,
A Nuccia fatt'havevano la spia
Di quello, che la ciospa a lei suppose;
Par ch'una furia scatenata sia,
Che vada in prescia in prescia a fa' gran cose;
Di Calfurnia alla porta alfin arriva,
E giusto per uscir costei l'apriva.

La spegne Nuccia, e rentra de potenza
Lì dove a piana terra c'è una stanza;
Ma però dice Tuzia: "Co' licenza",
Pe' non parè de fa' mala creanza.
Hebbe Calfurnia allor tanta temenza,
Cognoscenno, di Nuccia alla baldanza,
Che haveva in testa calche sghiribizzo,
Ch'addosso glie venì gran tremolizzo.

Ma Nuccia potenziuta fa un cert'atto
A 'sta vecchia ribalda, di dispetto,
Perchè entrata con impeto, de fatto
Slarga la mano, e glie la dà in tel petto.
Colei strillanno dice: "E che v'ho fatto?
Sapete pur, quanto vi porto affetto;
Questa mi par, che stravaganza sia,
Con me, che havete gnora Nuccia mia?".

"Ecco se che cos'ho, tò, piglia, e impara,
Busciarda! a mette male tra le genti",
Quella così glie dice, e colpi spara
Di spallate, di pugni, e sciacquadenti.
Meglio che pò, Calfurnia si ripara,
Ma non fa già, che i sganassoni allenti
Nuccia, che perticona e assai forzuta
Li ridoppia, e continua la battuta.

"Aiuto! ahimè! - grida colei, - che fate
Monna Tutia? perchè non ci spartite?"
Questa si mette in mezzo. "Oh via! fermate
Signora Nuccia! - dice, - e me sentite,
Voi già a bastanza glie n'havete date,
È troppo, se con lei più v'infierite.
È vero in quanto, che raggione havete,
Ma poi stroppia per questo la volete?".

Vedenno ch'il piglialla con le bone
Gnente giova, e che lei più s'inasprisce,
Intrattenè la vuò, ma uno spintone
Glie dà Nuccia, e così te la ciarisce.
Va Tutia abbasso, co' 'no stramazzone,
Che longa stesa giù la sbalordisce.
Più allor Nuccia s'infuria, e fa la sgherra.
Et a Calfurnia casca il core in terra.

Poi pell'osso del collo te la piglia,
Gli fa abbassa la gnucca, e glie la torce,
Par, che voglia strozzalla, e rassomiglia
Giusto una gatta, ch'aggranfiato ha il sorce.
Te glie straccia la scuffia e la scapiglia;
Per uscirglie di man, quella si storce,
E tanto fa, che scivola e glie scappa,
Ma per li ciurli allor Nuccia l'aggrappa.

O mò ci ha dato, o mò ce so' de guai,
Perchè 'sta giovenotta risoluta,
Glie fa alla peggio, e glie li tira assai,
E già una fezza in man glie n'è venuta,
Glie dà botte spietate. "E che farai?",
Grida la ciospa, e come può s'aiuta,
E le vendette fa de i pugni e schiaffi,
Con pizzichi, con mozzichi, e co' sgraffi.

Nuccia si scioglie allor peggio di prima,
Se gl'avventa alla vita, e al muro stretta,
Quì 'l capo glie vuò sbattere, e la grima
Di restà sfragassata, già s'aspetta.
Perchè così gran impeto reprima,
Tutia alzatasi alfin, curre all'infretta,
Nè potenno con altro, con la voce,
Procura di placà Nuccia feroce.

Ma non per questo già costei si stacca,
E mentre più s'aggruma e più s'ammucca,
Alla ciospa, in resistere assai fiacca,
Glie fa in te la muraglia urtà la gnucca;
In vede, ch'in pistalla non si stracca,
S'intontisce la vecchia mammalucca,
Ma sazia Nuccia alfin, più non la tocca,
E te la fa restà come un'alocca.

Ma tra c'ha l'occi gonfi et ammaccati,
E sguerci, e piagnolosi, e spauriti,
Tra che i capelli, che glie so' restati,
Glie l'ha già lo spavento interrezziti.
Per esser questi poi tutti impicciati,
E corti, e setolosi, e incanutiti;
Tra che la faccia è scolorita e biega,
Più non pare una donna, ma una strega.

Nuccia intanto le scuffie si riaggiusta,
E il capo ancor, che s'era tutta sconcia
Con tanto maneggiarzi, e no glie gusta
L'uscir così sciattona, e si riacconcia.
Parte con Tutia, e una vendetta giusta
Crede havè fatta, e quella vecchia moncia
Resta a sfogane el su' dolor col pianto,
Et io mo' glie la sono, e lasso il canto.

Fine del Quinto Canto.

 
 
 

La Secchia Rapita 01-1

Post n°1252 pubblicato il 22 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

La Secchia Rapita
di Alessandro Tassoni

CANTO PRIMO

ARGOMENTO

Del bel Panaro il pian sotto due scorte
a predar vanno i Bolognesi armati,
ma da Gherardo altri condotti a morte,
altri dal Potta son rotti e fugati.
Gl'incalza di Bologna entro le porte
Manfredi, i cui guerrier co' vinti entrati
fanno per una Secchia orribil guerra,
e tornan trionfanti a la lor terra.


        1
Vorrei cantar quel memorando sdegno
ch'infiammò già ne' fieri petti umani
un'infelice e vil Secchia di legno
che tolsero a i Petroni i Gemignani.
Febo che mi raggiri entro lo 'ngegno
l'orribil guerra e gl'accidenti strani,
tu che sai poetar servimi d'aio
e tiemmi per le maniche del saio.

        2
E tu nipote del Rettor del mondo
del generoso Carlo ultimo figlio,
ch'in giovinetta guancia e 'n capel biondo
copri canuto senno, alto consiglio,
se da gli studi tuoi di maggior pondo
volgi talor per ricrearti il ciglio,
vedrai, s'al cantar mio porgi l'orecchia,
Elena trasformarsi in una Secchia.

        3
Già l'aquila romana avea perduto
l'antico nido, e rotto il fiero artiglio
tant'anni formidabile e temuto
oltre i Britanni ed oltre il mar vermiglio;
e liete, in cambio d'arrecarle aiuto,
l'italiche città del suo periglio,
ruzavano tra lor non altrimenti
che disciolte polledre a calci e denti.

        4
Sol la reina del mar d'Adria, volta
de l'Oriente a le provincie, a i regni,
da le discordie altrui libera e sciolta
ruminava sedendo alti disegni,
e gran parte di Grecia avea già tolta
di mano a gli empi usurpatori indegni;
l'altre attendean le feste a suon di squille
a dare il sacco a le vicine ville.

        5
Part'eran ghibelline, e favorite
da l'imperio aleman per suo interesse;
part'eran guelfe, e con la Chiesa unite
che le pascea di speme e di promesse:
quindi tra quei del Sipa antica lite
e quei del Potta ardea, quando successe
l'alto, stupendo e memorabil caso,
che ne gli annali scritto è di Parnaso.

        6
Del celeste Monton già il sol uscito
saettava co' rai le nubi algenti,
parean stellati i campi e 'l ciel fiorito,
e su 'l tranquillo mar dormíeno i venti;
sol Zefiro ondeggiar facea su 'l lito
l'erbetta molle e i fior vaghi e ridenti,
e s'udian gli usignuoli al primo albore
e gli asini cantar versi d'amore:

        7
quando il calor de la stagion novella,
che movea i grilli a saltellar ne' prati,
mosse improvisamente una procella
di Bolognesi a' loro insulti usati.
Sotto due capi a depredar la bella
riviera del Panaro usciro armati,
passaro il fiume a guazzo, e la mattina
giunse a Modana il grido e la ruina.

        8
Modana siede in una gran pianura
che da la parte d'austro e d'occidente
cerchia di balze e di scoscese mura
del selvoso Apennin la schiena algente;
Apennin ch'ivi tanto a l'aria pura
s'alza a veder nel mare il sol cadente,
che su la fronte sua cinta di gielo
par che s'incurvi e che riposi il cielo.

        9
Da l'oriente ha le fiorite sponde
del bel Panaro e le sue limpid'acque;
Bologna incontro, e a la sinistra l'onde
dove il figlio del sol già morto giacque;
Secchia ha da l'aquilon, che si confonde
ne' giri che mutar sempre le piacque,
divora i liti, e d'infeconde arene
semina i prati e le campagne amene.

        10
Viveano i Modanesi a la spartana
senza muraglia allor né parapetto,
e la fossa in piú luoghi era sí piana,
che s'entrava ed usciva a suo diletto.
Il martellar de la maggior campana
fe' piú che in fretta ognun saltar del letto,
diedesi a l'arma, e chi balzò le scale,
chi corse a la finestra, e chi al pitale;

        11
chi si mise una scarpa e una pianella,
e chi una gamba sola avea calzata,
chi si vestí a rovescio la gonella,
chi cambiò la camicia con l'amata;
fu chi prese per targa una padella
e un secchio in testa in cambio di celata,
e chi con un roncone e la corazza
corse bravando e minacciando in piazza.

        12
Quivi trovar che 'l Potta avea spiegato
lo stendardo maggior con le trivelle,
ed egli stesso era a cavallo armato
con la braghetta rossa e le pianelle.
Scriveano i Modanesi abbreviato
Pottà per Potestà su le tabelle,
onde per scherno i Bolognesi allotta
l'avean tra lor cognominato il Potta.

        13
Messer Lorenzo Scotti, uom saggio e forte,
era allor Potta, e decideva i piati.
Fanti e cavalli in tanto ad una sorte
a la piazza correan da tutti i lati.
Egli, poiché guernite ebbe le porte,
una squadra formò de' meglio armati,
e ne diede il comando e lo stendardo
al figlio di Rangon detto Gherardo.

        14
Egli dicea: - Va' figlio arditamente,
frena l'orgoglio di que' marrabisi;
non t'esporre a battaglia, acciò perdente
non resti, mentre siam cosí divisi;
ma ferma a la Fossalta la tua gente,
e guarda il passo e aspetta novi avisi,
ch'io ti sarò, se 'l mio pensier non falle,
innanzi sesta armato anch'io a le spalle. -

        15
Cosí andava a l'impresa il cavaliero
dal fior de la milizia accompagnato,
e spettacolo in un leggiadro e fiero
si vedeva apparir da un altro lato,
cento donzelle in abito guerriero
col fianco e 'l petto di corazza armato,
e l'aste in mano e le celate in testa,
comparvero in succinta e pura vesta.

        16
Venían guidate da Renoppia bella
cacciatrice ed arciera a l'armi avezza;
Renoppia di Gherardo era sorella,
pari a lui di valor, di gentilezza;
ma non avea l'Italia altra donzella
pari di grazia a lei né di bellezza,
e parea co' virili atti e sembianti
rapir i cori e spaventar gli amanti.

        17
Bruni gli occhi e i capegli, e rilucenti,
rose e gigli il bel volto, avorio il petto,
le labbra di rubin, di perle i denti,
d'angelo avea la voce e l'intelletto.
Maccabrun da l'Anguille in que' commenti
che fece sopra quel gentil sonetto
Questa barbuta e dispettosa vecchia,
scrive ch'ell'era sorda da una orecchia.

        18
Or giunta in piazza ella dicea: - Signori,
noi siam deboli sí, ma non di sorte
che non possiamo almen per difensori
guardare i passi e custodir le porte;
queste compagne mie ben avran cori
da gire anch'esse ad incontrar la morte,
né già disdice a vergine ben nata
per difender la patria, uscire armata.

        19
Quel dí che Barbarossa arse Milano,
mio nonno guadagnò quest'armi in guerra;
Gherardo mio fratel le chiudea in vano,
ché le porte gittate abbiam per terra;
e s'al cor non vien meno oggi la mano,
se 'l nemico s'appressa a questa terra,
speriam che col suo sangue e la sua morte
ei proverà se sian di tempra forte. -

        20
Accese i cor di generoso sdegno
il magnanimo ardir de la donzella,
onde con l'armi fuor senza ritegno
correa la gioventú feroce e bella.
Con maestoso modo e di sé degno
il Potta la raffrena e la rappella:
- Dove andate, canaglia berettina,
senza ordinanza e senza disciplina?

        21
Credete forse che colà v'aspetti
trebbiano in fresco e torta in su 'l tagliere?
Adattatevi in fila, uomini inetti,
nati a mangiar l'altrui fatiche e bere. -
Cosí frenando i temerari affetti
distingueva in un tratto ordini e schiere.
Gherardo in tanto in opportuno punto
era correndo a la Fossalta giunto:

        22
ché Bordocchio Balzan, ch'avea condotto
la prima squadra, allor quivi arrivato,
s'era con molto ardir già spinto sotto
a la torre onde il passo era guardato;
quei de la torre aveano il ponte rotto
da un canto, e 'l varco stretto indi serrato,
e 'l difendean da merli e da finestre
con dardi, mazzafrusti, archi e balestre.

