Creato da giramondo595 il 14/11/2008

CHIACCHERE FRA AMICI

DI TUTTO UN PO'

 

Messaggi di Aprile 2014

Dopo la lettera aperta alla nostra amica coloridivita

Post n°778 pubblicato il 28 Aprile 2014 da giramondo595

Riapre la nostra pinacoteca. Questo sarà l' ultimo giornooo. Poi chiuderà per un periodo di pausa.

oggi avremo l' onore di osservare  alcuni quadri del Matisse

La danza ( La danse )

La prima versione, risalente al 1909 (259.7x390.1 cm, olio su tela), è conservata al Museum of Modern Art di New York, mentre l'altra, del 1909-1910 (260x391 cm, olio su tela), è situata al Museo dell'Ermitage di San Pietroburgo.
La seconda versione del dipinto è considerata, insieme al contemporaneo La musica, la prima grande opera di Matisse a dare esclusivamente rilievo alle relazioni fra i suoi elementi (colori, ritmo delle figure ecc...) rispetto al soggetto trattato
Nel 1909, la seconda versione dell'opera fu commissionata, insieme al pannello della Musica dello stesso Matisse, da Sergej Ščukin, un ricco imprenditore russo e grande collezionista di arte, il quale già dal 1906 acquistava con regolarità le opere di Matisse. La critica, una volta esposto al Salon d'Automne del 1910, diede giudizi estremamente negativi all'opera che venne giudicata una "cacofonia demoniaca". Nonostante ciò, La danza II è oggi considerato uno dei dipinti più rappresentativi di Matisse.

In questo dipinto sono presenti cinque soggetti nudi che, tenendosi per mano, procedono vorticosamente a girotondo mentre generano una sinusoide unita. I colori sono solo tre, tutti saturi e nettamente delineati, ovvero il rosso dei corpi, il blu del cielo e il verde della terra.
Rispetto alla prima versione omonima, La danza II differisce per l'uso dei colori più luminosi (quali il rosso-giallastro dei corpi, e il blu tendente al rosso nella parte superiore del dipinto) e la disposizione del soggetto in basso al centro, che si slancia verso quest'ultimo tentando di afferrargli la mano.
Le linee sono semplificate e i colori piatti, mentre le figure suggeriscono un forte senso di ritmo. Viene particolarmente evidenziata, la stesura cromatica, la sagoma delle figure e lo stacco cromatico]. Nella seconda versione, vi è un maggiore dinamismo nella parte superiore del dipinto rispetto del dipinto a quella il basso, dove un soggetto sembra trascinarsi.
Matisse dichiarò riferendosi a La danza II:
« Il primo elemento della costruzione fu il ritmo, il secondo una vasta superficie blu scuro (allusione al cielo mediterraneo nel mese di agosto); il terzo un verde scuro (il verde dei pini mediterranei). Partendo da questi elementi, i personaggi non potevano che essere rossi, per ottenere un accordo luminoso. »
L'artista non descrive un fatto ma, attraverso la composizione e il colore, esprime il prorompere inarrestabile della vita, il suo continuo rinnovarsi, il suo eterno movimento. Questo però per Matisse non significa moto caotico: sono linee ordinate in relazione alla superficie dipinta: le figure si adattano alla composizione, ogni elemento dei corpi si dispone in una posizione relazionata a quella degli altri, l'uno concatenandosi al vicino e questo al successivo, secondo un rapporto calcolato che coinvolge l'intero quadro. La composizione è l'arte di sistemare in modo decorativo i vari elementi di cui la pittura dispone per esprimere i propri sentimenti. L'espressione consiste nell'intera composizione del quadro: il posto occupato dai corpi, i vuoti attorno ad essi, le proporzioni. Matisse sogna un'arte equilibrata, pura, tranquilla. Il blu, il rosso e il verde sono i colori dominanti; sono loro che permettono di percepire immediatamente la composizione distinguendone nettamente ogni elemento, creano una spazialità, non certo imitativa del reale, ma ideale. Il cerchio (ovale) non si chiude proprio perché esso rappresenta la vita, l'andamento stesso della danza. Matisse lo spiegò con queste parole:
« il mio obiettivo è rappresentare un'arte equilibrata e pura, un'arte che non inquieti né turbi. Desidero che l'uomo stanco, oberato e sfinito ritrovi davanti ai miei quadri la pace e la tranquillità. »

 

Musica

Musica è un dipinto (olio su tela, 260x389 cm) di Henri Matisse del 1910 e conservato nel Museo dell'Ermitage di San Pietroburgo.
Fu acquistato da un appassionato russo di arte Sergey Shchukin , già committente del più celebre La danza, anch'essa un'opera di Matisse situata all'Ermitage. In una sua lettera del 31 marzo 1909 rivolta all'artista è scritto:
« Nella mia casa si tengono spesso concerti. Ogni inverno ci sono circa dieci concerti (Bach, Beethoven, Mozart), quindi il pannello della musica dovrebbe suggerire un po' l'atmosfera di casa. »
Esso raffigura cinque personaggi sparsi lungo un presumibile prato verde. Due di essi, entrambi situati a sinistra, sono intenti a suonare rispettivamente un violino ed uno strumento a fiato, mentre gli altri tre intonano una canzone, come sottolineano le bocche aperte. Analogamente a La danza, sono stati impiegati solo tre colori: il rosso per i corpi, il blu per il cielo e il verde per la terra. L'opera è autografata e datata: "HENRI-MATISSE 1910".
Matisse lavorò sulla tela enorme per 'Musica', senza schizzi preparatori e ripensò alla composizione numerose volte.
La tela assume pertanto le tracce di numerose modifiche, e possiamo rintracciare quasi tutti i passaggi della difficile ricerca dell'artista, per l'effetto desiderato. Una volta completato, l'idea centrale di Shchukin, è stato la realizzazione dell'uomo in uno stato di completezza attraverso l'immersione nella creatività appassionata.
'Musica' è costruito sugli stessi tre elementi de 'La danza': la stessa armonia espressiva del verde, rosso e blu, le cinque figure semplificate di musicisti e cantanti in accordo con i cinque ballerini, come ne 'La Danza', l'uomo è uno con la Terra e il Cielo.
E' montato sulla collina, si è strappato via dalla routine quotidiana per diventare un simbolo-immagine, esistente al di fuori del tempo e dello spazio.

Ma la 'Musica' ci stupisce con la sua calma concentrata, l'immobilità assoluta delle figure isolate, la concentrazione totale nell'esecuzione di strumenti musicali e canto.
Le bocche aperte sembrano risuonare e ci costringono a sperimentare fisicamente le voci umane che scorrono dal di dentro.
Mentre le figure, che sembrano quasi come la notazione musicale in una pagina, sono completamente chiuse in se stesse, la musica li unisce in un tutto unico, il conduttore violinista agisce come figura centrale nella composizione.

ed alcuni splendidi quadri del nostro amico Julian

Le due sorelle


MalinconieSublimi il 30/04/14 alle 22:34 via WEB

LE DUE SORELLE E' UN QUADRO CHE AMO PERCHE' VI E' RAFFIGURATA LA BALAUSTRA E UNO SCORCIO, DELLA VILLA DEI MIEI ANTENATI. GRAZIE ANCORA PASQUALE PER LA TUA GENEROSITA'!... (^_____^) JULIAN

 

La prigione sul mare


MalinconieSublimi il 30/04/14 alle 22:34 via WEB


LA PRIGIONE SUL MARE ) E' CERTAMENTE IL MIO AUTORITRATTO PSICOLOGICO E MI CI RITROVO PIENAMENTE...

Grazie a te Julian per averci raccontato le tue emozioni mentre dipingevi questi capolavori!...

 
 
 

Lettera aperta ad Antonella (nick:Coloridivita)

Post n°777 pubblicato il 27 Aprile 2014 da giramondo595

Cara Antonella,
ieri tra i commenti ai miei messaggi, c'era quello di una nostra amica.
missely_2010

lo mandi alla tua lista per favore ? grazie. coloridivita cosa sta succedendo su libero? ed a questa mia amica? lo sapete? Post n°150 pubblicato il 26 Aprile 2014 da lunaweb2009 Tag: amicizia Chi conosce antonella sa che è una bella persona ed una bella amica è seria dolce affettuosa ma adesso leggete io sono addolorata.

http://blog.libero.it/coloridivita/ Amici cari, per motivi personali ho deciso di andare via da Libero. Stare qui per me era un modo per rilassarmi, per trovare compagnia, perché sono una persona solitaria ma se devo starci vorrei starci con serenità. Questa serenità ora manca e allora preferisco seguire la mia strada in modo diverso... Vi abbraccio tutti, grazie per la vostra amicizia, per tutto quello che mi avete dato, per i sorrisi, per le emozioni, per la condivisione, per l'affetto.

