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Messaggi del 13/03/2017

Veturia

CAPITOLO LIII.
Veturia, donna Romana.

Veturia, nobile donna romana, essendo già vecchia, con laudabile opera trasse gli suoi anni a laudabile verdezza. E questa avea uno figliuolo Gneo Martio d’ardita virtù, e pronto di consiglio e di mano. E avendo assediato i Romani Coriolo, terra de’ Volschi per la gloriosa virtù di quello, parve che fusse vinta; di che egli acquistò per soprannome Coriolano, e sì grande benevolenza dei nobili, che ardiva fare ogni cosa, con parole e con fatti. Per la qual cosa, avendo Roma carestia di biada, e per opera de’ senatori essendone condotta molta di Cicilia; con aspra orazione vietò, che non fusse venduta e partita tra il popolo, infino che non fussero restituiti ai nobili gli onori che il popolo gli avea tolti poco avanti per la tornata, quando il popolo era partito da Roma, e andato al Sacro Monte. Contro al quale lo popolo affamato si sarebbe mosso, se non fusse che il Tribuno, come bisognò, determinò lo dì a disputar la questione. Egli non obbedì; ma sdegnandosi, fu sbandeggiato, e fuggì appresso i Volschi, poco innanzi nemici de’ Romani, dai quali fu ricevuto graziosamente, perchè la virtù ha pregio in ogni luogo, E questo ridusse i Volschi a guerra con i Romani per la sua fraude siccome per l’inganno di Accio Tullio Volsco. E fatto capitano di quegli, condusse l’oste alle fosse Duxille quattro miglia presso a Roma; e ridusse i Romani a tanto, che mandarono ambasciadori a quello bandeggiato, dimandando pace con giuste condizioni; i quali Marzio rimandò nella patria con aspra risposta. Per la qual cosa furono rimandati da capo, ma non furono ricevuti; la terza volta furono mandati i sacerdoti con le loro veste è co’ loro ornamenti, e tornarono senza effetto. E già da ogni parte la disperazione era entrata negli animi dei Romani. Ecco che molte donne con lamentanza andarono a Veturia, madre di quello, e a Volumnia, sua moglie; e ottennero, che quella donna già vecchia, con la moglie di lui andasse al campo de’ nemici, con prieghi e con lagrime a mitigare lo figliuolo, poichè la repubblica non si poteva difendere dagli uomini con le armi, e con lei andarono molte altre donne. La cui andata come Coriolano seppe, benchè egli avesse enfiato l’animo, ismarrito nondimeno per l’andata della madre, smontò di sedia, e uscì della tenda, andandole incontro per riceverla. Ma Veturia, tenendo dall’una parte la moglie, dall’altra i figliuoli di Coriolano, come vide lo figliuolo, messa giue la pietà della madre, levossi in ira; dove ella era uscita da Roma umile, andando al campo de’ nemici diventò riprenditrice; e preso forza nel debole petto, disse: Sta fermo, furioso giovane, io vorrò sapere innanzi che io ti abbracci, se tu vieni a ricevermi come madre, o come nimica; che io ti stimo nimico. Dovevami la lunghezza della vita desiderata dagli uomini condurre, che io misera, vedessi te dannato in esilio, e poi nimico della repubblica. Dimando, se tu conosci in qual terreno tu sii armato? conosci tu la tua patria, la quale tu hai presente? e se tu nol sai, questa è la patria dove tu fosti ingenerato, dove tu sei nato, dove per mia fatica tu se’ nutricato. Dunque con che animo, con che pensiero, con che furore hai tu potuto muovere l’armi di nimico? non t’è venuto a mente l’onore dovuto a tua madre, lo dolce amore della tua donna, la pietà dei figliuoli, e la naturale reverenzia della patria? non poterono queste cose muovere l’aspro petto, non poterono ammortare l’ira, quantunque fusse presa giustamente? Non ti tornò a memoria, quando tu vedesti dapprima quegli edificj, che dentro a quegli sono le tue case, e gli tuoi idoli e li miei; che dentro a quel luogo sono, tua donna e tuoi figliuoli e la infelice madre per sua sciagura e per mia opera? Sono venuti i sacerdoti, e non hanno potuto muovere lo tuo petto, pregandoti che tu facessi quello che tu dovevi fare di tua volontà. Assai misera mi considero, che sei, o figliuolo, e mia avversità, e della patria? Dove io pensava avere partorito figliuolo e cittadino, veggo che ho partorito nimico odioso e implacabile. Certamente era assai meglio non aver partorito; e Roma avrebbe potuto stare senza assedio per la mia sterilità, e io, miserella vecchia, poteva morire in libera patria. Ma io non posso sostenere alcuna cosa, che, a te vituperosa, può durare lungamente: di questi tuoi figliuoli e figliuole considera, che se tu segui, o morranno innanzi al tempo, o verranno in lunga servitù. E dopo le parole seguì lo pianto, e dopo i prieghi della moglie lo abbracciare de’ figliuoli, e lo gridare delle donne che piangevano e pregavano. Per le quali parole pianti e prieghi, avvenne, l’ira dello aspro Capitano si mosse per reverenza della madre; la qual cosa non avea potuta fare la maestà degli ambasciadori; e lo proposito fu mutato. Poi, abbracciato i suoi e data licenza a quelli, fece cessare indietro lo campo da Roma.