        23
Il capitan de la Petronia gente,
ch'era un omaccio assai polputo e grosso,
gridava da la ripa del torrente
a i suoi, ch'eran fermati, a piú non posso:
- Perché non seguitadi alliegramente?
Avídi pora di saltar un fosso?
O volídi restar tutti a la coda?
Passadi panirun pieni di broda. -

        24
Cosí dicea, quand'ecco in vista altera
vide giugner Gherardo a l'altra riva,
onde a destra piegar fe' la bandiera
contra 'l nemico stuol ch'indi veniva;
e confidato ne l'amica schiera,
i cui tamburi già da lunge udiva,
spinse da l'alta sponda i suoi soldati
dal notturno cammin stanchi e affannati.

        25
Allor Gherardo a' suoi diceva: - O forti,
ecco Dio che divide e che confonde
questi bedani: udite i lor consorti
che sono del Panaro anco a le sponde.
Prima del giugner lor, questi fien morti,
pochi e stanchi, e ridotti entro a quest'onde.
Seguitatemi voi, ché larga strada
io vi farò col petto e con la spada. -

        26
Cosí dicendo urta 'l cavallo, e dove
la battaglia gli par piú perigliosa
si lancia in mezzo a l'onda, e 'n giro move
la spada fulminante e sanguinosa.
Non fe' il capitan Curzio tante prove
sotto Lisbona mai, né su la Mosa,
quante ne fe' tra l'una e l'altra ripa
Gherardo allor su 'l popolo dal Sipa.

        27
Uccise il Bertolotto, e 'l corpo grasso
spirò ne l'acqua fresca, e fu l'orrore
de l'acqua ch'abborriva, in su quel passo,
de l'orror de la morte assai maggiore.
Uccise appresso a lui mastro Galasso
cavadente perfetto e ciurmatore:
vendea ballotte e polvere e braghieri:
meglio per lui non barattar mestieri.

        28
Senza naso lasciò Cesar Viano
fratel del Podestà di Medicina,
e d'un dardo cader fe' di lontano
trafitto un figlio del dottor Guaina;
indi ammazzò il barbier di Crespellano.
che portava la spada a la mancina;
e mastro Costantin da le Magliette,
che faceva le gruccie a le civette.

        29
Un certo bell'umor de' Zambeccari
gli diede una sassata ne la pancia,
e a un tempo Gian Petronio Scadinari
gli forò la braghetta con la lancia;
la buona spada gli mandò del pari
come se fosse stata una bilancia,
ch'a l'uno e l'altro tagliò il capo netto,
e i tronchi ne la rena ebber ricetto.

        30
Qual già su 'l Xanto il furibondo Achille
fe' del sangue troian crescer quell'onda,
o Ippomedonte a le tebane ville
fe' de l'Asopo insanguinar la sponda,
tal il giovane fier l'onde tranquille
fa rosseggiar del sangue ostil che gronda:
ma da la tanta copia infastidita
diede la Musa a pochi nomi vita.

        31
L'oste dal Chiú, Zambon dal Moscadello,
facea tra gli altri una crudel ruina;
una zazzera avea da farinello,
senz'elmo in testa e senza cappellina;
si riscontrò con Sabatin Brunello,
primo inventor de la salciccia fina,
che gli tagliò quella testaccia riccia
con una pestarola da salciccia.

        32
Bordocchio intanto il fiume avea passato
soverchiand'ogn'incontro, ogni ritegno,
quando del Potta, che venía, fu dato
da la torre a Gherardo e a gl'altri il segno.
Se n'avvide Bordocchio, e rivoltato
di ripassare a' suoi facea disegno;
ma ne l'onda il destrier sotto gli cade,
e rimase prigion fra cento spade.

 
 
 

I miei box

Post n°1251 pubblicato il 22 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 
Tag: Blog, Box, Varie

Ultimamente ho pubblicato un bel po' di opere complete, per lo più di autori non molto conosciuti. Per poter ritrovare facilmente i vari post, ho organizzato una serie di box, nei quali sono riportati i link agli indici di ciascuna opera. I box sono tematici ed al momento li ho organizzati in tre categorie. Riporto qui di seguito, per ciascuna categoria, le opere pubblicate, ordinate in base all'autore.

Prosa:
della Casa, Giovanni: Il Galateo
Manzoni, Alessandro: Storia della Colonna Infame
Muzzi, Salvatore: I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici
Trilussa: Picchiabbò
Verri, Pietro: Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 - Prima edizione 1804

Poemi:
Alessandro Tassoni: La Secchia rapita
Fazio degli Uberti: Il Dittamondo
Giuseppe Berneri: Il Meo Patacca
Pascarella, Cesare: La scoperta de l'America
Pascarella, Cesare: Villa Gloria
Sindici, Augusto: XIV Leggende della Campagna romana

Poesia:
Autori vari: Rime inedite del Cinquecento
Berni, Francesco: Rime
Cimina, Angiola
: Sonetti di Angiola Cimina
d'Aragona, Tullia: Rime
Davanzati, Mariotto: Rime
de' Conti, Giusto: La Bella Mano
della Casa, Giovanni: Rime
di Morra, Isabella: Sonetti e canzoni di Isabella di Morra
Franco, Veronica: Rime
Magno, Celio: Rime
Ricchieri, Giovambattista: Rime filosofiche e sacre del Signor Giovambatista Ricchieri Patrizio Genovese, fra gli Arcadi Eubeno Buprastio, Genova, Bernardo Tarigo, 1753
Rinuccini, Cino: Rime
Tasso, Torquato: Cinquanta madrigali inediti del Signor Torquato Tasso alla Granduchessa Bianca Cappello nei Medici

Poeti romaneschi:
Pascarella, Cesare: Er maestro de noto
Ilari, Nino: Quo vadis
Trilussa: Nove Poesie
Trilussa: Quaranta sonetti romaneschi

 
 
 

Il Galateo (28-30)

Post n°1250 pubblicato il 22 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

28.
Non si dèe adunque l'uomo contentare di fare le cose buone, ma dèe studiare di farle anco leggiadre: e non è altro leggiadria che una cotale quasi luce che risplende dalla convenevolezza delle cose che sono ben composte e ben divisate l'una con l'altra e tutte insieme, sanza la qual misura etiandio il bene non è bello e la bellezza non è piacevole. E sì come le vivande, quantunque sane e salutifere, non piacerebbono agl'invitati se elle o niun sapore avessero o lo avessero cattivo, così sono alcuna volta i costumi delle persone, come che per sé stessi in niuna cosa nocivi, non di meno sciocchi et amari, se altri non gli condisce di una cotale dolcezza, la quale si chiama (sì come io credo) gratia e leggiadria. Per la qual cosa ciascun vitio per sé, sanza altra cagione, convien che dispiaccia altrui, con ciò sia che i vitii siano cose sconcie e sconvenevoli sì, che gli animi temperati e composti sentono della loro sconvenevolezza dispiacere e noia. Per che innanzi ad ogni altra cosa conviene a chi ama di esser piacevole in conversando con la gente il fuggire i vitii e più i più sozzi, come lussuria, avaritia, crudeltà e gli altri, de' quali alcuni sono vili (come lo essere goloso e lo inebriarsi), alcuni laidi (come lo essere lussurioso), alcuni scelerati (come lo essere micidiale): e similmente gli altri, ciascuno in sé stesso e per la sua proprietà è schifato dalle persone, chi più e chi meno, ma tutti generalmente, sì come disordinate cose, rendono l'uomo nell'usar con gli altri spiacevole, come io ti mostrai anco di sopra. Ma perché io non presi a mostrarti i peccati, ma gli errori, degli uomini, non dèe esser mia presente cura il trattar della natura de' vitii e delle virtù, ma solamente degli acconci e degli sconci modi che noi l'uno con l'altro usiamo: uno de' quali sconci modi fu quello del Conte Ricciardo (del quale io t'ho di sopra narrato), che, come difforme e male accordato con gli altri costumi di lui belli e misurati, quel valoroso Vescovo, come buono et ammaestrato cantore suole le false voci, tantosto ebbe sentito. Conviensi adunque alle costumate persone aver risguardo a questa misura che io ti ho detto, nello andare, nello stare, nel sedere, negli atti, nel portamento e nel vestire e nelle parole e nel silentio e nel posare e nell'operare. Per che non si dèe l'uomo ornare a guisa di femina, acciò che l'ornamento non sia uno e la persona un altro, come io veggo fare ad alcuni che hanno i capelli e la barba inanellata col ferro caldo, e 'l viso e la gola e le mani cotanto strebbiate e cotanto stropicciate che si disdirebbe ad ogni feminetta, anzi ad ogni meretrice, quale ha più fretta di spacciare la sua mercatantia e di venderla a prezzo. Non si vuole né putire né olire, acciò che il gentile non renda odore di poltroniero, né del maschio venga odore di femina o di meretrice; né per ciò stimo io che alla tua età si disdichino alcuni odoruzzi semplici di acque stillate. I tuoi panni convien che siano secondo il costume degli altri di tuo tempo o di tua conditione, per le cagioni che io ho dette di sopra; ché noi non abbiamo potere di mutar le usanze a nostro senno, ma il tempo le crea, e consumale altresì il tempo. Puossi bene ciascuno appropriare l'usanza comune; ché se tu arai per aventura le gambe molto lunghe e le robe si usino corte, potrai far la tua roba non delle più, ma delle meno, corte, e se alcuno le avesse o troppo sottili o grosse fuor di modo, o forse torte, non dèe farsi le calze di colori molto accesi, né molto vaghi, per non invitare altrui a mirare il suo difetto. Niuna tua vesta vuole essere molto molto leggiadra, né molto molto fregiata, acciò che non si dica che tu porti le calze di Ganimede o che tu ti sii messo il farsetto di Cupido, ma, quale ella si sia, vuole essere assettata alla persona e starti bene, acciò che non paia che tu abbi indosso i panni d'un altro, e sopra tutto confarsi alla tua conditione, acciò che il cherico non sia vestito da soldato e il soldato da giocolare. Essendo Castruccio in Roma con Lodovico il Bavero in molta gloria e trionfo, Duca di Lucca e di Pistoia e Conte di Palazzo e Senator di Roma e Signore e Maestro della corte del detto Bavero, per leggiadria e grandigia si fece una roba di sciamito cremesì, e dinanzi al petto un motto a lettere d'oro: «EGLI È COME DIO VUOLE», e nelle spalle di drieto simili lettere che diceano: «E' SARÀ COME DIO VORRÀ»: questa roba credo io che tu stesso conoschi che si sarebbe più confatta al trombetto di Castruccio che ella non si confece a lui. E quantunque i re siano sciolti da ogni legge, non saprei io tuttavia lodare il re Manfredi in ciò, che egli sempre si vestì di drappi verdi. Debbiamo adunque procacciare che la vesta bene stia non solo al dosso, ma ancora al grado, di chi la porta, et oltre a ciò, che ella si convenga etiandio alla contrada ove noi dimoriamo, con ciò sia cosa che sì come in altri paesi sono altre misure, e non di meno il vendere et il comperare et il mercatantare ha luogo in ciascuna terra, così sono in diverse contrade diverse usanze, e pure in ogni paese può l'uomo usare e ripararsi acconciamente. Le penne che i Napoletani e gli Spagniuoli usano di portare in capo e le pompe e i ricami male hanno luogo tra le robe degli uomini gravi e tra gli abiti cittadini, e molto meno le armi e le maglie; sì che quello che in Verona per aventura converrebbe, si disdirà in Vinegia, perciò che questi così fregiati e così impennati et armati non istanno bene in quella veneranda città pacifica e moderata, anzi paiono quasi ortica o lappole fra le erbe dolci e domestiche degli orti; e perciò sono poco ricevuti nelle nobili brigate, sì come difformi da loro. Non dèe l'uomo nobile correre per via, né troppo affrettarsi, ché ciò conviene a palafreniere e non a gentiluomo, sanza che l'uomo s'affanna e suda et ansa, le quali cose sono disdicevoli a così fatte persone. Né per ciò si dèe andare sì lento né si contegnoso come femina o come sposa, et in caminando troppo dimenarsi disconviene. Né le mani si vogliono tenere spenzolate, né scagliare le braccia, né gittarle, sì che paia che l'uom semini le biade nel campo, né affissare gli occhi altrui nel viso, come se egli vi avesse alcuna maraviglia. Sono alcuni che in andando levano il piè tanto alto come cavallo che abbia lo spavento, e pare che tirino le gambe fuori d'uno staio; altri percuote il piede in terra sì forte che poco maggiore è il romore delle carra; tale gitta l'uno de' piedi in fuori, e tale brandisce la gamba; chi si china ad ogni passo a tirar su le calze, e chi scuote le groppe e pavoneggiasi: le quai cose spiacciono non come molto, ma come poco avenenti. Ché, se il tuo palafreno porta per aventura la bocca aperta o mostra la lingua, come che ciò alla bontà di lui non rilievi nulla, al prezzo si monterebbe assai e troverestine molto meno, non perché egli fosse per ciò men forte, ma perché egli men leggiadro ne sarebbe. E se la leggiadria s'apprezza negli animali et anco nelle cose che anima non hanno né sentimento, come noi veggiamo che due case ugualmente buone et agiate non hanno per ciò uguale prezzo se l'una averà convenevoli misure e l'altra le abbia sconvenevoli, quanto si dèe ella maggiormente procacciare et apprezzar negli uomini?