Ciò mi ha rattristato. In quanto leggendo il tuo blog ed i commenti che hai lasciato nei miei messaggi. Ho notato che sei una persona sensibilissima, e dimostri un notevole livello culturale in ogni materia. tutto ciò ti fà onore. Non conosco il motivo del tuo abbandono. Però vorrei invitarti a non mollare. torna tra noi a scambiare qualche chiacchiera tra amici, anche se virtuali. Sarebbe, davvero un grosso peccato, perderti.

Pasquale

P.S.: Mi auguro che qualche persona di buon cuore, faccia leggere i messaggi miei e di Maria Antonietta e  convinca antonella a tornare tra noi. Bacioni a tutti

riccidorati

Conosco Antonella tramite i blog di alcuni comuni amici e sinceramente la trovo una brava e sensibile ragazza.Mi dispiace di questa sua decisione e vorrei spendere due parole per dirle che ogni persona che cerca di minare la tua sicurezza e serenità merita solo di essere ignorata o cancellata,ma non lasciarti condizionare da coloro che vivono di invidia e di pura cattiveria.Procedi per la tua strada tranquilla assieme ai tuoi veri amici.Lasciare il blog che ti da soddisfazioni è assurdo oltre al fatto che farai felice chi ti ferisce,ma infelici i tuoi amici VERI!Ciao a te Antonella e ciao caro Pasquale...un kissone-Giulia

 
 
 

Buon 25 aprile a tutti ..

Post n°776 pubblicato il 25 Aprile 2014 da giramondo595

Oggi vorrei proporvi la visione alcune splendide opere di Frida Kahlo. la prima è Mosè (o il nucleo solare)

 

Secondo le intenzioni del committente il dipinto doveva basarsi sull'interpretazione del libro di Sigmund Freud, "Mosè e il monoteismo", nel quale, Freud analizza l'origine e il mito di Mosè. Per il padre della psicanalisi Mosè sarebbe egiziano e così anche l'origine del monoteismo. Freud fa risalire sia la figura di Mosè sia il monoteismo all'epoca del faraone Akhenaton durante il quale il culto del Dio Aton (una divinità solare) divenne di primaria importanza1. Mosè sarebbe stato un seguace di questo culto e avrebbe condotto gli israeliti fuori dall'Egitto dopo la morte di Akhenaton, prima che venisse ristabilito il culto degli antichi dei.
Nonostante l'interpretazione del libro di Freud sia vitale per l'ispirazione della Kahlo, lei si baserà anche nelle sue esperienze personali per comporre il dipinto.
Il quadro è diviso in tre parti: Ai due lati del quadro nella parte superiore si trovano gli dei, sotto di essi si stagliano le figure dei grandi leaders e pensatori di epoche diverse (che sarebbero gli "eroi") e nella parte inferiore del dipinto vengono raffigurate le masse. Al centro si trova Mosè bambino, che i critici hanno sostenuto riprenda le fattezze del marito e pittore Diego Rivera. Il bambino è raffigurato con tre occhi, il terzo occhio, che rappresenta la saggezza, ricomparirà in altri quadri posteriori della Khalo soprattutto collegato alla figura di Rivera. Sopra Mosè in fasce compare un utero all'interno del quale è dipinto lo stesso Mosè. Questo utero è un utero sano: è noto il desiderio di Frida di avere figli (ha abortito tre volte e non è mai riuscita ad averli). Le rappresentazioni del corpo femminile o parti di esso sono costanti nelle sue opere. Sotto il bambino ci sono delle conchiglie che, secondo l'autrice, rappresentano l'amore. Sopra l'utero con Mosè c'è un grande sole che irradia raggi con delle mani sulle punte (simbolo della protezione ai fedeli). Questa è la rappresentazione conosciuta di Aton, la divinità egizia adorata da Akehnaton e precursore, secondo Freud, delle religioni monoteistiche. Il sole sarebbe il primo dio e il creatore della vita. Interessante osservare che la pittrice dispone due dei raggi sulle teste del faraone Akhenaton e di sua moglie Nefertiti, che si trovano nella parte dei grandi leaders e pensatori, quella di mezzo, e queste mani sono aperte, a differenza delle mani degli altri raggi di sole.
Gli dei rappresentati nella parte superiore sono vari. A destra si trovano le divinità della mitologia egiziana: Anubis (divinità con la testa di sciacallo), le divinità che rappresentano la vita e la morte (Khnum e Sokaris); ci sono divinità della mitologia greca come Zeus (con i suoi raggi) e Afrodite (dentro una conchiglia) e immagini cristiane come la Madonna. A sinistra ci sono le divinità precolombiane, più precisamente azteche, visto che Frida Kahlo difendeva il recupero delle tradizioni messicane, come molti intellettuali del tempo. Tra queste divinità azteche è presente anche Coatlicue, la dea della vita e della morte.
Gli dei sono seguiti da una serie di pensatori e leader di differenti epoche, che si trovano più in basso, e sono rappresentati con le teste più grandi per differenziarsi dalla massa: Akhenaton, Mosè, Cristo, Alessandro Magno, Cesare, Lutero, Napoleone e stranamente Hitler, che lei chiama il «bambino perso», sono alcuni degli esempi che si trovano sulla destra. A sinistra Buddha, Karl Marx, Freud, Lenin e Stalin sono altri esempi. Nelle parole di Frida queste personalità «sono i trasformatori delle religioni».
Sulla parte inferiore del quadro si trova la massa umana, che lei definisce «potente e mai ben ponderata» e che è composta da tipi vari: i rebelli, gli ignoranti, gli scienziati, i tristi e i felici, i sani e i malati, i poeti ecc.
Frida Kahlo rappresenta in quest'opera uno dei suoi temi preferiti, ovvero il ciclo e la dualità della vita e della morte. Quest'ultima viene rappresentata dai tronchi d'albero secchi che abbracciano tutto il quadro, ma anche dai teschi. Sono rappresentati gli dei legati alla vita e alla morte in diverse religioni. Le piante che nascono dai tronchi secchi costituiscono la nascita di una nuova vita. Le intenzioni della pittrice erano quelle di mostrare come la creazione dei miti e degli eroi fosse basata sull'umana paura della morte e della vita e come questi timori vengono plasmate nelle diverse religioni. Si tratta tuttavia di un'interpretazione personale della pittrice: lei stessa confessò, dopo aver letto il libro di Freud per la seconda volta, che è un'interpretazione diversa da quella dell'autore: «Pero ahora no hay manera de cambiarlo...»
Il quadro è stato premiato nel 1946 durante una mostra di pittura nel Palazzo delle belle arti in Messico

La seconda è Le due Frida del  1939

La Kahlo dipinse questo quadro dopo il divorzio da suo marito, il pittore Diego Rivera, dopo una storia di amore tanto appassionato quanto difficile e sofferto, tanto i due si tradivano e si amavano nello stesso tempo. Proprio per questo la pittrice si è rappresentata sdoppiata, una vestita con i tipici abiti messicani, intenti a tenere in mano un piccole medaglione con la foto del marito, ancor desiderata da quest'ultimo.
L'altra, con abiti più europei, collegata alla sua gemella tramite una grande arteria che però, come vediamo nelle forbici in basso, sempre voler tagliare per fermare l'afflusso del sangue. O ancor meglio, del dolore di essere stata abbandonata.
Lo sguardo di tutte e due le donne è il medesimo, e non è rivolto ad altri se non allo spettatore, che proprio in questo modo può entrare nella grande intimità di questo quadro e percepirne ogni sensazione, ogni aspetto del dramma di un amore ormai finito: una Frida amata, e l'altra no. Non più. Questa rappresentazione del cuore richiama e ricorda alcune immagini delle chiese messicane.

La terza è le radici

La pittrice messicana avvertiva un forte legame con la natura e con il creato. Anche questi temi sono ricorrenti nella sua produzione artistica, talvolta come sfondi, altre volte come soggetti principali, oppure è lei stessa a farsi pianta o animale. Nell'opera «Radici» (1943) - ad esempio - il suo corpo diventa la base da cui si dipartono i verdi rami che vanno ad attecchire nel terreno sottostante.

