Creato da RachelDavidson il 20/09/2013

Ti Racconto

Ricordi ed emozioni da raccontare

 

 

PER SEMPRE...

Post n°14 pubblicato il 28 Novembre 2013 da RachelDavidson
 

Rosella era una vecchina piccola piccola, di quelle con le gambe storte a cavallo, deformate dall'artrosi, l'età e la fatica; le gonne appese, scambiate dall'usura, il maccaturo nero in testa a coprire le trecce arrotolate ai lati sopra le orecchie tenute su da un intruglio d'altri tempi fatto col bianco d'uovo; la schiena piegata sotto un peso invisibile e per scarpe un paio di stivaletti da uomo, alti alla caviglia, più grandi del suo piede.

Camminava a scatti, con un braccio dietro la schiena e l'altro aiutandosi col bastone, guardandosi intorno a stento con gli occhi resi opachi dalla cataratta e coperti in parte dalle palpebre cadenti.

La conoscevano tutti in paese, ma nessuno sapeva con precisione la sua età, neanche i nonni che si divertivano a raccontare che era già così vecchia quando erano solo dei bambini.

Sono cresciuta col mito di Rosella, questa donna minuscola, che restava seduta sugli scalini esterni della sua casa quasi tutto il giorno a guardare noi bambini che giocavamo sul piazzale, la gente che passava, le donne che salutavano con un movimento del capo impercettibile.

A mezzogiorno si alzava aiutandosi con le mani, salendo carponi lo scalino superiore, si aggrappava al bastone con le mani come artigli di rapaci e scompariva nel portone della sua casa, per uscirne più tardi nel pomeriggio. Ripeteva il medesimo rito per la cena e non la vedevamo più fino al giorno dopo. Di tanto in tanto scompariva lungo la stradina di terra battuta che portava in campagna protetta da alberi e cespugli o a volte arrancava per le stradine del paese. Raramente una donna del paese le faceva compagnia sempre seduta sugli scalini come lei e restavano lì in silenzio a guardare non si capiva bene cosa. Come se ci fosse qualcosa di interessante da osservare in un paese di 500 anime.

Rosella era un mistero e noi bambini ci divertivamo ad inventarci le storie più fantasiose in cui lei era sempre la strega di oltre duecento anni e ce la immaginavamo sempre seduta lì da tempo immemorabile. Nessuno riusciva a spiegarsi come potesse ancora essere autonoma, vivere da sola, andare in campagna e tornare viva.

Non avevamo idea di chi fossero i suoi parenti in un paese talmente piccolo in cui tutti, a voler scavare nel passato, lo erano più o meno fino alla settima generazione. Un pomeriggio ne sentii parlare mio nonno e mia madre. Mio nonno raccontò di una sua nipote che abitava a Sessa Aurunca, a pochi chilometri dal paese, ma che in pratica l'aveva abbandonata. Forse un figlio ma non si sapeva se ancora vivo. Mio nonno, dopo un rapido calcolo, sentenziò che doveva per forza avere oltre 100 anni.

Quando mia nonna mi chiamò quel pomeriggio non immaginavo che presto tutta questa curiosità sarebbe stata colmata:

“Lella, devi andare da Rosella” sgranai gli occhi. Una bambina di 10 anni non può avere il coraggio di affrontare la strega malefica da sola. Notando il mio silenzio, mia nonna mi guardò.

“Hai capito?”

“Sì...” le risposi quasi balbettando “Perchè io?”aggiunsi come se fossi destinata ad un sacrificio umano.

Mia nonna sorrise “Devi andare a prendere il criscito. Non ce l'ha né zia Clo, né zia Giuseppina e devo fare il pane. Ce l'ha Rosella”. Il tono non ammetteva repliche.

In pochi secondi furono molteplici le domande che attraversarono la mia mente, ma l'idea che mia nonna avesse in qualche modo una forma di relazione con Rosella di cui io non ero a conoscenza e che non immaginavo minimamente, mi sconvolse.

C'era poco da discutere. Mi voltai e mi incamminai controvoglia verso la casa di Rosella che era poi al di là della strada.

Rimasi davanti a quel portone oscuro per qualche minuto. Cosa sarebbe accaduto di me una volta dentro? Mi feci coraggio e bussai. Dopo un po' sentii uno strascicare di piedi, un rumore di serratura ed il portone si aprì con un cigolio sinistro. Rosella apparve e dietro solo buio.