29.
Non istà bene grattarsi sedendo a tavola, e vuolsi in quel tempo guardar l'uomo più che e' può di sputare e, se pure si fa, facciasi per acconcio modo. Io ho più volte udito che si sono trovate delle nationi così sobrie che non isputavano già mai: ben possiamo noi tenercene per brieve spatio! Debbiamo etiandio guardarci di prendere il cibo sì ingordamente che per ciò si generi singhiozzo o altro spiacevole atto, come fa chi s'affretta sì, che convenga che egli ansi e soffi con noia di tutta la brigata. Non istà medesimamente bene a fregarsi i denti con la tovagliuola e meno col dito, che sono atti difformi; né risciacquarsi la bocca e sputare il vino sta bene in palese; né in levandosi da tavola portar lo stecco in bocca a guisa d'uccello che faccia suo nido, o sopra l'orecchia come barbieri, è gentil costume. E chi porta legato al collo lo stuzzicadenti erra sanza fallo, ché, oltra che quello è uno strano arnese a veder trar di seno ad un gentiluomo e ci fa sovenire di questi cavadenti che noi veggiamo salir su per le panche, egli mostra anco che altri sia molto apparecchiato e proveduto per li servigi della gola; e non so io ben dire perché questi cotali non portino altresì il cucchiaio legato al collo! Non si conviene anco lo abbandonarsi sopra la mensa, né lo empiersi di vivanda amendue i lati della bocca sì che le guancie ne gonfino; e non si vuol fare atto alcuno per lo quale altri mostri che gli sia grandemente piaciuta la vivanda o 'l vino, che sono costumi da tavernieri e da Cinciglioni. Invitar coloro che sono a tavola e dire: - Voi non mangiate stamane? - o - Voi non avete cosa che vi piaccia? - o - Assaggiate di questo, o di quest'altro - non mi pare laudevol costume, tutto che il più delle persone lo abbia per famigliare e per domestico, perché, quantunque ciò facendo mostrino che loro caglia di colui cui essi invitano, sono etiandio molte volte cagione che quegli desini con poca libertà, perciò che gli pare che gli sia posto mente e vergognasi. Il presentare alcuna cosa del piattello che si ha dinanzi non credo che stia bene, se non fosse molto maggior di grado colui che presenta, sì che il presentato ne riceva onore, perciò che tra gli uguali di conditione pare che colui che dona si faccia in un certo modo maggior dell'altro e talora quello che altri dona non piace a colui a chi è donato, sanza che mostra che il convito non sia abondevole d'intromessi o non sia ben divisato, quando all'uno avanza et all'altro manca; e potrebbe il signor della casa prenderlosi ad onta; non di meno in ciò si dèe fare come si fa e non come è bene di fare, e vuolsi più tosto errare con gli altri in questi sì fatti costumi che far bene solo. Ma, che che in ciò si convenga, non dèi tu rifiutar quello che ti è porto, ché pare che tu sprezzi o che tu riprenda colui che 'l ti porge. Lo invitare a bere (la qual usanza, sì come non nostra, noi nominiamo con vocabolo forestiero, cioè «far brindisi») è verso di sé biasimevole e nelle nostre contrade non è ancora venuto in uso, sì che egli non si dèe fare; e, se altri invitarà te, potrai agevolmente non accettar lo 'nvito e dire che tu ti arrendi per vinto, ringratiandolo, o pure assaggiando il vino per cortesia, sanza altramente bere. E quantunque questo «brindisi», secondo che io ho sentito affermare a più letterati uomini, sia antica usanza stata nelle parti di Grecia, e come che essi lodino molto un buono uomo di quel tempo che ebbe nome Socrate, per ciò che egli durò a bere tutta una notte quanto la fu lunga a gara con un altro buono uomo che si faceva chiamare Aristofane, e la matina vegnente in su l'alba fece una sottil misura per geometria, che nulla errò, sì che ben mostrava che 'l vino non gli avea fatto noia; e tutto che affermino oltre a ciò che, così come lo arrischiarsi spesse volte ne' pericoli della morte fa l'uomo franco e sicuro, così lo avezzarsi a' pericoli della scostumatezza rende altrui temperato e costumato, e, perciò che il bere del vino a quel modo, per gara, abondevolmente e soverchio è gran battaglia alle forze del bevitore, vogliono che ciò si faccia per una cotal pruova della nostra fermezza e per avezzarci a resistere alle forti tentationi et a vincerle: ciò non ostante a me pare il contrario et istimo che le loro ragioni sieno assai frivole. E troviamo che gli uomini letterati per pompa di loro parlare fanno bene spesso che il torto vince e che la ragion perde, sì che non diamo loro fede in questo: et anco potrebbe essere che eglino in ciò volessino scusare e ricoprire il peccato della loro terra corrotta di questo vitio, con ciò sia che il riprenderla parea forse pericoloso e temeano non per aventura avenisse loro quello che era avenuto al medesimo Socrate per lo suo soverchio andare biasimando ciascuno. Perciò che per invidia gli furono apposti molti articoli di eresia et altri villani peccati, onde fu condannato nella persona, come che falsamente, ché di vero fu buono e catolico secondo la loro falsa idolatria; ma certo perché egli beesse cotanto vino quella notte nessuna lode meritò, perciò che più ne arebbe bevuto o tenuto un tino! E se niuna noia non gli fece, ciò fu più tosto virtù di robusto cielabro, che continenza di costumato uomo. E che che si dichino le antiche croniche sopra ciò, io ringratio Dio che, con molte altre pestilenze che ci sono venute d'oltra monti, non è fino a qui pervenuta a noi questa pessima, di prender non solamente in giuoco, ma etiandio in pregio lo inebriarsi. Né crederò io mai che la temperanza si debba apprendere da sì fatto maestro quale è il vino e l'ebrezza. Il siniscalco da sé non dèe invitare i forestieri, né ritenergli a mangiar col suo signore, e niuno aveduto uomo sarà che si ponga a tavola per suo invito: ma sono alle volte i famigliari sì prosontuosi che quello che tocca al padrone vogliono fare pure essi (Le quali cose sono dette da noi in questo luogo più per incidenza che perché l'ordine che noi pigliammo da principio lo richiegga).

30.
Non si dèe alcuno spogliare, e spetialmente scalzare, in publico, cioè là dove onesta brigata sia, ché non si confà quello atto con quel luogo, e potrebbe anco avenire che quelle parti del corpo che si ricuoprono si scoprissero con vergogna di lui e di chi le vedesse. Né pettinarsi né lavarsi le mani si vuole tra le persone, ché sono cose da fare nella camera e non in palese, salvo (io dico del lavar le mani) quando si vuole ire a tavola, perciò che allora si convien lavarsele in palese, quantunque tu niun bisogno ne avessi, affinché chi intigne teco nel medesimo piattello il sappia certo. Non si vuol medesimamente comparir con la cuffia della notte in capo, né allacciarsi anco le calze in presenza della gente. Sono alcuni che hanno per vezzo di torcer tratto tratto la bocca o gli occhi o di gonfiar le gote e di soffiare o di fare col viso simili diversi atti sconci; costoro conviene del tutto che se ne rimanghino, perciò che la dea Pallade - secondamente che già mi fu detto da certi letterati - si dilettò un tempo di sonare la cornamusa, et era di ciò solenne maestra. Avenne che, sonando ella un giorno a suo diletto sopra una fonte, si specchiò nell'acqua e, avedutasi de' nuovi atti che sonando le conveniva fare col viso, se ne vergognò e gittò via quella cornamusa; e nel vero fece bene, perciò che non è stormento da femine, anzi disconviene parimente a' maschi, se non fossero cotali uomini di vile conditione che 'l fanno a prezzo e per arte. E quello che io dico degli sconci atti del viso, ha similmente luogo in tutte le membra, ché non istà bene né mostrar la lingua, né troppo stuzzicarsi la barba, come molti hanno per usanza di fare, né stropicciar le mani l'una con l'altra, né gittar sospiri e metter guai, né tremare o riscuotersi (il che medesimamente sogliono fare alcuni), né prostendersi e prostendendosi gridare per dolcezza: - Oimé, oimé! - come villano che si desti al pagliaio. E chi fa strepito con la bocca per segno di maraviglia e talora di disprezzo, sì contrafà cosa laida, sì come tu puoi vedere; e le cose contrafatte non sono troppo lungi dalle vere. Non si voglion fare cotali risa sciocche. Né anco grasse o difformi, né rider per usanza e non per bisogno, né de' tuoi medesimi motti voglio che tu ti rida, che è un lodarti da te stesso: egli tocca di ridere a chi ode e non a chi dice! Né voglio io che tu ti facci a credere che, perciò che ciascuna di queste cose è un picciolo errore, tutte insieme siano un picciolo errore, anzi se n'è fatto e composto di molti piccioli un grande, come io dissi da principio; e quanto minori sono, tanto più è di mestiero che altri v'affisi l'occhio, perciò che essi non si scorgono agevolmente, ma sottentrano nell'usanza che altri non se ne avede. E come le spese minute per lo continuare occultamente consumano lo avere, così questi leggieri peccati di nascosto guastano col numero e con la moltitudine loro la bella e buona creanza: per che non è da farsene beffe. Vuolsi anco por mente come l'uom muove il corpo, massimamente in favellando, perciò che egli aviene assai spesso che altri è sì attento a quello che egli ragiona che poco gli cale d'altro; e chi dimena il capo e chi straluna gli occhi e l'un ciglio lieva a mezzo la fronte e l'altro china fino al mento, e tale torce la bocca, et alcuni altri sputano addosso e nel viso a coloro co' quali ragionano; truovansi anco di quelli che muovono sì fattamente le mani come se essi ti volessero cacciar le mosche: che sono difformi maniere e spiacevoli. Et io udii già raccontare (ché molto ho usato con persone scientiate, come tu sai) che un valente uomo, il quale fu nominato Pindaro, soleva dire che tutto quello che ha in sé soave sapore et acconcio fu condito per mano della Leggiadria e della Avenentezza. Ora, che debbo io dire di quelli che escono dello scrittoio fra la gente con la penna nell'orecchio? E di chi porta il fazzoletto in bocca? O di chi l'una delle gambe mette in su la tavola? E di chi si sputa in su le dita? E di altre innumerabili sciocchezze? le quali né si potrebbon tutte raccorre, né io intendo di mettermi alla pruova: anzi, saranno per aventura molti che diranno queste medesime che io ho dette essere soverchie.

 
 
 

La Secchia Rapita, indice

Post n°1249 pubblicato il 22 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 
Foto di valerio.sampieri

La secchia rapita, poema eroicomico di Alessandro Tassoni (Modena, 28 settembre 1565 - Modena, 25 aprile 1635), fu pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1622, circa otto anni dopo la sua stesura, sotto lo psudonimo di Aldrovinci Melisone. Due anni dopo, nel 1624, il Tassoni curò la prima edizione sotto il suo nome.