 
 
 

La settimana santa č finita..

Post n°775 pubblicato il 22 Aprile 2014 da giramondo595

di conseguenza la mia pinacoteca virtuale..riprende la sua normalità, ed espone la famosa ragazza col turbante di Jan Vermeer

la Ragazza col turbante o Ragazza con l'orecchino di perla è un dipinto a olio su tela (44,5×39 cm) di Jan Vermeer, databile al 1665-1666 circa e conservato nella Mauritshuis dell'Aia
Si tratta di uno dei dipinti più noti dell'artista, anche grazie a un romanzo e un film del 2003 di cui è stato oggetto, La ragazza con l'orecchino di perla
Raffigura una fanciulla volta di tre quarti. Colpisce in particolar modo l'espressione estatica, assolutamente languida ed ammaliante (secondo alcuni carica anche di un innocente erotismo), dello sguardo della giovane modella: sembra sia stato lo stesso Vermeer a chiedere alla ragazza, posta di fronte alla grande finestra illuminata dalla luce naturale del suo atelier, di voltare il capo più volte lentamente, tenendo socchiuse le labbra per produrre questo effetto.
Riemerso dall'anonimato nel 1881 quando il quadro fu messo all'asta all'Aia da un certo signor Braams, fu acquistato ad un prezzo risibile (due fiorini più 30 centesimi di commissione) dal collezionista Arnoldus des Tombe su suggerimento dello storico dell'arte Victor de Stuers. Il quadro nel 1902 fu acquisito dal Mauritshuis dell'Aia in seguito alle volontà testamentarie del des Tombe.
La suggestiva leggenda che circonda questo quadro - e che colora con una punta di sentimentalismo la biografia di un grande pittore del quale si sa tuttora ben poco, e che poco ha lasciato: una trentina di dipinti in tutto e tutti di piccole dimensioni - è stata rievocata per la letteratura nel 1986 dal libro La ragazza col turbante (tradotto in nove lingue) della scrittrice Marta Morazzoni e poi anche nel 2003 per il cinema da un film dal titolo La ragazza con l'orecchino di perla, interpretato dall'attrice Scarlett Johansson ed ispirato al romanzo omonimo del 1999 della scrittrice Tracy Chevalier.L'orecchino con perla del quadro, che cattura quasi da solo la centralità della luce di cui è pervaso il dipinto, è di grandi dimensioni ed è a forma di goccia. Sebbene la ragazza che lo indossa appaia di modeste condizioni, tale monile era al tempo di Vermeer prerogativa delle dame aristocratiche dell'alta borghesia.
La perla è disegnata utilizzando solo due pennellate a forma di goccia separate l'una dall'altra: è l'occhio umano che ha l'illusione di vedere l'intera perla.
Nel XVII secolo le perle erano una preziosa rarità: venivano importate dall'estremo oriente. Nel caso della perla raffigurata nel dipinto, si tratta di un esemplare di grandi dimensioni che, a parere di alcuni studiosi, in natura non esisterebbe. Un aspetto misterioso e leggendario del dipinto, al pari di quello che lo vorrebbe ricavato da una immagine fotografica (si vuole che Vermeer compisse esperimenti con le prime apparecchiature allo studio per riprodurre immagini

 
 
 

Siamo nella settimana santa ed anche la mia pinacoteca

Post n°774 pubblicato il 17 Aprile 2014 da giramondo595

si adegua,ed è lieta di esporre alcune splendide opere riguardanti , l' ultima cena, la lavanda dei piedi, la crocefissione e la resurrezione di cristo  dipinte da Leonardo Da Vinci, Giotto, Piero Della Francesca e Masaccio

L' ultima cena di Leonardo da vinci

L'Ultima Cena è un dipinto parietale a tempera grassa (e forse altri leganti oleosi) su intonaco(460×880 cm) di Leonardo da Vinci, databile al 1494-1498 e conservato nell'ex-refettorio rinascimentale del convento adiacente al santuario di Santa Maria delle Grazie a Milano.

Si tratta della più famosa rappresentazione dell'Ultima Cena, capolavoro di Leonardo e del Rinascimento italiano in generale. Nonostante ciò l'opera, a causa della singolare tecnica sperimentale utilizzata da Leonardo, incompatibile con l'umidità dell'ambiente, versa da secoli in un cattivo stato di conservazione, che è stato almeno fissato e, per quanto possibile, migliorato nel corso di uno dei più lunghi e capillari restauri della storia, durato dal 1978 al 1999 con le tecniche più all'avanguardia del settore.
Deluso dall'abbandono forzato del progetto del monumento equestre a Francesco Sforza, a cui aveva lavorato quasi dieci anni, Leonardo ricevette però quell'anno un'altra importante commissione da Ludovico il Moro. Il duca di Milano aveva infatti eletto la chiesa domenicana di Santa Maria delle Grazie a luogo di celebrazione della casata Sforza, finanziando importanti lavori di ristrutturazione e abbellimento di tutto il complesso; Donato Bramante aveva appena finito di lavorarvi quando si decise di procedere con la decorazione del refettorio.

Venne decisa una decorazione tradizionale sui lati minori, rappresentante la Crocifissione e l'Ultima Cena. Alla Crocifissione lavorò Donato Montorfano, che elaborò una scena di impostazione tradizionale, terminata già nel 1495. In questa scena, oggi scarsamente leggibile, Leonardo dovette rappresentare, verso il 1497, i Ritratti dei duchi di Milano con i figli.

Sulla parete opposta l'artista avviò l'Ultima Cena (o Cenacolo), che lo risollevò dalle preoccupazioni economiche e nella quale riversò tutte le conoscenze assimilate nel corso di quegli anni. Leonardo realizzò numerosi studi, oggi in parte conservati, come la Testa di Cristo alla Pinacoteca di Brera.

Nella novella LVIII (1497) Matteo Bandello fornì una preziosa testimonianza di come Leonardo lavorasse attorno al Cenacolo:

« Soleva [...] andar la mattina a buon'ora a montar sul ponte, perché il cenacolo è alquanto da terra alto; soleva, dico, dal nascente sole sino a l'imbrunita sera non levarsi mai il pennello di mano, ma scordatosi il mangiare e il bere, di continovo dipingere. Se ne sarebbe poi stato dui, tre e quattro dì che non v'avrebbe messa mano e tuttavia dimorava talora una o due ore del giorno e solamente contemplava, considerava ed essaminando tra sé, le sue figure giudicava. L'ho anco veduto secondo che il capriccio o ghiribizzo lo toccava, partirsi da mezzo giorno, quando il sole è in lione, da Corte vecchia ove quel stupendo cavallo di terra componeva, e venirsene dritto a le Grazie ed asceso sul ponte pigliar il pennello ed una o due pennellate dar ad una di quelle figure, e di solito partirsi e andar altrove. »
(Matteo Bandello, Novella LVIII)

Come è noto Leonardo non amava la tecnica dell'affresco, la cui rapidità di esecuzione, dovuta alla necessità di stendere i colori prima che l'intonaco asciughi imprigionandoli, era incompatibile con il suo modus operandi, fatto di continui ripensamenti, aggiunte e piccole modifiche, come testimonia dopotutto il brano di Bandello. Scelse di dipingere quindi su muro come dipingeva su tavola; i recenti restauri hanno permesso di appurare che l'artista, dopo aver steso un intonaco piuttosto ruvido, soprattutto nella parte centrale, e steso le linee principali della composizione con una specie di sinopia, lavorò al dipinto usando una tecnica tipica della pittura su tavola. La preparazione era composta da una mistura di carbonato di calcio e magnesio uniti da un legante proteico e prima di stendere i colori l'artista interpose un sottile strato di biacca (bianco di piombo), che avrebbe dovuto far risaltare gli effetti luminosi. In seguito vennero stesi i colori a secco, composti da una tempera grassa realizzata probabilmente emulsionando all'uovo oli fluidificanti. Ciò permise la particolare ricchezza della pittura, con una serie di piccole pennellate quasi infinita e una raffinata stesura tono su tono, che consentì una migliore unità cromatica, una resa delle trasparenze e degli effetti di luce, e una cura estrema dei dettagli, visibili solo da distanza ravvicinata; ma la tecnica fu anche all'origine dei problemi conservativi, soprattutto in ragione dell'umidità dell'ambiente, confinante con le cucine.