Della qual cosa avvenne, acciocchè, la gloria di quella donna non fusse tratta, dalla ingratitudine, che per decreto del senato in quel luogo dove Veturia avea mollificata l’ira del figliuolo fu edificato uno tempio di pietre cotte a perpetua memoria di quella cosa, e uno altare alla Fortuna delle donne. La qual cosa certamente, benchè sia vecchissima, dura infino alla nostra età, non diminuita quasi in alcuna cosa. Ancora determinò lo senato, che passando le donne alle quali infino a quella età non era fatto niuno, ovvero piccolo onore dagli uomini, che gli uomini si levassero, e dessero loro la via; la qual cosa si serva ancora nella nostra patria per l’antica usanza: e che fusse loro lecito portare l’ornamento antico delle donne d’Oriente nelle orecchie, vestimenta vermiglie, fibbiale, e presure d’oro. E sono alcuni che affermano, che per quello medesimo dicreto del senato fu aggiunto, che potessero acquistare ereditadi di ciascuna persona, la qual cosa non era lecito innanzi. E pensano alcuni, che la sentenza sia in dubbio, se questo pagamento fu più odioso agli uomini, o se egli dee essere più grato alle donne: la qual sentenza io penso, essere certissima: per che per gli ornamenti si consumano le ricchezze de’ mariti, e le donne vanno adornate d’ornamenti di re, i mariti impoveriscono consumando l’eredità de’ suoi passati, s’arricchiscono le donne acquistando, sono onorate eziandio quelle che non sono nobili; molte cose sono seguite a quegli disconce, a queste comode. Io maladirei Veturia per la superbia che è seguita alle femmine da queste cose, se non fusse stata salva la romana libertà per gli suoi prieghi. Ma io non posso lodare quella troppa cortesia del senato, e il costume durato dannoso pero tanti secoli: le donne sarebbero state contente di minor danno; e pareva grandissima cosa lo tempio consacrato alla Fortuna delle donne. Ma che diremo noi? lo mondo è cosa di femmina, e gli uomini è cosa femminile. E quel che è stato avverso agli uomini, l’età che consuma molte cose utili, non ebbe potuto consumare o menomare alle donne la sua ragione, servandola quelle con tenace perseverazione. Dunque lodino Veturia, e onorino la suo nome e lo suo merito, quante volte elle s’adornano di care pietre, di porpora e di fibbiale; e andando, gli uomini si levino da sedere; e poi che sono morti s’annoverino le ricchezze dei morti.

Giovanni Boccaccio

De claris muljeribus
VOLGARIZZAMENTO
DI MAESTRO DONATO ALBANZANI DA CASENTINO
[ca. 1336 - fine secolo XIV]

 
 
 

Poesie di Dell'Arco

Testa o croce?

Testa o croce? Lanciata
troppo forte, la luna s'è incollata
a lo sciallo de pece de la notte
e da lassù te sfotte.

Nun saprai
si è testa o croce mai.

La guja

Inarberata in piazza
o affacciata in terrazza
o inzeppata ner verde de le ville,
è una pietra focaia.

Er ponentino
passa co l'acciarino
e tutta Roma s'empie de faville.



Un cono gelato

Tra zabbajone e crema e cioccolato,
scejo er pistacchio

e puro
chiuso tra muro e muro,
sospeso er core su un cono gelato,
me succhio a filo a filo l'erba di un prato.

Mario Dell'Arco
Strenna dei Romanisti, 1961, pag. 28

 
 
 

Romaneschi all'osteria

Romaneschi all'osteria

Cantate, poeti de Roma! A bisboccia
finita, nun guasta
dà sfogo a la vena. (E ognuno s'attasta
in saccoccia
e alliscia una carta). Su, ancora un goccetto
de vino, e attaccate! Magari un pezzetto
per uno, che strazi un tantino, o un sonetto
da ride. Uno solo (per turno) e poi basta.

Io puro? un momento, fratelli.
Qui stamo in Trastevere, e Belli
è sfastico e porta il bastone.
E poi c'è Trilussa
a du passi, co quele manone ...
Stasera, se fiato,
quarcuno me bussa.
Sicuro. L'ho intesa dì in giro:
nun scherzeno, quelli,
co chi ha scastagnato.
Cantate, cantate vojartri. Io sospiro,
ve sbatto le mani, e fo er muto.

E penso: pò èsse ch'ho tutto sbajato
perché nun scopiazzo da certi modelli
che sanno de muffa, rifatti sur peggio
der tempo passato? Ma propio fo male
se, doppo bevuto,
io pure nun casco e boccheggio
ner sentimentale;
se, doppo magnato, io pure non rotto
sonetti cor botto
finale?

C.A. Zanazzo
Strenna dei Romanisti, 1961, pag. 58

 
 
 
 
 

INFO


Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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