Il poema, in ottave, è composto di 12 canti:

A chi legge

Canto 1 (1-32) (33-63)
Canto 2 (1-33) (34-66)
Canto 3 (1-39) (40-79)
Canto 4 (1-34) (35-68)
Canto 5 (1-33) (34-66)
Canto 6 (1-37) (38-74)
Canto 7 (1-37) (38-74)
Canto 8 (1-33) (34-75)
Canto 9 (1-41) (42-82)
Canto 10 (1-32) (33-74)
Canto 11 (1-31) (32-62)
Canto 12 (1-39) (40-79)

Note ai canti 1-3
Note ai canti 4-6
Note ai canti 7-9
Note ai canti 10-12

 
 
 

La Secchia Rapita

Post n°1248 pubblicato il 22 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

La Secchia Rapita
Alessandro Tassoni
A. F. Formiggini editore in Roma, agosto 1924

A CHI LEGGE

La Secchia Rapita, poema di nuova spezie inventata dal Tassone, contiene una impresa mezza eroica e mezza civile, fondata su l'istoria della guerra, che passò tra i Bolognesi e i Modanesi al tempo dell'imperador Federico Secondo, nella quale Enzio re di Sardigna, figliuolo del medesimo Federico, combattendo in aiuto de' Modanesi, restò prigione e prima d'esser liberato morí in Bologna, come oggidi ancora può vedersi dall'epitafio della sua sepoltura nella chiesa di S. Domenico.
La secchia di legno, per cagion della quale è fama che nascesse tal guerra, si conserva tuttavia nell' archivio della Catedrale di Modana, appesa alla volta della stanza, con una catena di ferro, quale dicone che servisse a chiudere la porta di Bologna, per onde entrarono i Modanesi quando rapiron la Secchia.
Di tal guerra ne trattano il Sigonio e 'l Campanaccio istorici, e alcune Croniche in penna della città di Modana, d'onde si può vedere che 'l Poema della Secchia Rapita ha per tutto ricognizione d'istoria e di verità.
L'impresa è una e perfetta, cioè con principio, mezzo e fine; e se non è una d'un solo, Aristotile non prescrisse mai ai compositori cosi fatte strettezze. E oggidí è chiaro che le azioni di molti dilettano piú che quelle d'un solo, e che è piú curiosa da vedere una battaglia campale di qual si voglia duello. Perciò che il diletto della poesia epica non nasce dal vedere operare un uomo solo, ma dal sentir rappresentare verisimilmente azioni maravigliose; le quali quanto sono piú, tanto piú dilettano. Ma facendosi operare un sol uomo, non si può rappresentare in una impresa sola gran numero d'azioni; adunque sarà sempre piú sicuro l'introdurre piú d'uno. E per questo veggiamo che l'Ariosto, tutto che non abbia unità di favola e introduca gran moltiplicità di persone, diletta molto piú dell'Odissea d'Omero per la quantità e varietà delle azioni maravigliose ben collegate insieme.
Ma comunque si sia, quando l'autore compose questo Poema (che fu una state nella sua gioventú) non fu per acquistar fama in poesia, ma per passatempo e per curiosità di vedere come riuscivano questi due stili mischiati insieme, grave e burlesco; imaginando che se ambidue di lettavano separati avrebbono eziandio dilettato congiunti e misti, se la mistura fosse stata temperata con artificio tale che dalla loro scambievole varietà tanto i dotti quanto gli idioti avessero potuto cavarne gusto. Perciò che i dotti leggono ordinariamente le poesie per ricreazione e si dilettano piú delle baie, quando sono ben dette, che delle cose serie; e gl'idioti, oltre a gusto che cavano dalle cose burlesche, sono eziandio rapiti dalla maraviglia, che le azioni eroiche sogliono partorire.
Or questa nuova strada, come si vede, è piaciuta comunemente. All'autore basta averla inventata e messa in prova con questo saggio. Intanto, com'è facile aggiugnere alle cose trovate, potrà forse qualch'altro avanzarsi meglio per essa.
Egli nel rappresentare le persone passate s'è servito di molte presenti, come i pittori che cavano dai naturali moderni le faccie antiche; perciò che è verisimile che quello che a' dí nostri veggiamo, altre volte sia stato. Però dove egli ha toccato alcun vizio, è da considerare che non sono vizi particolari, ma comuni del secolo. E che per esempio il Conte di Culagna e Titta non sono persone determinate, ma le idee d'un codardo vanaglorioso e d'un zerbin romanesco. E tanto basti etc.

[dall'edizione del 1624 a firma Il Bisquadro, di A. Tassoni]

PAULINO CASTELVECCHIO
Al LETTORI.

Questo poema della Secchia rapita non ha bisogno d'esser lodato per accreditarsi, perciò che quale egli sia il giudicio commune il dimostra; benché non vi sieno mancati de' cervelli stravolti, che l'hanno giudicato col giudicio dell'asino il quale sentenziò che cantava meglio il cucco del rusignolo. Ma non è maraviglia, poiché anche alla nostra età abbiamo veduti ingegni che hanno anteposto il Morgante del Pulci alla Gierusalemme del Tasso; e l'antica vide l'imperatore Adriano che anteponeva Ennio a Virgilio e Celio a Salustio; ma bench'egli fosse imperatore, il suo giudicio depravato il fe' riputare un maligno. Io non so se i morti godano dell'applauso, che danno i vivi all'opere loro; ma stimo ben gran ventura che i vivi veggano date all'opere loro quelle lodi che cosi di rado e con tanta difficultà a quelle de' morti vengono concedute. L'invidia e la malignità sono due vizii immascherati, che senza esser conosciuti danno ferite mortali, benché non sempre i colpi loro abbiano effetto, perciò che trovano anch'essi dell'armature incantate.
Ma passiamo alle dichiarazioni del Salviani. Gli argomenti de' Canti sono del signore Abbate Albertino Barisoni, come si può veder dalle prime copie stampate in Parigi.

[dall'edizione del 1630 di A. Tassoni]

 
 
 

Rime del Berni 51

Post n°1247 pubblicato il 22 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

51

CAPITOLO DEL PRETE DA POVIGLIANO

Udite, Fracastoro, un caso strano,
degno di riso e di compassione,
che l'altr'ier m'intravenne a Povigliano.
Monsignor vostro amico e mio padrone
era ito quivi acompagnar un frate
con un branco di bestie e di persone.
Fu a' sedici d'agosto, id est di state,
e non bastavan tutte a tanta gente,
se ben tutte le stanze erano agiate.
Il prete della villa, un ser saccente,
venne a far riverenza a monsignore,
dentro non so, ma fuor tutto ridente.
Poi, vòlto a me, per farmi un gran favore,
disse: "Sta sera ne verrete meco,
che sarete alloggiato da signore:
io ho un vin che fa vergogna al greco;
con esso vi darò frutti e confetti,
da far veder un morto, andar un cieco;
fra tre persone arete quattro letti,
grandi, ben fatti, spiumacciati, e voglio
che mi diciate poi se saran netti".
Io che gioir di tal bestie non soglio,
lo licenziai, temendo di non dare,
come diedi, in mal'ora, in uno scoglio.
"In fe' d'Iddio", diss'egli, "io vo' menare
alla mia stanza almanco duo di voi;
non mi vogliate questo torto fare".
"Be'", rispos'io, "messer, parlarem poi;
non fate qui per or questo fracasso;
forse d'accordo restarem fra noi".
La sera doppo cena andammo a spasso,
parlando Adamo et io di varie cose;
costui faceva a tutti il contrabasso.
Tutto Vergilio et Omero ci espose,
disse di voi, parlò del Sannazaro,
nelle bilancie tutti dua vi pose.
"Non son", diceva, "di lettere ignaro;
son bene in arte metrica erudito".
Et io diceva: "Basta, l'ho ben caro".
Animal non vid'io mai tanto ardito:
non avrebbe a Macrobio et Aristarco,
né a Quintilian ceduto un dito.
Era ricciuto, questo prete, e l'arco
delle ciglia avea basso, grosso e spesso:
un ceffo accommodato a far san Marco.
Non ci si volse mai levar da presso,
fin che a Adamo e me diede di piglio
e bisognò per forza andar con esso.
Era discosto più d'un grosso miglio
l'abitazion di questo prete pazzo,
contra il qual non ci valse arte o consiglio.
Io credetti trovar qualche palazzo
murato di diamanti e di turchine,
avendo udito far tanto schiamazzo;
quando Dio volse, vi giungemmo al fine:
entrammo in una porta da soccorso,
sepolta nell'ortiche e nelle spine.
Convenne ivi lasciar l'usato corso
e salir su per una certa scala,
ove arìa rotto il collo ogni destr'orso.
Salita quella, ci trovammo in sala,
che non era, Dio grazia, amattonata,
ond'il fumo di sotto in essa essala.
Io stava come l'uom che pensa e guata
quel ch'egli ha fatto e quel che far conviene,
poi che gli è stata data una incanata.
"Noi non l'abbiam, Adamo, intesa bene:
questa è la casa", diceva io, "dell'Orco;
pazzi che noi siam stati da catene!".
Mentre io mi gratto il capo e mi scontorco,
mi vien veduto a traverso ad un desco
una carpita di lana di porco:
era dipinta ad olio e non a fresco;
voglion certi dottor dir ch'ella fusse
coperta già d'un qualche barbaresco;
poi fu mantello almanco di tre usse,
poi fu schiavina e forse anche spalliera,
fin che tappeto al fin pur si ridusse.
Sopra al desco una rosta impiccata era
da parar mosche a tavola e far vento,
di quelle da taverna unica e vera;
è mosso questo nobil instrumento
da una corda a guisa di campana
e dà nel naso altrui spesso e nel mento.
Or questa sì che mi parve marchiana,
fornimmi in tutto questa di chiarire
della sua cortesia sporca e villana.
"Dove abbiam noi, messer", dissi, "a dormire?".
"Venite meco la signoria vostra",
rispose il sere; "io vel farò sentire".
Io gli vo drieto e 'l buon prete mi mostra
la stanza ch'egli usava per granaio,
dove i topi facevano una giostra.
Vi sarebbe sudato un di gennaio:
quivi era la ricolta e la semenza
e 'l grano e l'orzo e la paglia e 'l pagliaio.
Eravi un destro, senza riverenza,
un camerotto da cesso ordinario,
dove il messer faceva la credenza;
la credenza facea nel necessario,
intendetemi bene, e le scodelle
teneva in ordinanza in su l'armario.
Stavano intorno pignatte e padelle,
correggiati, rastrelli e forche e pale,
tre mazzi di cipolle e una pelle.
Quivi ci volea por quel don cotale,
e disse: "In questo letto dormirete;
starete tutti duo da un capezzale".
Et io a lui: "Voi non mi ci còrrete",
risposi piano, "albanese messere;
datemi ber, ch'io mi moio di sete".
Ecco apparir di sùbito un bicchiere
che s'era cresimato allora allora,
sudava tutto e non potea sedere;
pareva il vino una minestra mora:
vo' morir, chi lo mette in una cesta,
s'in capo l'anno non vel trova ancora.
Non deste voi bevanda mai molesta
ad un che avesse il morbo o le petecchie
quanto quell'era ladra e disonesta.
In questo, adosso a due pancaccie vecchie
vidi posto un lettuccio, anzi un canile,
e dissi: "Quivi appoggerò l'orecchie".
Il prete grazioso, almo e gentile
le lenzuola fe' tòr dell'altro letto:
come fortuna va cangiando stile!
Era corto il canil, misero e stretto;
pure, a coprirlo, tutti duo i famigli
sudarno tre camiscie et un farsetto
e le zanne vi posero e gli artigli;
tanto tirar quei poveri lenzuoli
che pure a mezzo al fin fecion venigli.
Egli eran bianchi come duo paiuoli,
dipinti di marzocchi alla divisa:
parevan cotti in broda di fagiuoli;
la lor sottilità resta indicisa:
tra loro e la descritta già carpita
cosa nessuna non era divisa.
Qual è colui che a perder va la vita,
che s'intertiene e mette tempo in mezzo
e pensa e guarda pur s'altri l'aita,
tal io schifando quell'orrendo lezzo;
pur fu forza il gran calice inghiottirsi,
e così mi trovai nel letto al rezzo.
O Muse, o Febo, o Bacco, o Agatirsi
correte qua, ché cosa sì crudele
senza l'aiuto vostro non può dirsi;
narrate voi le dure mie querele,
raccontate l'abisso che s'aperse
poi che f-rno levate le candele.
Non menò tanta gente in Grecia Serse,
né tanto il popol fu de' Mirmidòni,
quanta sopra di me se ne scoperse:
una turba crudel di cimicioni,
dalla qual, poveretto, io mi schermia,
alternando a me stesso i mostaccioni.
Altra rissa, altra zuffa era la mia,
di quella tua che tu, Properzio, scrivi
in non so qual, del secondo, elegia.
Altro che la tua Cinzia aveva io quivi!
Er'io un torso di pera diventato
o un di questi bachi mezzi vivi
che di formiche adosso abbia un mercato,
tante bocche mi avevan, tanti denti
trafitto, punto, morso e scorticato.
Credo che v'era ancor dell'altre genti,
come dir pulci, piattole e pidocchi,
non men di lor animose e valenti.
Io non poteva schermirmi con gli occhi,
perch'era al buio, ma usava il naso
per conoscer le spade da li stocchi;
e come fece con le man Tomaso,
così con quello io mi certificai
che l'imaginazion non facea caso.
Dio vel dica per me s'io dormi' mai:
l'essercizio fec'io tutta la notte
che fan per riscaldarsi i marinai.
Non così spesso, quando l'anche ha rotte,
dà le volte Tifeo, l'audace et empio,
scotendo a Arìme le valli e le grotte.
Notate qui ch'io pongo questo essempio
levato dall'Eneida di peso;
e non vorrei però parer un scempio,
perché m'han detto che Vergilio ha preso
un granciporro nel verso d'Omero,
il qual non ha, con riverenza, inteso;
e certo è strana cosa, s'egli è vero,
che di due dizzioni una facesse.
Ma lasciam ire e torniam dov'io ero.
Eran nel palco certe assaccie fesse
sopra la testa mia fra trave e trave,
onde calcina parea che cadesse:
areste detto che le fosser fave,
che rovinando in sul palco di sotto
facevano una musica soave;
qual era d'asse anch'egli e tutto rotto,
onde il fumo che quindi si stillava
passando a gli occhi miei faceva motto.
Un bambino era in cuna che gridava
et una donna vecchia che tossiva
e talor per dolcezza bestemmiava.
Se a corteggiarmi un pipistrel veniva
o a far la mattinata una civetta,
la festa mia del tutto si forniva.
Della quale io non credo avervi detta
la millesima parte; e poi c'è quella
del mio compagno, ch'ebbe anco la stretta.
Faretevela dir, poi che la è bella:
m'è stato detto ch'ei ve ne ha già scritto
o vuol scrivervi in greco una novella.
Un poco più che durava il conflitto
io diventavo il venerabil Beda,
se l'epitafio suo l'ha ben descritto.
Mi levai che parevo una lampreda,
un'elitropia fina, una murena,
e chi non mel vol creder non mel creda:
di buchi avevo la persona piena,
ero io di macchie rosse tutto tinto,
parevo io proprio una notte serena.
Se avete visto un san Giulian dipinto
uscir d'un pozzo fuor fin al bellico,
d'aspidi sordi e d'altre serpi cinto,
o un san Giobbe in qualche muro antico,
e se non basta antico anco moderno,
o sant'Anton battuto dal nemico,
tal avevan di me fatto governo
con morsi, graffi, stoccate e ferite
quei veramente diavoli d'inferno.
Io vi scongiuro che se mai venite
chiamato a medicar quest'oste nostro,
dategli ber a pasto acqua di vite,
fategli fare un servizial d'inchiostro.