L'opera era già terminata nel 1498, quando Luca Pacioli in data 4 febbraio di quell'anno la ricordò come compiuta.
Appena terminato il dipinto, Leonardo si accorse che la tecnica che aveva utilizzato mostrava subito i suoi gravi difetti: nella parte a sinistra in basso si intravedeva già una piccola crepa. Si trattava solo dell'inizio di un processo di disgregazione che sarebbe continuato inesorabile nel tempo; già una ventina di anni dopo la sua realizzazione, il Cenacolo presentava danni molto gravi, tanto che Vasari, che la vide nel maggio del 1566, scrisse che "non si scorge più se non una macchia abbagliata". Per Francesco Scannelli, che scriveva nel 1642, dell'originale non era rimasto altro che poche tracce delle figure, e anche quelle tanto confuse che non se ne poteva ricavare alcuna indicazione sul soggetto.

Le cause che provocarono quel degrado inarrestabile erano legate all'incompatibilità della tecnica utilizzata con l'umidità della parete retrostante, esposta a nord (che è il punto cardinale più facilmente attaccabile dalla condensa) e confinante con le cucine del convento, con frequenti sbalzi di temperatura; lo stesso refettorio era poi interessato dagli effluvi e dai vapori dei cibi distribuiti.

Per capire quanto siano stati devastanti i danni basta confrontare l'originale con una delle numerose copie dell'opera, come quella del Giampietrino. L'idea è quella che, ragionevolmente, i colori originali fossero sostanzialmente simili a quelli visibili nella copia, molto più brillanti e accesi.

L'opera subì numerosi tentativi di restauro nel tempo, che cercarono di porre rimedio ai danni, stabilizzando le cadute e, spesso, provvedendo a vere e proprie ridipinture. Si tentò soprattutto di evidenziare i contorni offuscati, per recuperare la leggibilità generale, e di tamponare i fenomeni di degrado. Kenneth Clark, nell'introduzione al catalogo della mostra Studi per il Cenacolo scrisse che in molti casi gli apostoli che vediamo oggi non sono più quelli dipinti da Leonardo:

All'inizio del XIX secolo le truppe napoleoniche trasformarono il refettorio in bivacco e stalla. Negli anni dieci del Novecento il pittore Luigi Cavenaghi reincollò le particelle che si andavano staccando dal muro.

Danni ancora più gravi vennero causati durante la seconda guerra mondiale, quando il convento venne bombardato nell'agosto del 1943: venne distrutta la volta del refettorio, ma il Cenacolo rimase miracolosamente salvo tra cumuli di macerie, protetto solo da un breve tetto e da una difesa di sacchi di sabbia, rimanendo esposto per vari giorni ai rischi causati dagli agenti atmosferici.Il dipinto si basa sul Vangelo di Giovanni 13:21, nel quale Gesù annuncia che verrà tradito da uno dei suoi apostoli. L'opera si basa sulla tradizione dei cenacoli di Firenze, ma come già Leonardo aveva fatto con l'Adorazione dei Magi, l'iconografia venne profondamente rinnovata alla ricerca del significato più intimo ed emotivamente rilevante dell'episodio religioso. Leonardo infatti studiò i "moti dell'animo" degli apostoli sorpresi e sconcertati all'annuncio dell'imminente tradimento di uno di loro.

Dentro la scatola prospettica della stanza, rischiarata da tre finestre sul retro e con l'illuminazione frontale da sinistra che corrispondeva all'antica finestra reale del refettorio, Leonardo ambientò in primo piano la lunga tavola della cena, con al centro la figura isolata di Cristo, dalla forma pressoché piramidale per le braccia distese. Egli ha il capo reclinato, gli occhi socchiusi e la bocca appena discostata, come se avesse appena finito di pronunciare la fatidica frase.

Col suo gesto di quieta rassegnazione, Gesù costituisce l'asse centrale della scena compositiva: non solo delle linee dell'architettura (evidente nella fuga di riquadri scuri ai lati, forse arazzi), ma anche dei gesti e delle linee di forza degli apostoli. Ogni particolare è curato con estrema precisione e le pietanze e le stoviglie presenti sulla tavola concorrono a bilanciare la composizione.

Dal punto di vista geometrico l'ambiente, pur essendo semplice, è calibrato. Attraverso elementari espedienti prospettici (la quadratura del pavimento, il soffitto a cassettoni, gli arazzi appesi alle pareti, le tre finestre del fondo e la posizione della tavola) si ottiene l'effetto di sfondamento della parete su cui si trova il dipinto, tale da mostrarlo come un ambiente nell'ambiente del refettorio stesso, una sorta di raffinato trompe l'oeil. Secondo uno studio recente, il paesaggio che si intravede dalle finestre potrebbe essere un luogo ben preciso, appartenente al territorio dell'alto Lario.

Filippo apostolo
Attorno a Cristo gli apostoli sono disposti in quattro gruppi di tre, diversi, ma equilibrati simmetricamente. L'effetto che ne deriva è quello di successive ondate che si propagano a partire dalla figura del Cristo, come un'eco delle sue parole che si allontana generando stati d'animo più forti ed espressivi negli apostoli vicini, più moderati e increduli in quelli alle estremità. Ogni singola condizione psicologica è approfondita, con le sue peculiari manifestazioni esteriori (i "moti dell'animo"), senza però compromettere mai la percezione unitaria dell'insieme.

Pietro (quarto da sinistra) con la mano destra impugna il coltello, come in moltissime altre raffigurazioni rinascimentali dell'ultima cena, e, chinandosi impetuosamente in avanti, con la sinistra scuote Giovanni chiedendogli "Dì, chi è colui a cui si riferisce?" (Gv. 13,24). Giuda, davanti a lui, stringe la borsa con i soldi ("tenendo Giuda la cassa" si legge in Gv. 13,29), indietreggia con aria colpevole e nell'agitazione rovescia la saliera. All'estrema destra del tavolo, da sinistra a destra, Matteo, Giuda Taddeo e Simone esprimono con gesti concitati il loro smarrimento e la loro incredulità. Giacomo il Maggiore (quinto da destra) spalanca le braccia attonito; vicino a lui Filippo porta le mani al petto, protestando la sua devozione e la sua innocenza.

La probabilità che certi particolari della composizione possano essere stati suggeriti dai domenicani (forse dallo stesso priore Vincenzo Bandello) è data dal fatto che questo ordine religioso dava grande importanza all'idea del libero arbitrio: l'uomo non sarebbe predestinato al bene o al male ma può scegliere tra le due possibilità. Giuda infatti nel dipinto di Leonardo è raffigurato in modo differente dalla grande maggioranza delle ultime cene dell'epoca, dove lo si vede da solo, al di qua del tavolo. Leonardo raffigura invece Giuda assieme agli altri apostoli, e così aveva fatto pure il domenicano Beato Angelico, nell'Ultima Cena dell'Armadio degli Argenti esposta al Museo di San Marco a Firenze, lasciandogli l'aureola al pari degli altri. Altra evidente differenza tra l'opera di Leonardo e quasi tutte le ultime cene precedenti è il fatto che Giovanni non è adagiato nel grembo o sul petto di Gesù (Gv. 13,25) ma è separato da lui, nell'atto di ascoltare la domanda di Pietro, lasciando così Gesù solo al centro della scena.

Che la scena raffigurata da Leonardo derivi dal quarto vangelo è intuibile, oltre che dal "dialogo" tra Pietro e Giovanni, dalla mancanza del calice sulla tavola. Diversamente dagli altri tre, detti vangeli sinottici, nel quarto non è descritta la scena che viene ricordata durante la messa al momento della consacrazione: "Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro, dicendo: Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell'alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati" (Matteo 26,27). Giovanni, dopo l'annuncio del tradimento, scrive invece così: "Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri" (Gv. 13,34).
Infine la figura di Tommaso, subito a sinistra di Gesù col dito puntato verso l'alto, è anatomicamente sproporzionata, con un braccio troppo lungo, e pare collocata nell'unico spazio disponibile in modo un po' posticcio.Secondo recenti scoperte sui disegni preparatori dell'opera infatti,Leonardo,per ricordarsi tutti i nomi degli apostoli li aveva dovuti appuntare sotto ciascuna figura quindi,si suppone che l'artista avesse dimenticato di inserire l'apostolo, e che abbia dovuto rimediare di corsa.

Sopra l'Ultima Cena si trovano, oltre una cornice baccellata all'antica, tre lunette, in larga parte autografe. Esse contengono imprese degli Sforza entro ghirlande di frutta, fiori e foglie, e iscrizioni su sfondo rosso; la lunetta centrale in particolare, di dimensione maggiore di quelle laterali, è in uno stato di conservazione buono, con una precisa descrizione delle specie botaniche.In questa si è scoperto,grazie ad un restauro digitale del dipinto, effettuato dal centro ricerche Leonardo3,anche in base alla scoperta di alcuni bozzetti inediti dell'opera,quello che si ritiene essere il drago simbolo della famiglia nobiliare, il famoso Biscione. Secondo Mario Taddei, il curatore del progetto,sulla base del ritrovamento del disegno preparatorio che lo raffigura,lo si potrebbe invece interpretare come un serpente che striscia verso l'alto quasi a voler uscire dal dipinto. Un serpente che si trova sospeso esattamente sopra la testa del Gesù.

La Lavanda dei piedi è un affresco (200x185 cm) di Giotto,

databile al 1303-1305 circa e facente parte del ciclo della Cappella degli Scrovegni a Padova. È compresa nelle Storie della Passione di Gesù del registro centrale inferiore, nella parete destra guardando verso l'altare.
Nella stessa stanza della scena precedente, l'Ultima Cena, Gesù si appresta a compire un atto di umiltà lavando i piedi degli apostoli, iniziando da Pietro. Un altro apostolo sta slacciandosi i calzari in primo piano a sinistra, mentre Giovanni sta in piedi dietro Gesù reggendo un contenitore con l'acqua. L'annerimento della aureole è casuale e non voluto dall'autore, poiché causato in seguito per ragioni chimiche. Originariamente presentavano una differenziazione gerarchica: a rilievo, dorata con oro fino e con la croce accennata in rosso quella di Cristo, di colore imitante l'oro e con raggi quelle degli apostoli, senza raggi quella di Giuda, che si intravede col mento appuntito e la barbetta tra gli apostoli seduti a sinistra.
Curatissimi sono i dettagli, dal manto con ricami dorati dell'apostolo al centro, ai mosaici cosmateschi che ornano il coronamento della stanza, sul cui tetto stanno due uccelli: sono statue, come dimostra la loro presenza, in posizione identica, nella scena precedente dell'Ultima Cena. A differenza della scena precedente, qui si sono in parte conservati i decori a secco delle pareti. Le vesti degli apostoli creano un colorato insieme di tinte pastello (i colori sono i medesimi per ciascuno nelle altre scene, in modo da renderli riconoscibili a colpo d'occhio), con un uso della luce che amplifica il senso di plasticità e aiuta a comprendere la scansione spaziale dell'ambiente (ad esempio lasciando in ombra la zona sotto il soffitto).

la crocefissione di Cristo di Massaccio

La Crocifissione è un dipinto tempera su tavola di Masaccio, facente parte dello smembrato e in parte disperso Polittico di Pisa, del quale costituiva il comparto centrale superiore. L'opera misura 83x63 cm, risale al 1426 ed è oggi conservata al Museo di Capodimonte a Napoli.

Destinato alla chiesa del Carmine per la cappella del notaio ser Giuliano di Colino degli Scarsi da San Giusto, il polittico di Pisa è l'opera meglio documentata di Masaccio, grazie a un committente particolarmente preciso, che annotò tutti i pagamenti e i solleciti fatti al pittore.

Il 19 febbraio 1426 l'artista era a Pisa a siglare il contratto per la somma di 80 fiorini (con i quali il pittore doveva provvedere anche ai materiali più costosi: l'oro dello sfondo e l'azzurro ultramarino di buona qualità) e, dopo vari solleciti e richieste a impegnarsi in esclusiva all'opera, il 26 dicembre Masaccio riceveva il saldo per l'opera.

Entro il 1568 Giorgio Vasari lo vide e lo descrisse nella seconda edizione delle Vite. Nel corso del XVII o XVIII secolo venne rimosso dall'altare, smembrato e disperso.

La tavola della Crocefissione venne acquistata dal museo nel 1901 come opera di un anonimo fiorentino. Pochi anni dopo Suida lo riconobbe come opera di Masaccio e lo associò al polittico pisano (W. Suida, 1906, pp. 125-127).

La tavola di Capodimonte mostra la scena della Crocifissione con tre "dolenti": la Vergine, san Giovanni e la Maddalena, rappresentata in ginocchio di spalle al centro (riconoscibilissima dal tipico vestito rosso). Quest'ultima è creata quasi unicamente dal suo gesto disperato, mentre allarga le braccia e piega la schiena.

Il Cristo, guardato di fronte, pare abbia il capo completamente incassato nelle spalle, come arreso alla morte. In realtà la tavola va vista dal basso verso l'alto come quando era collocata nel suo sito originario, ed in questa prospettiva il collo appare nascosto dal torace innaturalmente sporgente. Anche il corpo, con le gambe disarticolate dal supplizio, appare sfalsato dalla prospettiva. Masaccio tentò di scorciare in prospettiva il corpo del Cristo, ma l'effetto sperimentale ottenuto fu più maldestro che illusionistico. In ogni caso fu il primo tentativo del genere e ben testimonia il clima sperimentale del primo Rinascimento fiorentino. Boskovits sottolineò l'inedita posizione frontale, molto rara dai tempi del declino del Cristus Triumphans (inizio del XIII secolo).

Il volto brunito di Cristo è colto nel momento del trapasso, quando ha appena pronunciato, rivolto a san Giovanni, le parole «Ecco la tua madre!», con le quali gli ha affidato la Madonna.

La Madonna sta ora immobile ai piedi della croce, le mani giunte che si stringono nel dolore, erta in tutta la sua statura, nell'ampio mantello blu, come impietrita dall'angoscia. Sull'altro lato della croce sta san Giovanni con il capo mestamente reclinato sulle mani congiunte, ed il movimento delle braccia è sottolineato dal blu di una manica che contrasta con il rosso del manto. Ha il volto affranto e sembra sforzarsi per trattenere le lacrime. In alto sulla croce è posto l'albero della vita, simbolo della rinascita: quando Giuda si impiccò, l'albero rinacque.

La scena sembrerebbe immobile - come se con il trapasso di Cristo anche il tempo si fosse fermato - se non fosse per la presenza della Maddalena che vediamo solo di spalle, i lunghi capelli biondi disciolti sul suo manto scarlatto, e pare aver fatto da poco irruzione nella scena ed agitarsi scomposta dal dolore.

Inginocchiata ai piedi di Cristo, le braccia aperte e tese al cielo che ricordano i gesti drammatici delle «lamentatrici» nell'antico pianto funebre della tradizione mediterranea, la Maddalena ha, in questa tavoletta di Masaccio, una impareggiabile forza espressiva che segna il culmine del pathos della scena. Roberto Longhi pensò che la figura della Maddalena fosse un'aggiunta leggermente posteriore che si sovrapponeva al piede della croce, come farebbe pensare l'aureola senza decorazioni, che venivano aggiunte in un momento precedente alla pittura della tavola.

 