 
 
 

Il Meo Patacca 05-2

Post n°1246 pubblicato il 22 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Così fa un debbitor, che va fuggenno
Da i perfidi bireni, scivolanno,
L'incontro di costoro assai temenno,
Si va di tanto in tanto rivoltanno.
El grugno inzino al naso va cropenno,
D'esse fermato sempre sospettanno,
E se chalchun sente discurre a sorte,
Gli par, che dica a lui: "Ferma, la Corte! "

Marco Pepe a 'sto modo, insospettito
Scarpina, e fa' vorria con MEO la pace;
Stima d'ogn'altro poi miglior partito,
Perzona havè, che sia mezzo efficace.
Sa, che tra i dieci sgherri el favorito
Di quello è Cencio, giovane vivace,
D'uno spirito granne, et assai pronto,
E che MEO gli vuò bene, e ne fa' conto.

Lo cerca, lo ricerca, alfin lo trova.
Perchè amico è d'un pezzo, gli confida
El travaglio fierissimo, che prova
Pe' causa sol della passata sfida.
Però lo prega, ch'a pietà se mova
Del su' spavento, e che non se ne rida,
Che se lui non l'aiuta, MEO PATACCA
Gli rapre il petto, o 'l cocuzzòl gli spacca.

Gli fa sapè gli fa, che fu un pretesto
Lo sfidà MEO per esser commannante,
Che pretennuto non havria mai questo,
Sapenno le su' prove e tali e tante.
Gli fece, il fine ch'hebbe, manifesto,
Che sol fu di servine a Nuccia amante,
Che d'un sbeffo, che MEO fatto gli haveva,
Voleva vendicassene voleva.

Ancor gli disse poi, che sospettava
De Calfurnia, che s'era intramettata
Per fagli fa' 'sta rissa, e dubitava,
Che colei te l'havesse impasticciata,
Perchè spacciò, che MEO dicenno annava,
Nuccia esser brutta, e nell'età avanzata.
Poi, per un certo affronto gli confessa,
Che la vendetta fa' volze lei stessa.

Conchiude alfin, ch'a MEO far voglia intennere.
Ch'è pronto a domannagli perdonanza
Dell'ardir, ch'hebbe in tel volè pretennere
D'havè commanno in guerra e patronanza.
Che la saracca poi gli voglia rennere,
Che non havrà mai più tant'arroganza
Di farci con suisci el bell'umore,
Ma sempre gli sarà bon servitore.

Cencio, perch'è cortese, e quanto affabile,
Quanto garbato sia non è credibbile,
Gli dice: "Il caso è a fè' considerabbile,
Ma per voi voglio fa' tutto el possibbile:
Io so, che MEO PATACCA è assai trattabile,
Però spero el negozio riuscibbile.
Benchè sia, come noi, di schiatta ignobbile,
Pure ha un cor generoso e un genio nobbile".

Marco Pepe in sentillo si rincora,
E gl'incominza a ritornà la cera
Già perza in tel duello, e da quell'hora
Il suo solito brio più in lui non era.
Animo gli fa Cencio, e questo allora
Tanto più si consola, e molto spera;
Hor dunque a trovà MEO vanno costoro,
E fa' castelli in aria ogn'un di loro.

Stava PATACCA in casa imbarazzato
Pe' negozio, ch'a lui molto premeva,
Perchè s'era già 'l tempo avvicinato,
Nel quale in Campo a comparì s'haveva.
Un vestito che fusse assai sforgiato
A nolo pe' quel dì piglià voleva:
Diverzi un cert'ebreo glie ne mostrava,
Lui fra tutti el meglior capanno stava.

Hor questi hor quello si metteva in prova,
Spogliato d'un, dell'altro si vestiva;
Al fine uno a proposito ne trova
Stretto alla vita, quanto ci capiva:
"Ingàinate ch'è de robba nova",
L'ebreo diceva. "Giusto giusto arriva,
Par fatto addosso a voi, ve parlo schietto,
Più belli robbi a' fè non ha lo Ghetto.

Havete gran fortuna, uno Signore
Non po' meglio porta. Guardàti poi
Li trini d'oro, i mostri, il bel colore,
Se de più se po' fa, ditelo voi.
È proprio de monà 'sto giustacore,
Un'altro non ce n'è tra tutti i goi".
Così gli dà pastocchie, e tavarimme,
Per esse dritto assai lo Jaccodimme.

In questo mentre su Cencio salisce",
Ma non già Marco Pepe, c'ha paura,
E s'a fa' pace MEO non s'ammollisce,
D'annaglie in faccia lui non s'assicura.
Cencio quanto più pò lo compatisce,
Va da PATACCA, e con disinvoltura
Dando in prima un'occhiata a quell'ebbreo,
Dice: "La riverisco signor MEO".

"Oh! Ben venuto Cencio! Ho propio gusto"
Disse Patacca, "di quì havervi adesso:
Allampate un po' in grazia, se va giusto
Quest'abbito, che in prova me so' messo?
Che, se co' 'sto bacurre il prezzo aggiusto,
Che de famme piacere m'ha impromesso,
A nolo me lo piglio pe' dimane,
Che la comparza in Campo s'ha da fane".

Squatra Cencio la giubba, e attorno gira
Coll'occhiate, facennone rivista,
E quanto più l'osserva, e più la mira,
S'accorge tanto più, che fa gran vista.
Perchè l'ebreo non tenga alta la mira,
La sprezza, e dice: "È un'abbito d'artista,
È assai zacchenne, e c'è più d'un difetto".
Ma però in tanto a MEO fece l'occhietto.

Finta fa questo allor che non gli piaccia,
Perchè di Cencio il gergo ben intenne;
Assai presto da dosso se lo caccia,
Quasi nol voglia, et al giudio lo renne.
Allor si costui fece agra la faccia,
Ma tanto disse: "Che volete spenne?
'Sto signori de grazia me perdoni,
Questi, per vita mia, so' robbi boni".

Hor doppo c'hanno taccolato un pezzo,
Pe' più non fa' de st'abbiti strapazzo,
Perchè in realtà PATACCA non c'è avvezzo
De fàne "in te lo spennere schiamazzo,
Si piglia, ma di tutto aggiusta il prezzo,
Un abbituccio ancor per un ragazzo,
Perchè in Campo Vaccino, e no in tel viaggio,
Di Mi' Signore vuò tirà col paggio.

Per sè pur Cencio allor se n'accaparra
Uno, che gli dia giusto in tell'umore,
Perchè ogni sempre tra la gente sbarra
Fu solito costui di farzi onore.
Pe' fa' compariscenza assai bizzarra,
S'è capato un vistoso giustacore;
In gala, solo a MEO ceder intenne,
Ma più d'ogn'altro sverzellà pretenne.

Hor dunque, dato termine al contratto,
Se ne tornò lo Jaccodimme al Ghetto;
Ogn'un delli due sgherri è sodisfatto,
Ch'a giusto prezzo fu 'l partito stretto.
Brillano pel negozio, che s'è fatto,
D'havè a fa' scialo in campo hanno diletto;
Benchè questo sarà nel giorno appresso,
Pur col penzier ci fanno vernia adesso.

Ma intanto Cencio fa' vorria el servizio
A Marco Pepe, che de fora aspetta,
E perchè cosa longa piglia vizio,
Lui cerca di spicciassene con fretta:
Pe' dà principio, e pe' passà l'offizio",
Gli par già tempo, che a parlà se metta.
Perchè in tel cocuzzolo ha gran ciervello,
Nel discorzo così rentra bel bello.

"Signor MEO! Mi rallegro tanto tanto,
Et un gusto grannissimo ne sento,
Che havesse poi con vostra grolia e vanto,
Quel gran duello, un così bon evento.
E poi me ne congratulo altrettanto,
Che senza sangue fu 'l combattimento;
Basta il roscior, ch'hebbe fuggenno el vinto,
Nè importa, se non è di sangue tinto.

E poi, pe' dire il vero, è compatibbile
Marco Pepe il meschino, et è scusabbile;
Seppe che voi con tutto l'irascibbile
Faceste a Nuccia ingiuria assai notabbile.
In quanto a me, ciò non mi par credibbile,
Perchè so, ch'in amor voi sete stabbile,
E sareste, sprezzannola, volubbile,
Con trattarla da vecchia in età nubbile.

Stimò d'esse obrigato alla vendetta,
Perchè amante la spera, e pe' 'sta cosa
Venne a fa' quella sfida maledetta,
Che gli riuscitte poi si' vergognosa.
Cercanno hora il perdon, la dice schietta,
Nè vuò, che sia la verità nascosta:
Chiese in guerra el comanno, ma fu questo,
Pe' venire alle brutte un sol pretesto.

Ha però in capo lui chalche suspetto,
Che questa di Calfurnia opera sia.
Che voi Nuccia ingiuriassivo, l'ha detto
A lui stesso, et è certo una buscìa.
Ch'abbia voluto far a voi dispetto,
Io chalche cosa ci scommetterìa,
Perchè 'sta grima, non ci mette gnente
Co' i su' riggiri a inzampognà la gente".

Stava PATACCA col penzier sospeso,
Tenenno in Cencio le lanterne fisse;
E come, che di quanto haveva inteso
Facesse un caso granne, così disse:
"Da Marco Pepe assai me ciamo offeso,
Che a squarcionà con me costui venisse;
Dirò, che non fu solo balordaggine,
Ma ancora un'insolente sfacciataggine.

Parlo pe' verità, non già da scherzo,
Un gran gastigo merita el su' sfarzo;
È ver, che in campo lui l'onor ha perzo,
Benchè con sverniarìa ce sia comparzo;
Pur doveria sonagliela pel verzo,
Et affogallo in tel su' sangue sparzo,
Ma sol per amor vostro oggi mi sforzo,
D'intrattener alla mi' rabbia el corzo.

Chalche dubbio ho però, mò che ci penzo,
Che l'habbia quella griscia ingarbugliata,
Perchè una certa spinta, a lei gran senzo
Glie fece, che da me quì gli fu data;
E quanto più a 'sta cosa ci ripenzo,
Più me cresce el suspetto, ma salata
Gli ha da costà, giuro a Baccone giuro,
Se di chalche su' imbroglio io m'assicuro".

"Da Marco Pepe, - disse Cencio, - il vero
Sapè potrete, ch'è rimasto in strada,
Se voi vi contentate, come spero
E ve ne prego, ch'a chiamarlo io vada.
In qua con me è venuto con penziero
De chiedeve il perdono, e la su' spada.
Si confida in nostrodine, e si crede
Ch'io 'sta grazia da voi pozza intercede".

Rispose Meo: "Di già m'ero ammannito
Di dagli presto più solenne un pisto;
Che s'una volta è lui da me fuggito,
Se l'altra gli riusciva haveria visto.
Dissi, ch'el ferro mai ristituito.
Non gli saria, se non ne fa l'acquisto,
Ma bigna, ch'io me plachi a i vostri preghi:
A chi merita assai, gnente si neghi".

"Già che mi date, signor MEO, speranza
Di perdonagli la su' impertinenza, -
Disse Cencio, - per atto di creanza
Vorria venisse a favve riverenza.
Potrebbe mò salire in questa stanza,
Quanno vi piaccia dargliene licenza".
"Venga pur", - MEO risponne, e lui veloce,
Va a mezze scale, e te gli dà una voce.

Allora Marco Pepe, che lo sente,
Non s'intrattiè, ma subbito ubbidisce;
Coll'occi bassi, e 'l viso macilente,
Dinanzi a MEO PATACCA comparisce.
Mentre inchina el cotogno riverente,
A poco a poco più s'impallidisce,
Sta con le mani giunte, e su ci tiene
El fongo, e 'na gran paccheta gli viene.

Vorria parlà vorria, ma già confuso
Nel volè cominzà costui si trova.
MEO PATACCA con gruma gli fa el muso,
E intonato gli dice: "Embè? Che nova?
Sei più di quell'umore? Hai più per uso
Lo sbravazzà? Forzi chalch'altra prova
Te va pel cirignolo? Se vuoi farla,
Dì puro el fatto tuo, libero parla".

"Vossignoria mi burla, et ha ragione",
Rispose lui con voce tremolante,
"Di me si piglia gusto, et è patrone,
Ch'io so' stato un bel pezzo di forfante.
Volzi sfacciatamente far custione,
Con chi poteva ben darmene tante,
Se presto non battevo la calcosa,
Che non si fusse mai vista tal cosa.

Sopra tutto, in penzar io mi mortifico,
Ch'in guerra commannà", pazzo cercai,
Ma come annò la cosa, io vi notifico,
Che trappolà da gonzo mi lassai;
La pura verità mo' vi chiarifico,
E del cattivo termine, ch'usai,
Perdon vi chiedo, e d'ogni mi' parola
Mi disdico, e me pento pe' la gola.

 
 
 

Il Galateo (25-27)

Post n°1245 pubblicato il 22 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

25.
Secondo che racconta una molto antica cronica, egli fu già nelle parti della Morea un buono uomo scultore, il quale per la sua chiara fama, sì come io credo, fu chiamato per sopranome «maestro Chiarissimo»; costui, essendo già di anni pieno, distese certo suo trattato et in quello raccolse tutti gli ammaestramenti dell'arte sua, sì come colui che ottimamente gli sapea, dimostrando come misurar si dovessero le membra umane, sì ciascuno da sé, sì l'uno per rispetto all'altro, acciò che convenevolmente fossero infra sé rispondenti. Il qual suo volume egli chiamò Il Regolo, volendo significare che secondo quello si dovessero dirizzare e regolare le statue che per lo innanzi si farebbono per gli altri maestri, come le travi e le pietre e le mura si misurano con esso il regolo. Ma, con ciò sia che il dire è molto più agevol cosa che il fare e l'operare; et, oltre a ciò, la maggior parte degli uomini (massimamente di noi laici et idioti) abbia sempre i sentimenti più presti che lo 'ntelletto, e conseguentemente meglio apprendiamo le cose singolari e gli essempi che le generali et i sillogismi (la qual parola dèe voler dire in più aperto vogare «le ragioni»), perciò, avendo il sopra detto valent'uomo risguardo alla natura degli artefici, male atta agli ammaestramenti generali, e per mostrare anco più chiaramente la sua eccellenza, provedutosi di un fine marmo, con lunga fatica ne formò una statua così regolata in ogni suo membro et in ciascuna sua parte come gli ammaestramenti del suo trattato divisavano: e, come il libro avea nominato, così nominò la statua, pur «Regolo» chiamandola. Ora fosse piacer di Dio che a me venisse fatto almeno in parte l'una sola delle due cose che il sopra detto nobile scultore e maestro seppe fare perfettamente, cioè di raccozzare in questo volume quasi le debite misure dell'arte della quale io tratto! Perciò che l'altra di fare il secondo Regolo, cioè di tenere et osservare ne' miei costumi le sopra dette misure, componendone quasi visibile essempio e materiale statua, non posso io guari oggimai fare, con ciò sia che nelle cose appartenenti alle maniere e costumi degli uomini non basti aver la scientia e la regola, ma convenga oltre a ciò, per metterle ad effetto, aver etiandio l'uso, il quale non si può acquistare in un momento né in brieve spatio di tempo, ma conviensi fare in molti e molti anni: et a me ne avanzano, come tu vedi, oggimai pochi. Ma non per tanto non dèi tu prestare meno di fede a questi ammaestramenti, ché bene può l'uomo insegnare ad altri quella via per la quale caminando egli stesso errò, anzi, per aventura, coloro che si smarrirono hanno meglio ritenuto nella memoria i fallaci sentieri e dubbiosi che chi si tenne pure per la diritta. E se nella mia fanciullezza, quando gli animi sono teneri et arrendevoli, coloro a' quali caleva di me avessero saputo piegare i miei costumi, forse alquanto naturalmente duri e rozzi, et ammollirgli e polirgli, io sarei per aventura tale divenuto quale io ora procuro di render te, il quale mi dèi essere non meno che figliuol caro. Ché, quantunque le forze della natura siano grandi, non di meno ella pure è assai spesso vinta e corretta dall'usanza, ma vuolsi tosto incominciare a farsele incontro et a rintuzzarla prima che ella prenda soverchio potere e baldanza; ma le più persone nol fanno, anzi, drieto all'appetito sviate e sanza contrasto seguendolo dovunque esso le torca, credono di ubidire alla natura, quasi la ragione non sia negli uomini natural cosa, anzi ha ella, sì come donna e maestra, potere di mutar le corrotte usanze e di sovenire e di sollevare la natura, ove che ella inchini o caggia alcuna volta. Ma noi non la ascoltiamo per lo più, e così per lo più siamo simili a coloro a chi Dio non la diede, cioè alle bestie, nelle quali, non di meno, adopera pure alcuna cosa non la loro ragione (ché niuna ne hanno per sé medesime), ma la nostra; come tu puoi vedere che i cavalli fanno, che molte volte - anzi sempre - sarebbon per natura salvatichi, et il loro maestro gli rende mansueti et oltre a ciò quasi dotti e costumati, perciò che molti ne andrebbono con duro trotto, et egli insegna loro di andare con soave passo, e di stare e di correre e di girare e di saltare insegna egli similmente a molti, et essi lo apprendono, come tu sai che e' fanno. Ora, se il cavallo, il cane, gli uccelli e molti altri animali ancora più fieri di questi si sottomettono alla altrui ragione et ubidisconla et imparano quello che la loro natura non sapea, anzi ripugnava, e divengono quasi virtuosi e prudenti quanto la loro conditione sostiene, non per natura, ma per costume, quanto si dèe credere che noi diverremmo migliori per gli ammaestramenti della nostra ragione medesima, se noi le dessimo orecchie? Ma i sensi amano et appetiscono il diletto presente, quale egli si sia, e la noia hanno in odio et indugianla, e perciò schifano anco la ragione e par loro amara, con ciò sia che ella apparecchi loro innanzi non il piacere, molte volte nocivo, ma il bene, sempre faticoso e di amaro sapore al gusto ancora corrotto; perciò che mentre noi viviamo secondo il senso, sì siamo noi simili al poverello infermo, cui ogni cibo, quantunque dilicato e soave, pare agro o salso, e duolsi della servente o del cuoco che niuna colpa hanno di ciò, imperò che egli sente pure la sua propria amaritudine in che egli ha la lingua rinvolta, con la quale si gusta, e non quella del cibo: così la ragione, che per sé è dolce, pare amare a noi per lo nostro sapore, e non per quello di lei. E perciò, sì come teneri e vezzosi, rifiutiamo di assaggiarla e ricopriamo la nostra viltà col dire che la natura non ha sprone o freno che la possa né spingere né ritenere: e certo, se i buoi o gli asini o forse i porci favellassero, io credo che non potrebbon proferire gran fatto più sconcia, né più sconvenevole sentenza di questa. Noi ci saremmo pur fanciulli e negli anni maturi e nella ultima vecchiezza, e così vaneggeremmo canuti come noi facciamo bambini, se non fosse la ragione, che insieme con l'età cresce in noi, e, cresciuta, ne rende quasi di bestie uomini, sì che ella ha pure sopra i sensi e sopra l'appetito forza e potere, et è nostra cattività e non suo difetto, se noi trasandiamo nella vita e ne' costumi. Non è adunque vero che incontro alla natura non abbia freno né maestro: anzi ve ne ha due, ché l'uno è il costume e l'altro è la ragione, ma, come io ti ho detto poco di sopra, ella non può di scostumato far costumato sanza l'usanza, la quale è quasi parto e portato del tempo. Per la qual cosa si vuole tosto incominciare ad ascoltarla, non solamente perché così ha l'uomo più lungo spatio di avezzarsi ad essere quale ella insegna, et a divenire suo domestico et ad esser de' suoi, ma ancora però che la tenera età, sì come pura, più agevolmente si tigne d'ogni colore, et anco perché quelle cose alle quali altri si avezza prima sogliono sempre piacer più. E per questa cagione si dice che Diodato, sommo maestro di proferir le comedie, volle essere tuttavia il primo a proferire egli la sua, come che degli altri che dovessero dire innanzi a lui non fosse da far molta stima; ma non volea che la voce sua trovasse le orecchie altrui avezze ad altro suono, quantunque verso di sé peggior del suo. Poiché io non posso accordare l'opera con le parole, per quelle cagioni che io ti ho dette, come il maestro Chiarissimo fece, il quale seppe così fare come insegnare, assai mi fia l'aver detto in qualche parte quello che si dèe fare, poiché in nessuna parte non vaglio a farlo io; ma, perciò che in vedendo il buio si conosce quale è la luce et in udendo il silentio sì si impara che sia il suono, sì potrai tu, mirando le mie poco aggradevoli e quasi oscure maniere, scorgere quale sia la luce de' piacevoli e laudevoli costumi. Al trattamento de' quali, che tosto oggimai arà suo fine, ritornando, diciamo che i modi piacevoli sono quelli che porgon diletto, o almeno non recano noia ad alcuno de' sentimenti, né all'appetito, né alla imagination di coloro co' quali noi usiamo: e di questi abbiamo noi favellato fino ad ora.

26.
Ma tu dèi oltre a ciò sapere che gli uomini sono molto vaghi della bellezza e della misura e della convenevolezza, e, per lo contrario, delle sozze cose e contrafatte e difformi sono schifi: e questo è spetial nostro privilegio, ché gli altri animali non sanno conoscere che sia né bellezza né misura alcuna; e perciò, come cose non comuni con le bestie, ma proprie nostre, debbiam noi apprezzarle per sé medesime et averle care assai, e coloro viepiù che maggior sentimento hanno d'uomo, sì come quelli che più acconci sono a conoscerle. E come che malagevolmente isprimere appunto si possa che cosa bellezza sia, non di meno, acciò che tu pure abbi qualche contrasegno dell'esser di lei, voglio che sappi che, dove ha convenevole misura fra le parti verso di sé e fra le parti e 'l tutto, quivi è la bellezza: e quella cosa veramente «bella» si può chiamare, in cui la detta misura si truova. E per quello che io altre volte ne intesi da un dotto e scientiato uomo, vuole essere la bellezza uno quanto si può il più e la bruttezza per lo contrario è molti, sì come tu vedi che sono i visi delle belle e delle leggiadre giovani, perciò che le fattezze di ciascuna di loro paion create pure per uno stesso viso; il che nelle brutte non adiviene, perciò che, avendo elle gli occhi per aventura molto grossi e rilevati, e 'l naso picciolo e le guance paffute, e la bocca piatta e 'l mento in fuori, e la pelle bruna, pare che quel viso non sia di una sola donna, ma sia composto d'i visi di molte e fatto di pezzi. E trovasene di quelle, i membri delle quali sono bellissimi a riguardare ciascuno per sé, ma tutti insieme sono spiacevoli e sozzi, non per altro, se non che sono fattezze di più belle donne e non di questa una, sì che pare che ella le abbia prese in prestanza da questa e da quell'altra: e per aventura che quel dipintore che ebbe ignude dinanzi a sé le fanciulle calabresi, niuna altra cosa fece che riconoscere in molte i membri che elle aveano quasi accattato chi uno e chi un altro da una sola; alla quale fatto restituire da ciascuna il suo, lei si pose a ritrarre, imaginando che tale e così unita dovesse essere la bellezza di Venere. Né voglio io che tu ti pensi che ciò avenga de' visi e delle membra o de' corpi solamente, anzi interviene e nel favellare e nell'operare né più né meno, ché, se tu vedessi una nobile donna et ornata posta a lavar suoi stovigli nel rigagnolo della via publica, come che per altro non ti calesse di lei, sì ti dispiacerebbe ella in ciò, che ella non si mostrerebbe pure «una», ma «più», perciò che lo esser suo sarebbe di monda e di nobile donna e l'operare sarebbe di vile e di lorda femina; né per ciò ti verrebbe di lei né odore né sapore aspero, né suono né colore alcuno spiacevole, né altramente farebbe noia al tuo appetito, ma dispiacerebbeti per sé quello sconcio e sconvenevol modo e diviso atto.