La Resurrezione di Cristo

è un affresco (225x200cm) di Piero della Francesca, eseguito tra il 1450 e il 1463 circa e conservato nel Museo Civico di Sansepolcro.
Il lavoro è in genere datato agli anni sessanta del Quattrocento, quando Piero lavorava ad Arezzo agli affreschi delle Storie della Vera Croce, con oscillazioni che arrivano però anche agli anni cinquanta. L'affresco si trovava in una sala di quello che era il palazzo del governo cittadino (oggi sede del museo).
Con il risveglio dell'interesse per Piero verso la metà del XIX secolo, la Resurrezione venne riscoperta da viaggiatori inglesi e fu ampiamente lodata nel primo articolo in cui si acclamava Piero come artista di prim'ordine, da Austin Henry Layard nel Quarterly Review. Layard definì il Cristo di Sansepolcro come "dotato di una maestà terrificante e non terrena nel contegno, nei grandi occhi fissi nel vuoto e nei tratti malgrado ciò distesi". Molti seguirono le sue orme e con la costruzione della prima linea ferroviaria per Arezzo a metà degli anni sessanta dell'Ottocento, gli artisti inglesi, che già avevano ammirato il Battesimo di Cristo della National Gallery, si riversavano a vedere gli affreschi di Piero, del quale apprezzavano la "laicità" della sua nuova scienza prospettica e la sua ispirazione che, secondo loro, derivava dall'arte greca, baluardo dei neoclassici. Lo stesso Edgar Degas visitò Arezzo e Sansepolcro, traendo ispirazione per opere come Semiramide alla costruzione di Babilonia, oggi al Museo d'Orsay, o Giovani spartane alla National Gallery di Londra.
L'opera venne lodata anche dallo scrittore Aldous Huxley che nutriva una sconfinata ammirazione per questo affresco, arrivando a definirlo la più bella pittura del mondo.
È noto come le parole di Huxley risparmiarono la città di Sansepolcro dal bombardamento dell'artiglieria alleata durante la Seconda guerra mondiale. Racconta infatti il capitano britannico Anthony Clarke che egli, ordinato il cannoneggiamento della città (nonostante i nemici se ne fossero già ritirati), interruppe il fuoco dopo essersi ricordato dello scritto di Huxley.
La scena è ambientata oltre un'immaginaria apertura, incorniciata da due colonne scanalate, un basamento (dove era presente un'iscrizione oggi quasi del tutto cancellata) e un architrave.
Mentre quattro soldati romani dormono, Cristo si leva dal sepolcro ridestandosi alla vita. La sua figura è al vertice di un triangolo immaginario, che va dalla base del sarcofago alla sua aureola, suggerito anche dalle linee di forza delle pose dei soldati. Cristo si erge solenne e ieratico, e la sua figura divide in due parti il paesaggio: quello a sinistra, invernale e morente; quello a destra, estivo e rigoglioso. Si tratta di un richiamo ai cicli vitali, presenti già nella cultura pagana e citati da vari artisti precedenti, come nell'Allegoria ed effetti del buono e del cattivo governo di Ambrogio Lorenzetti.Piero siede ai piedi del sarcofago e l'asta del vessillo con la croce, lo tiene in diretto contatto con la divinità, come se essa ispirasse il Piero politico. Ci sono delle probabilità, che il vessillo delle crociate sia un riferimento al primo regno di Gerusalemme e alla raccolta delle sue leggi che erano note come lettere dal Santo Sepolcro, il riferimento probabilmente è per avere continuo ed una legittimazione delle decisioni che si prendevano nella sala attigua sede del governo cittadino
Un altro tema è quello del sonno e della veglia, con il contrasto tra la parte inferiore e terrena dei soldati e quella superiore della divinità, che sempre vigila.
La costruzione geometrica della composizione rende le figure astratte e immutabili, quasi appartenenti a un ordine di comprensione superiore. A questo effetto contribuisce la costruzione "atletica" della figura di Cristo, ben eretta e modellata anatomicamente come una statua antica, con un piede appoggiato sul bordo, a sottolineare l'uscita dal sarcofago, e la mano destra che regge il vessillo crociato, emblema del suo trionfo. Egli venne consapevolmente dipinto al di fuori delle regole prospettiche che imporrebbero una veduta dal basso, come avviene per le teste dei soldati. Piero dopotutto aveva piena padronanza di queste tecniche di rotazione dei corpi nello spazio, come ampiamente descritte nel De prospectiva pingendi. Cristo appare così sottratto alle leggi terrene e più che mai vicino all'osservatore.
La linea dell'orizzonte mette in risalto la spalle e la testa di Cristo. Il cielo sullo sfondo è tipico delle opere di Piero della Francesca, sfumato all'orizzonte come durante l'alba e punteggiato da nuvolette chiaroscurate "a cuscinetto".
Nel soldato senza elmo al centro è probabile che sia dipinto un autoritratto di Piero. Dietro di lui si trova la base del vessillo che regge Cristo, quasi a voler indicare un diretto contatto con la divinità, per ispirare il pittore, ma anche l'uomo politico, poiché egli stesso ricoprì più volte incarichi pubblici per la sua città. Nelle vesti dei soldati ricorrono quelle caratteristiche di alternanza cromatica tipiche delle opere di Piero: il rosso è alternatamente colore dell'elmo e dei calzari di un soldato e dello scudo di un altro; il verde ricorre nella cotta di uno, nel mantello di un altro e nei calzari del terzo, ecc

Auguri di Buona Pasqua a tutti voi

 
 
 

A gentile richiesta prosegue l' apertura della piancoteca virtuale

Post n°773 pubblicato il 16 Aprile 2014 da giramondo595

Oggi osserveremo uno spelndido quadro di Jan Vermeer

 

la Ragazza col turbante o Ragazza con l'orecchino di perla è un dipinto a olio su tela (44,5×39 cm) di Jan Vermeer, databile al 1665-1666 circa e conservato nella Mauritshuis dell'Aia
Si tratta di uno dei dipinti più noti dell'artista, anche grazie a un romanzo e un film del 2003 di cui è stato oggetto, La ragazza con l'orecchino di perla
Raffigura una fanciulla volta di tre quarti. Colpisce in particolar modo l'espressione estatica, assolutamente languida ed ammaliante (secondo alcuni carica anche di un innocente erotismo), dello sguardo della giovane modella: sembra sia stato lo stesso Vermeer a chiedere alla ragazza, posta di fronte alla grande finestra illuminata dalla luce naturale del suo atelier, di voltare il capo più volte lentamente, tenendo socchiuse le labbra per produrre questo effetto.
Riemerso dall'anonimato nel 1881 quando il quadro fu messo all'asta all'Aia da un certo signor Braams, fu acquistato ad un prezzo risibile (due fiorini più 30 centesimi di commissione) dal collezionista Arnoldus des Tombe su suggerimento dello storico dell'arte Victor de Stuers. Il quadro nel 1902 fu acquisito dal Mauritshuis dell'Aia in seguito alle volontà testamentarie del des Tombe.
La suggestiva leggenda che circonda questo quadro - e che colora con una punta di sentimentalismo la biografia di un grande pittore del quale si sa tuttora ben poco, e che poco ha lasciato: una trentina di dipinti in tutto e tutti di piccole dimensioni - è stata rievocata per la letteratura nel 1986 dal libro La ragazza col turbante (tradotto in nove lingue) della scrittrice Marta Morazzoni e poi anche nel 2003 per il cinema da un film dal titolo La ragazza con l'orecchino di perla, interpretato dall'attrice Scarlett Johansson ed ispirato al romanzo omonimo del 1999 della scrittrice Tracy Chevalier.L'orecchino con perla del quadro, che cattura quasi da solo la centralità della luce di cui è pervaso il dipinto, è di grandi dimensioni ed è a forma di goccia. Sebbene la ragazza che lo indossa appaia di modeste condizioni, tale monile era al tempo di Vermeer prerogativa delle dame aristocratiche dell'alta borghesia.
La perla è disegnata utilizzando solo due pennellate a forma di goccia separate l'una dall'altra: è l'occhio umano che ha l'illusione di vedere l'intera perla.
Nel XVII secolo le perle erano una preziosa rarità: venivano importate dall'estremo oriente. Nel caso della perla raffigurata nel dipinto, si tratta di un esemplare di grandi dimensioni che, a parere di alcuni studiosi, in natura non esisterebbe. Un aspetto misterioso e leggendario del dipinto, al pari di quello che lo vorrebbe ricavato da una immagine fotografica (si vuole che Vermeer compisse esperimenti con le prime apparecchiature allo studio per riprodurre immagini

 
 
 

5^ giornata di apertura della mia pinacoteca virtuale

Post n°772 pubblicato il 11 Aprile 2014 da giramondo595

Nei giorni precedenti avete potuto ammirare alcune splendide opere,..attraverso le quali abbiamo scoperto il legame tra la pittura e la musica.