27.
Convienti adunque guardare etiandio da queste disordinate e sconvenevoli maniere con pari studio, anzi con maggiore che da quelle delle quali io t'ho fin qui detto, perciò che egli è più malagevole a conoscer quando altri erra in queste che quando si erra in quelle, con ciò sia che più agevole cosa si veggia essere il sentire che lo 'ntendere. Ma, non di meno, può bene spesso avenire che quello che spiace a' sensi spiaccia etiandio allo 'ntelletto, ma non per la medesima cagione, come io ti dissi di sopra, mostrandoti che l'uomo si dèe vestire all'usanza che si vestono gli altri, acciò che non mostri di riprendergli e di correggerli; la qual cosa è di noia allo appetito della più gente, che ama di esser lodata, ma ella dispiace etiandio al giudicio degli uomini intendenti, perciò che i panni che sono d'un altro millesimo non si accordano con la persona che è pur di questo; e similmente sono spiacevoli coloro che si vestono al rigattiere: ché mostra che il farsetto si voglia azzuffar co' calzari, sì male gli stanno i panni indosso. Sì che molte di quelle cose che si sono dette di sopra, o per aventura tutte, dirittamente si possono qui replicare, con ciò sia cosa che in quelle non si sia questa misura servata, della quale noi al presente favelliamo, né recato in uno et accordato insieme il tempo e 'l luogo e l'opera e la persona, come si convenia di fare, perciò che la mente degli uomini lo aggradisce e prendene piacere e diletto: ma holle volute più tosto accozzare e divisare sotto quella quasi insegna de' sensi e dello appetito che assegnarle allo 'ntelletto, acciò che ciascuno le possa riconoscere più agevolmente, con ciò sia che il sentire e l'appetire sia cosa agevole a fare a ciascuno, ma intendere non possa così generalmente ogniuno, e maggiormente questo che noi chiamiamo bellezza e leggiadria o avenentezza.

 
 
 

Rime del Berni 43-50

Post n°1244 pubblicato il 22 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

43

Descrizione del Giovio

Stava un certo maestro Feradotto
col re Gradasso, il quale era da Como.
Fu da' Venti, fanciullo, in là condotto,
poi ch'ebbon quel paese preso e domo;

non era in medicina troppo dotto,
ma piacevol nel resto e galantuomo;
tenea le genti in berta, festa e spasso
e l'istoria scriveva di Gradasso.

Stavali inanzi in pie' quando mangiava;
qualche buffoneria sempre diceva
e sempre qualche cosa ne cavava;
gli venìa voglia di ciò che vedeva,

laonde or questo or quell'altro affrontava;
d'esser bascià grand'appetito aveva;
avea la bocca larga e tondo il viso:
solo a vederlo ogniun moveva a riso.



44

AL VESCOVO SUO PADRONE

S'io v'usassi di dire il fatto mio,
come lo vo dicendo a questo e quello,
forse pietà m'avresti
o qualche benefizio mi daresti.
Ché, se 'l dicessi Dio,
pur fo, pur scrivo anch'io
e m'affatico assai e sudo e stento,
ancorch'io sappi ch'io non vi contento.
Voi mi straziate e mi volete morto;
et al corpo di Cristo avete 'l torto.



45

SI DUOLE DELLA SUGGEZIONE IN CHE STAVA IN VERONA

S'io posso un dì porti le mani addosso,
puttana libertà, s'io non ti lego
stretta con mille nodi e poi ti frego
così ritta ad un mur co i panni in dosso,
poss'io mal capitar, siccome io posso
rinegar Cristo, che ogni ora il riniego,
da poi che non mi val voto né priego
contra 'l giogo più volte indarno scosso.
A dire il vero, ell'è una gran cosa
ch'io m'abbi sempre a stillare il cervello
a scriver qualche lettera crestosa,
andar legato come un fegatello,
vivere ad uso di frate e di sposa
e morirsi di fame! Oh 'l gran bordello!



46

SONETTO A MESSER FRANCESCO SANSOVINO

Verona è una terra c'ha le mura
parte di pietre e parte di mattoni,
con merli e torre e fossi tanto buoni
che mona Lega si staria sicura;

dietro ha un monte, dinanzi una pianura,
per la qual corre un fiume senza sproni;
ha presso un lago che mena carpioni
e trote e granchi e sardelle e frittura;

drento ha spilonche, grotte e anticaglie,
dove il Danese, Ercole et Anteo
presono il re Bravier con le tanaglie,

due archi sorian, un culiseo,
nel qual son intagliate le battaglie
che fece il re di Cipri con Pompeo;

la ribeca ch'Orfeo
lasciò, ché n'aparisce un instrumento,
a Plinio et a Catullo in testamento.

Appresso ha anche drento,
come hanno l'altre terre, piazze e vie,
stalle, stufe, spedali et osterie,

fatte in geometrie
da fare ad Euclide et Archimede
passar gli architettori con un spiede.

E chi non me lo crede
e vol far prova della sua persona,
venga a sguazzar otto dì a Verona;

dove la fama suona
la piva e 'l corno, in accenti asinini,
degli spiriti isnelli e pellegrini,

che van su pei camini
e su pei tetti la notte in istriazzo,
passando in giù e 'n su l'Adice a guazzo;

e dietro han un codazzo
di marchesi, di conti e di speziali,
che portan tutto l'anno gli stivali,

perché i fanghi immortali,
ch'adornan le lor strade graziose,
producon queste et altre belle cose;

ma quattro più famose,
da sotterrarvi un dentro insino a gli occhi,
fagioli e porci e poeti e pidocchi.



47

RICANTAZIONE DI VERONA

S'io dissi mai mal nessun di Verona,
dico ch'io feci male e tristamente;
e ne son tristo, pentito e dolente,
come al mondo ne fusse mai persona.

Verona è una terra bella e buona,
e cieco e sordo è chi no 'l vede o sente.
Tu, se or si perdona a chi si pente,
alma città, ti prego, or mi perdona,

ché 'l martello ch'io ho del mio padrone,
qual tu mi tieni a pascere il tuo gregge,
di quel sonetto è stata la cagione.

Ma se con questo l'altro si corregge,
perdonatemi ogniun c'ha discrezione:
chi pon freno a' cervelli o dà lor legge?



48

CAPITOLO ALLI SIGNORI ABBATI

Signori abbati miei, se si può dire,
ditemi quel che voi m'avete fatto,
ché gran piacer l'arei certo d'udire.
Sappeva ben ch'io era prima matto,
matto, cioè, che volentieri amavo,
ma or mi par aver girato affatto.
Le virtù vostre me v'han fatto schiavo
e m'han legato con tanti legami,
ch'i' non so quando i pie' mai me ne cavo.
E` forza ch'io v'adori, non che v'ami;
d'amor però di quel savio d'Atene,
non di questi amorazzi sporchi e infami.
Voi sète sì cortesi e sì da bene
che, non pur da me sol, ma ancor da tutti,
amore, onor, rispetto vi si viene.
Ben sapete che l'esser anco putti
non so che più vi conciglia e v'acquista,
massimamente che non sète brutti;
ma, per Dio, siavi tolta dalla vista,
né dalla vista sol, ma dal pensiero,
una fantasiaccia così trista;
ch'i' v'amo e vi vo' ben, a dir el vero,
non tanto perché siate bei, ma buoni.
E potta, ch'io non dico, di san Piero,
chi è colui che di voi non ragioni?
Che la virtù delle vostre maniere,
per dirlo in lingua furba, non canzoni?
Ché non è oggi facile a vedere
giovane, nobil, bella e vaga gente
ch'abbia anche insieme voglia di sapere,
che adorni il corpo ad un tratto e la mente,
anzi che a questa più che a quello attenda,
come voi fate tutti veramente.
Però non vo' che sia chi mi riprenda,
s'io dico che con voi sempre starei
a dormir et a fare ogni facenda.
E se i fati o le stelle o sian gli dei
volesser ch'io potessi far la vita
secondo gli auspici e' voti miei,
da poi che 'l genio vostro sì m'invita,
vorrei farla con voi; ma il bel saria
che, com'è dolce, fusse anco infinita.
O che grata, o che bella compagnia!
Bella ciò è per me; ma ben per voi
so io che bella non saria la mia.
Ma noi ci accorderemmo poi fra noi:
quando fussimo un pezzo insieme stati,
ogniuno andrebbe a fare i fatti suoi.
Fariamo spesso quel gioco de' frati,
che certo è bello e fatto con giudizio
in un convento ove sian tanti abbati:
diremmo ogni mattina il nostro uffizio;
voi cantaresti, io vel terrei secreto,
ché non son buono a sì fatto essercizio;
pur, per non stare inutilmente cheto,
vi farei quel servigio, se voleste,
che fa chi suona a gli organi di drieto.
Qual più solenni e qual più allegre feste,
qual più bel tempo e qual maggior bonaccia,
maggior consolazion sarien di queste?
A chi piace l'onor, la robba piaccia:
io tengo il sommo bene in questo mondo
lo stare in compagnia che sodisfaccia:
il verno al foco, in un bel cerchio tondo,
a dire ogniun la sua; la state al fresco:
questo piacer non ha né fin né fondo.
Et io di lui pensando sì m'adesco,
che credo di morir se mai v'arrivo:
or, parlandone indarno, a me rincresco.
Vi scrissi l'altro dì che m'espedivo
per venir via, ch'io moro di martello,
et ora un'altra volta ve lo scrivo.
Io ho lasciato in Padova il cervello:
voi avete il mio cor serrato e stretto
sotto la vostra chiave e 'l vostro anello.
Fatemi apparecchiare in tanto il letto,
quella sedia curule e due cuccini,
ch'io possa riposarmi a mio diletto;
e state sani, abbati miei divini.



49

VAGHEZZE DI MAESTRO GUAZZALLETTO MEDICO

O spirito bizzarro del Pistoia,
dove sei tu? Ché ti perdi un soggetto,
un'opra da compor, non che un sonetto,
più bella del Danese e dell'Ancroia.
Noi abbiam qui l'ambasciador del boia,
un medico, maestro Guazzalletto,
che, se m'ascolti infin ch'io abbia detto,
vo' che tu rida tanto che tu moia.
Egli ha una beretta, adoperata
più che non è lo breviar d'un prete
ch'abbia assai divozione e poca entrata;
sonvi ritratte su certe comete
con quel che si condisce l'insalata,
di varie sorti, come le monete.
Mi fa morir di sete,
di sudore, di spasimo e d'affanno
una sua vesta che fu già di panno,
c'ha forse ottant'un anno
e bonissima robba è nondimanco,
che non ha pelo e pende in color bianco.
Mi fanno venir manco
li castroni, ancor debiti al beccaio,
che porta il luglio in cambio del gennaio.
Quegli li scusan saio,
cappa, mantel, stivali e covertoio;
intorno al collo par che sia di coio.
Saria buon colatoio:
un che l'avesse a gli occhi vedria lume,
se non gli desse noia già l'untume;
di peluzzi e di piume
piena è tutta e di sprazzi di ricotte,
come le berettaccie della notte.
Son forte vaghe e ghiotte
le maniche in un certo modo fesse:
volsero esser dogal e f-r brachesse.
Piangeria chi vedesse
un povero giubbon ch'ei porta indosso,
che 'l sudor fatto ha bigio, giallo e rosso;
ché mai non se l'ha mosso
da sedici anni in qua che se lo fece
e par che sia attaccato con la pece.
Chi lo vede e non rece,
lo stomaco ha di porco o di gallina,
che mangion gli scorpion per medicina.
La mula è poi divina:
aiutatemi, Muse, a dir ben d'essa.
Una barcaccia par vecchia dismessa,
scassinata e scommessa:
se le contan le coste ad una ad una,
pàssala il sole, le stelle e la luna;
e vigilie digiuna,
che 'l calendario memoria non fanne;
come un cinghial di bocca ha fuor le sanne.
Chi la vendesse a canne,
et a libre, anzi a ceste, la sua lana,
si faria ricco in una settimana.
Per parer cortigiana,
in cambio di basciar la gente, morde
e dà co' pie' certe zampate sorde.
Ha più stringhe e più corde,
intorno a' fornimenti sgangherati,
che non han sei navilii ben armati.
Non la vorrieno i frati.
Quando salir le vuol sopra il padrone,
geme che par d'una piva il bordone.
Allor, chi mente pone,
vede le calze sfondate al maestro
e la camiscia ch'esce del canestro
con la fede del destro;
scorge, chi ha la vista più profonda,
il coliseo, l'aguglia e la ritonda.
Dà una volta tonda
la mula e va zoppicando e traendo;
dice il maestro: "Vobis me commendo".
Non so s'io me n'intendo,
ma certo a me ne par che costui sia
colui che va bandendo la moria.



50

Sonetto alla mula

Dal più profondo e tenebroso centro,
dove Dante ha alloggiato i Bruti e i Cassii,
fa, Florimonte mio, nascere i sassi
la vostra mula per urtarvi dentro.

Deh, perch'a dir delle sue lode io entro,
che per dir poco è meglio io me la passi?
Ma bisogna pur dirne, s'io crepassi,
tanto il ben ch'io le voglio è ito adentro.

Come a chi rece, senza riverenza,
regger bisogna il capo con due mani,
così anche alla sua magnificenza.

Se, secondo gli autor, son dotti e sani
i capi grossi, questo ha più scienza
che non han sette milia Prisciani.

Non bastan cordovani
per le redene sue, né vacche o buoi,
né bufoli né cervi o altri cuoi:

a sostenere i suoi
scavezzacolli dinanzi e di drieto,
bisogna acciaio temperato in aceto.

Di qui nasce un secreto,
che, se per sorte il podestà il sapesse,
non è di lei denar che non vi desse:

perché, quando ei volesse
far un de' suoi peccati confessare,
basteria darli questa a cavalcare,

che per isgangherare
dalle radici le braccia e le spalle,
corda non è che si possa agguaglialle.

Non bisogna insegnalle
le virtù delle pietre e la miniera,
ché la è matricolata gioielliera;

e con una maniera
dolce benigna da farsele schiave,
se le lega ne' ferri e serra a chiave.

Come di grossa nave,
per lo scoglio schivar, torce il timone,
con tutto il corpo appoggiato, un padrone,

così quel gran teschione
piegar, tirar bisogna ad ogni sasso,
chi d'aver gambe e collo ha qualche spasso;

bisogna ad ogni passo
raccomandarsi a Dio, far testamento
e portar nelle bolgie il sacramento.

Se siete mal contento,
se avete alcuno a chi vogliate male,
dategli a cavalcar questo animale;

o con un cardinale
per paggio la ponete a far inchini,
che la li fa volgar, greci e latini.

 
 
 

Il Meo Patacca 05-1

Post n°1243 pubblicato il 22 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.


CANTO QUINTO

ARGOMENTO

Smania Calfurnia inquieta e tribbolata,
Perchè lo sgherro suo morto già crede.
Vivo lo trova, et è da lui sgridata,
E poi questo a PATACCA il perdon chiede.
S'incontra a vede MEO 'na bandierata
D'alfiero, e tamburrini si provede
Pel su squadrone; e Nuccia pe' 'na ciarla,
Che inventò quella ciospa, va a sgrugnarla.

Era di già Calfurnia scivolata
Della finestra in sopra al muricciolo,
E se ne stava in giù scapocollata,
Nè c'era altro con lei ch'il su' cagnolo.
Glie dava intorno più d'un'abbaiata,
E salticchiava come un crapiolo,
E tanto si rimuscina, e si stizza,
Che la ciospa lo sente, e alfin s'arrizza.

Prima sta un po' stordita, e poi bel bello
Ripiglia fiato, e va tornando a i senzi,
E non po' fa' di men ch'el su' ciarvello,
A quel che ha lei sentito non ripenzi.
Che già sbiascito sia lo squarcioncello
Di Marco Pepe, è ben raggion che penzi,
Perchè se MEO PATACCA ha trionfato,
Bigna che freddo lui ci sia restato.

E pur vorria ciarirsene vorria;
Rapre pian piano la finestra, e attenta
Osserva, se più in strada alcun ci sia,
Se più del caso chiacchiarà si senta.
Ch'ogni persona è scivolata via
S'accorge al fine, e questo la tormenta,
Che pe' sapè, se veri so i suspetti,
Inzino al novo dì bigna ch'aspetti.

Serra, torna a smanià, penza e ripenza,
Non si quieta, non cena, non riposa;
El tempo d'aspettà non ha pacienza
Per imformasse come annò la cosa.
Venutagli un tantin di sonnolenza,
Poggia al letto el cotogno, ma penzosa
Si risviglia ogni tanto, e in simil forma,
Si pò dir che dormicchi, e no che dorma.

Glie sta su l'occi appiccicato el sonno,
E pur glie viè e gli parte a un tempo stesso,
Che pace i su' pensieri havè non ponno,
Però dormenno si risveglia spesso.
I sogni ancora tormentà la vonno,
Mostrannoglie chalch'orrido successo
Di Marco Pepe, e lei come che tema,
Si sveglia all'improviso, e tutta trema.

Già incominza la Notte a sbigottirzi,
Perchè s'accorge, che glie va d'intorno,
E del posto di lei vuò impatronirzi
L'antico suo crudel nemico Giorno.
Fugge, ma dell'affronto risentirzi
Spera allor quanno farà lei ritorno,
Se pe' fatal perpetua antipatia,
Quanno viene un di lor, l'altra va via.

Calfurnia di riposo ancor diggiuna,
E sazia sola di magnà tant'aglio,
Provava sempre più veglia importuna.
Messi già i su' penzier tutti a sbaraglio,
De sotto alla finestra pe' fortuna
Vede di luce un piccolo spiraglio.
Curre a raprirla, e ben s'accorge allora,
Che già pell'aria a spasso va l'Aurora.

Dà di piccio alla scuffia, e a pricipizio
Resce de casa, e in tel serra la porta,
Cosa che lei pigliò pe' brutto indizio,
Al su' piede mancin dette una storta.
Di dar retta all'augurji havea pe' vizio,
E pur ce fava lei la donna accorta.
Segno lo stima d'una gran ruina,
Crede morto il su' sgherro, e si tapina.

Va con tal furia e smania, che somiglia
Una matre dolente e sbigottita,
Che va in prescia a cercà piccola figlia,
Che pe' strada talor se gli è smarrita.
Fiotta, piagne, sospira, e si scapiglia,
Tutta affannata, e mezza scelonita
Tie' l'occi larghi, e tie' l'orecchie attente
Se la vede, o di lei discorrer sente.

Così Calfurnia in zampettà si volta
Hora da questa parte, et hor da quella,
E indietro ancora spesso si rivolta,
E da per tutto fa la sentinella.
Attenta stà, se gnente dir ascolta
Di Marco Pepe, e s'ha di lui novella,
O pur se chalchedun da lei sia scorto,
Che gli sapesse dir, s'è vivo o morto.

Arriva alfin dov'abbita costui,
E il tremacore allor venne a costei,
Perchè penzanno và, se morto è lui,
Allo spavento granne, ch'havrà lei.
Poi tra sè cosi dice: "Io pazza fui.
Tu poco savio Marco Pepe sei:
Il male io ti consiglio, e tu lo fai,
Io ti spingo alla morte, e tu ci vai".

Alli vicini domannà potrebbe,
Se qual il fine del duello è stato,
E con certezza allora saperebbe,
S'è morto, o pur s'è vivo lui restato.
Ma poi, ch'havesse a male non vorrebbe,
Quanno viva, che lei pel vicinato
Pubbrica i fatti sui; però noi fàne,
Ma nè meno risolvesi a bussàne.

Hor s'accosta alla porta, hor si ritira,
Par ch'ancora non sappia arrisicarzi,
Stenne la mano, e in dreto poi la tira,
Si vorria trattenè, vorria spicciarzi.
Così tra 'st'arcigogole s'aggira,
Par che tema del vero assicurarzi,
Perchè il saper gran pena glie daria,
Quel ch'appunto sape' lei non vorria.

Poi dà alla fine una sbatocchiatura,
E allora el cor glie zompica nel petto,
Che di sentirai dire, ha gran paura:
"Marco Pepe è qua su nel cataletto".
Non risponne nisciun per sua sventura,
Però gli cresce sempre più 'l suspetto.
Sente un che scegne giù: fa 'l viso smorto.
"Questo, - dice, - sicuro è il beccamorto".

Marco Pepe, era quel che giù veniva,
Ch'assai poco pur lui dormito haveva,
E perchè appunto allora si vestiva,
In mutanne e in camiscia giù scegneva.
Eran bianche le calze, e gli cropiva
Berettin bianco il capo, onde pareva,
(Sendo anche smorto pel timor passato),
Giusto giusto di Pietra il Convitato.

Rapre la porta, e una sguerciata appena
Gli dà Calfurnia, che ritira el passo.
Sbalza all'arreto, e strilla a voce piena,
E lei si resta allor proprio de sasso.
"Sete pur vivo?" - dice, ed "O qual pena
Per voi provai! Dite. Che fu quel chiasso,
Che si fece da MEO jersera al tardi?
Dite. Sò avvisi veri, o pur busciardi?".

"So il cancaro e 'l malanno che ti venga!
Entra pur, entra, ch'io con te la voglio",
Disse colui. "Non so chi m'intrattenga,
Ch'io contro te non sfoghi el mi' cordoglio.
Senti ve', che nostrodine s'astenga
Di vendicarzi de 'sto gran imbroglio
In che l'ha' messo, no non sarà mai;
A fè', che da vantattene non hai".

La ciospa allor tutta stremir se sente
In tel vedè costui così feroce:
"Di quel che v'è avvenuto, io non so gnente",
Disse, tremanno el cor più della voce,
"Tu fusti in tel pregamme impertinente,
L'havè fatto a tu' modo, assai me noce",
Repricò lui: "Si, con raggion lo dico,
Per te me trovo in assai brutto intrico.

Tu contro MEO PATACCA m'attizzasti,
Tu volesti ch'annassi a stuzzicallo,
E tanto col tuo dir m'inzampognasti,
Che contro voglia m'inducesti a fallo.
Senti! Sol questo oggi sapè ti basti,
Che mi convenne vincitor lasciallo;
Che pe' malignità di sorte ria,
Fu sua la grolia, e la vergogna è mia".

"Povera me! Che sento! E così forte
Trovaste, - dice lei, - quel traditore?
Che havesse da restà ferito a morte
Me lo diceva, et ha sbagliato il core;
Ma però non è poco, anzi è gran sorte,
Già ch'è stato PATACCA il vincitore,
Non v'habbia coll'onor la vita tolta,
Che sfidallo potrete un'altra volta".

"Che me caschi da collo, brutta grima -
Strepito Marco Pepe - e ancor hai faccia
Di consigliamme peggio assai di prima?
Di famme annà di nuovi affronti a caccia?
Troppo sa MEO, troppo imparò di scruna
Mentr'io so' stato in guerra, e in te le braccia
Ha una forza da toro. Io gonzo fui,
Pe' datte gusto, a taccolà con lui.

Ma però tu, mettite puro in testa,
Giacchè tu me ci hai messo in tell'impicci,
Di sbrogliamme da quelli, e sii ben presta,
Ch'io non voglio per te novi stropicci.
So, quanno vuoi, che sei ghinalda e lesta,
Quel ch'impicciasti tu, da te si spicci.
Nemico havè 'sto sgherro a me non piace,
Penzaci tu de fammece fa' pace".

"Volontier lo faria, - costei rispose.
- Ma, a dilla in confidenza, io non ci tratto
Con MEO PATACCA, e sol per certe cose,
E per un torto granne, che m'ha fatto.
Però ogni mia speranza si ripose
In vostre mani, allor che di quell'atto,
Che lui mi fece, io vista haver vorria,
Sol da voi fatta la vendetta mia".

"Ah vecchia malandrina! Ah griscia indegna! -
Esclamò quello. - Alfin ci sei cascata
A scropì tu la torta; e chi t'insegna
A dir che fu da MEO Nuccia sbeffata?
Al deto Marco Pepe se la segna:
A fè', che ci hai da esse rifilata
Se l'arrivo a sapè, che furba e scaltra
M'appettasti una cosa per un'altra".

Tonta resta Calfurnia, e spaurita,
Par che fiato a risponnere non habbia;
Di parlà non ardisce, insospettita,
Che contro lei non sfoghi lui la rabbia.
In tel vede costei sì sbigottita
Allora Marco Pepe più s'arrabbia,
Et incominza a crede che sia vero
El sospetto, che a lui venì in penziero.

Ma pur la va la ciospa imbarboglianno,
E dice: "Signor Pepe, assai m'offenno,
Ch'annate queste cose sospettanno,
E contro me quel che non è dicenno.
Io l'innocenza mia ve raccommanno,
Che sol di dir la verità pretenno:
Fu di Nuccia il penziero, e non fu mio,
È vero sol, che ci hebbi gusto anch'io".

Così Calfurnia infinocchia pretese
Marco Pepe, che prima si confuse
A tal risposta, ma però poi crese,
Che queste di colei fussero scuse:
De posta per un braccio te la prese,
Via la cacciò con repricà l'accuse,
Nè da alcuna raggion si persuase;
E intanto in strada lei spinta rimase.

Come un cane, che va col capo basso,
Che da chalche mastin fu spellicciato,
O da gran colpo di bastone o sasso
Su la groppa, assai ben fu tozzolato,
In prescia move in tel fuggine el passo,
Alto prima el codino, e mo' abbassato,
E mentre in su la schina il pelo arrizza,
Unite fa vede paura e stizza.

Giusto giusto a 'sto modo se la sbatte
La vecchia spaventata a capo chino,

E drento al cor la collera combatte
Con lo spavento in apprescià el camino.
Non vorria che le gabbale, che ha fatte
Scropisse 'sto gaglioffo spadaccino,
Che doppo che fuggì come un ciafèo,
La facesse azzollà da Nuccia e Meo.

Benchè sia 'sta Calfurnia una gran tappa,
Pur la travaglia assai quel c'ha sentito.
Da casa intanto Marco Pepe scappa,
Ch'in questo mentre s'era già vestito.
In tel pietro involtatosi, s'accappa
In modo tal, ch'il viso è ricropito,
E l'occhio sol da un'apertura abbada,
Pe' guida 'l piede a scernere la strada.

D'annà così furone ha lui penzato,
Perchè un suspetto in capo gli è venuto,
Che se forzi da MEO fusse incontrato,
Saria chalche gran male succeduto:
L'haverebbe lui certo rifilato.
Però se ne va questo sconosciuto,
Ed è pe' la paura così inquieto,
Ch'a ogni passo, che dà, si volta arreto.

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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