Oggi avremo l' occasione di osservare un capolavoro di mattia Preti
San Luca dipinge la madonna con il bambino

 

il dipinto raffigurante San Luca dipinge la Madonna con il Bambino, proveniente dalla chiesa di San Francesco d'Assisi a La Valletta. L'opera, appositamente realizzata per l'altare dedicato a San Luca in occasione dell'istituzione nel 1671 della Confraternita dei pittori, scultori ed indoratori,
appare particolarmente significativo poiché costituisce uno dei rarissimi lavori firmati e datati dall'artista. In basso a destra, infatti, insieme allo stemma del pittore quale cavaliere di Malta, si legge: F(ra') M(atthia) P(reti) F(ecit) - 1671. Il dipinto, che secondo la tradizione riconosce nell'Evangelista il "patrono dei pittori" e gli attribuisce una serie di icone mariane, appare ricco di riferimenti simbolici: dal bue, emblema del Santo, alla figura del putto che gli porge la penna e l'inchiostro in ricordo del suo Vangelo. Sul fondo, oltre alla figura di san Carlo Borromeo in adorazione, è la statua della ninfa Igea, figlia di Esculapio e personificazione della salute, a ricordare che Luca, prima di seguire Cristo, esercitava la professione di medico. Il tema iconografico venne più volte utilizzato dal pittore sebbene mai, come in questo caso, con così grande ricchezza di figure e articolazione della scena. Appositamente restaurato per l'occasione, il dipinto appare più scuro rispetto alla produzione delle grandi pale d'altare degli anni Sessanta e Settanta che il "Cavalier calabrese" produsse per molte chiese maltesi tra le quali la Chiesa Conventuale dell'Ordine di San Giovanni Battista a La Valletta (oggi St. John Co-Cathedral). Gli interventi conservativi che si sono avvicendati nel tempo avevano purtroppo rimosso molte delle velature finali e delle luci che dovevano impreziosire la composizione, perdita a cui non è stato possibile porre rimedio.

Questa opera è stata esposta per circa un mese in vari siti della Regione Calabria, tra i quali il castello di Santa severina, il museo marca di catanzaro ed il museo diocesano di reggio calabria, dove è esposta fino al 28 aprile. il quadro è uscito per la prima volta per gentile concessione dei frati francescani minori di malta in occasione del 400° anniversario dalla nascita del Mattia Preti.

 
 
 

4° giorno di apertura della pinacoteca virtuale

Post n°771 pubblicato il 07 Aprile 2014 da giramondo595

Nel quale osserveremo il Concertino di Pietro Longhi

Il Concertino delle Gallerie dell'Accademia di Venezia, il primo dipinto della nuova "maniera" che porti una data: 1741, "ci trasferisce nell'interno di un palazzo veneziano: una casa patrizia, che annovera fra i suoi membri un procuratore di San Marco. A destra, in alto, se ne scorge il ritratto a figura intera, in parrucca e in veste scarlatta.Pur essendo solo parzialmente visibile, è questo un particolar e decisivo: non soltanto perché connota senza possibilità di dubbio l'ambiente e il rango sociale degli effigiati, ma soprattutto perché Longhi imposta il suo gioco sul confronto per contrasto fra quell'immagine aulica, ufficiale, e i sei personaggi maschili, occupati, tre a tre, al tavolo da gioco e a far musica. Il ritratto del procuratore è per metà fuori campo, reso in modo sommario: un'immagine convenzionale, relegata al margine dello sguardo; mentre gli altri, che stanno sul palcoscenico della vita, si vedono riconosciuta dall'attenzione del pittore un'inequivocabile, se pur minuta individualità. L'attenzione circoscrive, procede alla messa a fuoco di dettagli sempre più piccoli, ma che si rivelano essenziali alla resa del «tono umorale» della scena: come la presenza della cagnolina che par tutta presa, essa sola, dalla musica. Sarà una musica per cani? S'insinua sotto pelle un'intenzione appena di caricatura, che viene in superficie nel personaggio del fratone, preso dal gioco delle carte con altri due ecclesiastici. Non era mai accaduto che l'aristocrazia veneziana si mostrasse nell'intimità come in questo caso: propriamente in vestaglia, tutta presa nei suoi passatempi. Longhi ha varcato la soglia del privato, finora gelosamente custodita.

 
 
 

3° giorno di apertura della pinacoteca virtuale

Post n°770 pubblicato il 03 Aprile 2014 da giramondo595

Oggi osserveremo il quadro di Caravaggio Riposo durante la fuga in Egitto

È conservato alla Galleria Doria Pamphilj di Roma. Il dipinto è un cosiddetto "quadro da stanza", cioè un'opera realizzata per essere posta a ornamento di una dimora privata. Secondo Giulio Mancini, che redasse una biografia di Caravaggio (rimasta a lungo inedita) ben dieci anni dopo la morte del pittore, una "Madonna che va in Egitto" fu commissionata da monsignor Fantino Petrignani, che abitava nella parrocchia di San Salvatore in Lauro a Roma e presso il quale Caravaggio ricevette "la comodità di una stanza" all'inizio del 1594, dopo aver abbandonato la bottega di Cavalier d'Arpino. Tale informazione, però, non ha convinto unanimemente gli studiosi: vista l'importanza data al tema della musica, Maurizio Calvesi ha ipotizzato che l'opera sia stata commissionata da ambienti legati agli Oratoriani. Altri studiosi, invece, ipotizzano che il dipinto sia frutto della committenza del cardinal Pietro Aldobrandini (nipote di papa Clemente VIII) il quale si dilettava di musica. Tuttavia, nell'Inventatario dei dipinti del Cardinal Pietro - redatto nel 1603 da Monsignor Girolamo Agucchi - non vi è traccia dell'opera del Caravaggio.[4] Secondo la recente ricerca di Lothar Sickel, il Riposo apparteneva a Girolamo Vittrici, cognato di Prospero Orsi, amico del Caravaggio; dopo la morte di Girolamo, la sorella Caterina lo vendette a Camillo Pamphilj. È certo, comunque, che il dipinto divenne proprietà di Olimpia Aldobrandini Principessa di Rossano (nipote di Pietro Aldobrandini e sposa - in seconde nozze - di Camillo Pamphilj nel 1640 ) solo più tardi, dopo la morte di Caravaggio Da allora il dipinto appartiene alla famiglia Pamphilj nella cui Galleria è tuttora esposto.
Il colorismo e i molti brani di natura morta presenti in questo dipinto e realizzati con estrema verosimiglianza dimostrano l'adesione del giovane Caravaggio alla cultura pittorica lombardo-veneta. Si veda, ad esempio, il mirabile paesaggio sullo sfondo (unicum nella pittura caravaggesca insieme a quello del Sacrificio di Isacco), la cui trattazione (il cielo cupo, nuvoloso e carico di pioggia) ricorda la Tempesta di Giorgione, pur raffigurando - secondo Maurizio Marini - uno scorcio della campagna sulle rive del Tevere.
Nel dipinto di Caravaggio, la natura e il paesaggio svolgono un ruolo simbolico di rilievo: gli elementi naturali accanto all'anziano Giuseppe rimandano all'aridità e alla siccità, mentre la natura ed il paesaggio sono più rigogliosi a destra, dove si trova la Vergine col Bambino. Ai piedi della Vergine il pittore ha dipinto piante simboliche che alludono alla verginità di Maria (l'alloro), alla Passione (il cardo e la spina della rosa) e alla Resurrezione (il Tasso barbasso). Secondo Maurizio Calvesi, il pittore ha raffigurato - da sinistra a destra - un percorso di salvazione cristiana, dall'inanimato minerale (il sasso) all'animale (l'asino), all'essere umano (Giuseppe), passando per l'angelico (l'angelo violinista), sino alla meta finale: il divino (la Vergine che abbraccia il Bambino Gesù).
Di notevole bellezza è la postura dell'angelo musicista, forse ispirata all'allegoria del Vizio raffigurata nell'Ercole al Bivio che Annibale Carracci stava dipingendo per il soffitto di Palazzo Farnese proprio in quegli stessi anni (l'opera di Carracci è ora al Museo di Capodimonte). Analogamente all'angelo di Caravaggio, questa allegoria indossa una veste leggera che lascia intravedere le forme del corpo nudo.[10] L'angelo è il perno della raffigurazione che divide in due parti distinte la scena: a sinistra il vecchio Giuseppe, seduto sulle sue masserizie e con i piedi nudi posati sul terreno scuro, veglia - stanco - reggendo la partitura affinché l'angelo apparso possa leggere e suonare.
Secondo Maurizio Calvesi, l'intero dipinto si riferisce al Cantico dei Cantici: Giuseppe rappresenta la povertà e la semplicità dello sposo terreno, mentre Maria Vergine, raffigurata con i capelli fulvi ("le chiome del tuo capo sono come porpora", Ct. 7:6), è - per la patristica - un riferimento simbolico alla futura passione di Cristo La Vergine, addormentata, abbraccia e protegge teneramente il Figlio-Sposo celeste e anche ciò richiamerebbe il Cantico dei Cantici: "Io dormo, ma il mio cuore veglia" (Ct. 5:2), e "Ponimi come un sigillo sopra il tuo cuore" (Ct. 8:6 ).
Recentemente, Herwarth Röttgen (noto studioso della grafica di Cavalier d'Arpino), ha individuato un disegno del Cesari per un Riposo nella fuga in Egitto in un gruppo di disegni di Giuseppe Cesari d'Arpino e conservati al British Museum. Il foglio raffigura la Vergine col capo piegato, come nel Riposo di Caravaggio, il quale potrebbe aver visto il disegno mentre si trovava nella Bottega del Cavaliere.Il volto di Maria Vergine è stato da alcuni identificato con quello della celebre cortigiana Fillide, amica del Caravaggio, che sembra abbia posato anche per la Maddalena penitente (Roma, Galleria Doria Pamphilj). Curiosamente, sia Maria Vergine che la Maddalena penitente hanno la stessa posa col capo ripiegato.
Nel 1983, Franca Camiz e Augusto Ziino hanno identificato la partitura dipinta da Caravaggio, la quale riproduce con estrema precisione un mottetto del compositore fiammingo Noel Bauldewijn (1480-1529), basato sul testo del Cantico dei Cantici e intitolato "Quam pulchra es". Il mottetto venne composto e pubblicato nel 1519, ma fu stampato a Roma solo nel 1526.
La partitura non riporta i versi del Cantico (salvo una Q e una L dell'incipit Quam pulchra ), ma solo le note. Come si è detto pocanzi, l'intero dipinto si riferisce al Cantico dei Cantici che, secondo l'interpretazione mariana data dalla Chiesa Cattolica, celebra l'amore mistico dello sposo (Cristo) per la sposa (la Vergine, la Chiesa).
Il violino suonato dall'angelo è stato dipinto con una corda spezzata che starebbe ad indicare, simbolicamente, la precarietà e sterilità della vita umana (simboleggiata da Giuseppe) rispetto all'immortale rigogliosa vita celeste (simboleggiata dalla Vergine e il Bambino). Si tratta di un'allegoria comune nell'iconografia musicale rinascimentale, essa è infatti presente nella S. Cecilia di Raffaello, del 1515, alla Pinacoteca di Bologna, in cui sono raffigurati strumenti musicali rotti ai piedi della Santa.
I dipinti di Caravaggio a tema musicale furono spesso eseguiti su richiesta dei suoi colti committenti, appassionati di musica e della nuova moda del "recitar cantando", diffusa da Emilio de' Cavalieri nella fiorentina Camerata dei Bardi. Dietro la madonna, che si appisola, col bambino c'è uno splendido paesaggio dell' agro romano.

 
 
 
Citazioni nei Blog Amici: 117
 

ARCHIVIO MESSAGGI

 
 << Aprile 2014 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
  1 2 3 4 5 6
7 8 9 10 11 12 13
14 15 16 17 18 19 20
21 22 23 24 25 26 27
28 29 30        
 
 
 

 MESSAGGIO PER I GIOVANI

...Droga e alcool portano alla distruzione fisica e mentale!!! La vita e' troppo bella per essere distrutta dalle sostanze!!!!!! Vogliatevi bene !!!

http://spazio.libero.it/SARA28LUGLIO/

 

 

UN CALOROSO ABBRACCIO A TUTTI VOI

   BENVENUTI NEL MIO BLOG

   BENVENUTI NEL MIO BLOG 

 

 

 

AREA PERSONALE

 

CITAZIONI DI

Beata Madre Teresa di Calcutta


Quello che noi facciamo
è solo una goccia nell'
oceano,
ma se non lo facessimo
l'oceano avrebbe una
goccia
in meno

Non importa quanto
si dà
ma quanto amore si
mette nel dare.


Trova un minuto
per pensare,
trova un minuto
per pregare,
trova un minuto
per ridere.

La peggiore malattia
dell'uomo?
La solitudine.


Le parole gentili
possono essere brevi
e facili da pronunciare
ma la loro eco è infinita.

 

 

GRAZIE AMICI QUESTI REGALI SONO PER VOI

 

          Grazie Solic

 

Grazie diana.fini

 

 Grazie Trappolinax ( Wanda )

Grazie aumania_12 ( Alisia )

Grazie Trappolinax ( Wanda )

grazie STREGAPORFIDIA (Sonia)

questi splendidi regali,
li voglio
dedicare a
tutti voi amici

Aforismi 

Edward Morgan Forster è stato uno scrittore
britannico,autore di racconti brevi,
di romanzi e saggi letterari.
Da alcuni suoi romanzi sono stati
tratti film di grande successo come:
Passaggio in India (1984, regia di David Lean)
Camera con vista (1986, regia di James Ivory),
Maurice(1987, regia di James Ivory)
e Casa Howard (1992, regia di James Ivory).


Se è facile raccontare la vita,
ben più difficile è viverla,
e siamo tutti dispostissimi a
chiamare in causa "i nervi",o qualsiasi
altra parola d'ordine che serva a
occultare i nostri desideri.
( Edward Morgan Forster )

 Albert Einstein è stato un fisico
a soli 26 anni, ha mutato
il modello istituzionale di
interpretazione
del mondo fisico


E' più facile spezzare
un'atomo, che
un pregiudizio
( Albert Einstein )

 

GRAZIE PER I VOSTRI DONI

       Carissimi amici,
       grazie a tutti
       per i vostri doni.
       Questi sono solo
       una piccolissima
       rappresentanza
       della vostra amicizia
       ed affetto.
       sono felicissimo di
       ciò...bacioni
        a tutti

      vivi la vita    

      Grazie agli amci Trappolinax e luce 1001 per
      i bellissimi regali per il compleanno del mio blog

                    

               

 

SAGGEZZA POPOLARE ANDREOLESE

Cu ava focu campau,cu ava pana moriu.
Chi ha del fuoco è vissuto,
chi ha pane è morto a causa del freddo

'A casa mbidìàta,o pòvara o malàta.
La casa ch'è oggetto d'invidia va
incontro a povertà o malattia.

A bbona lavandàra on manca petra.
Ad una brava lavandaia non manca
pietra (su cui lavare).

E cu' t'affìdi, ti nganni.
Sulla persona a cui presti
fiducia ti sbagli (facilmente).

Canta lu gaddru e si scòtula li pinni.
Il gallo canta e si scuote le piume.
(Si dice di persona che di un fatto
non vuole assumersi alcuna responsabilità
e "se ne lava le mani", come Pilato.

Per altri curiosi proverbi andreolesi:

http://www.andreolesi.com/dialetto/proverbi.htm

 

FRASI CELEBRI

Golda Meir, fu una donna politica
israeliana, quarto premier d'Israele
e prima donna a guidare il governo
del suo Paese.

La vecchiaia è come un aereo
che punta in una tempesta.
Una volta che sei a bordo non puoi
più fare niente
(Golda Meir)

Anton Pavlovič Čechov è stato uno
scrittore, drammaturgo e
medico russo.
Laureatosi in medicina,
scriveva novelle di notte.

L' intelligente
ama istruirsi,
lo stupido istruire.
( Anton Cecov )

Non sappiamo cosa può accaderci
in quello strano guazzabuglio che è la vita.
Possiamo però decidere quello che avviene
in noi, come affrontarlo, che uso farne...
ed è questo, in conclusione,
ciò che conta.
( Joseph Fortton )

 

Henry Ford è stato un imprenditore statunitense.
Fu uno dei fondatori della Ford Motor Company,
società produttrice di automobili, ancora oggi
una delle maggiori società del settore negli
USA e nel mondo.

Chiunque smetta di imparare è vecchio,
che abbia venti o ottant'anni.
Chiunque continua a imparare resta
giovane. La più grande cosa
nella vita è mantenere la
propria mente giovane.
( H. Ford )

Riflessioni sul Tempo ... Il passato rivive ogni giorno perché non è mai passato. (Proverbio Africano); Il tempo è un grande maestro, ma sfortunatamente uccide tutti i suoi studenti. (Hector Berlioz);        Una briciola d’oro non può comprare una briciola di tempo. (Proverbio Cinese);                                            Quando ogni uomo avrà raggiunto la felicità, il tempo non ci  sarà più. (Fëdor Dostoevskij)Il tempo che ti piace buttare, non è buttato. (J Lennon )Un giorno senza un sorriso è un giorno perso.(Charlie Chaplin) L'unica cura per l'acne giovanile è la vecchiaia.( Totò )Ogni minuto muore un imbecille e ne nascono due. ( Eduardo De Filippo )Chi vive troppo tempo in un luogo perfetto finisce per annoiarsi. (Paulo Coelho)

 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963