“Sono la nipote di Angela” Buon segno: la voce non mi mancava. Avrei potuto urlare.

Mi guardò senza vedermi, almeno così mi parve.

“Ah sì! Trase trase... “ e si voltò facendomi cenno di seguirla. La seguii invece con lo sguardo e la vidi scomparire dietro una porta.

Entrai in un ambiente buio e freddo, con il tavolo in primo piano coperto dalla classica incerata, una cucina economia e una stufa nell'angolo, il lavello sospeso e un vecchio frigo. Dall'altra parte della stanza il camino era acceso ed eravamo in agosto. Su un mobile che doveva avere la sua età, due foto entrambe color seppia invecchiate dal tempo. Mi avvicinai e le presi per vederle meglio. In una, un uomo in divisa, circondato dall'effetto sfumato, nell'altra lo stesso uomo sempre in divisa con una donna in abito da sposa stile anni '20, in piedi e immobili in una posa innaturale.

“Chill' era maritem' “

Sobbalzai. Rosella era tornata ad una velocità inaspettata.

Mi voltai e la vidi sorridere. Non l'avevo mai vista sorridere. Era completamente sdentata e le labbra rinsecchite sembrano rinchiudersi sul vuoto.

Poi capii perchè sorrideva: non guardava me, ma la foto.

“E' morto?” Le chiesi con incredibile forza, ma in quel momento mi accorsi che piano piano la paura verso Rosella andava scemando. Quel sorriso l'aveva modificata da strega misteriosa a semplice donna troppo anziana e troppo sola.

“E' muort' inta a' GRANDE GUERRA” e lo disse con sorprendente enfasi.

“Ce simm' maritati, poi è ghiuto a' vuerra ed è muort'. I tedeschi..” e sputò sul pavimento.

“Uommene e' niente i tedeschi! L'aggia' aspettato per anni...riciven' che caccheruno era sperduto in Russia...i' speravo che era là.... ma è muorto. So' rimasta sola co' nu creaturo e pur'iss' po'm'ha lasciato sola. C'aggià fa... o' restino mio è stato chist'. ”

In due minuti mi aveva riassunto la storia della sua vita, senza minimante parlare di sé, con la stessa lucidità e distanza con cui intere generazioni contadine avevano sempre affrontato la distruzione dei propri raccolti dopo una tempesta improvvisa. Generazioni rafforzate dall'essere schiavi degli eventi. Una vita che io, nata e cresciuta nel benessere industriale, non immaginavo potesse esistere.

Poi frettolosamente mi mise in mano un recipiente coperto da uno strofinaccio da cucina, prendendomi le foto dalle mani per rimetterle al loro posto:

“Tiè, chist' è o' criscito. Ric' a nonneta che aropp' nun me serve.”

E si avviò verso il portone per aprirlo. La luce tagliò quel buio freddo e antico che però non mi faceva più paura.

Le feci un sorriso e tornai a casa con il mio paccotto e nel cuore una malinconia fortissima. Il mio cuore di bambina era tracimato davanti ad una donna straordinaria che era andata avanti nonostante tutto, con il suo amore nel cuore.

Rosella morì pochi mesi dopo, nel sonno,  disse mia nonna. Non vedendola sui gradini per tutta la mattina decisero di andare a vedere se le fosse successo qualcosa. Le donne del paese la vestirono con il vestito tradizionale più prezioso, con dieci sottogonne e la camicia rifinita di pizzo fatto a mano che ancora conservava nell'armadio e tutti gli anziani del paese andarono al suo funerale. Nessuno seppe come avvisare la nipote né seppe mai se lo avesse saputo in qualche modo anche in futuro. La sua casa venne chiusa e nessuno vi entrò mai.

Oggi mi capita a volte di esprimermi sull'amore eterno e da donna disincantata che sono diventata dico di no, categorica, senza possibilità di ripensamenti. Non esiste nulla per sempre, non scherziamo! Ma subito dopo ripenso a Rosella, al suo amore fermo nel tempo, ai tanti anni in solitudine aspettando di rivedere l'uomo che aveva amato e sposato e mi mordo le labbra....

 
 
 

ANNA

Post n°13 pubblicato il 24 Novembre 2013 da RachelDavidson
 

Il vento scuoteva i rami, le finestre, i capelli, raccogliendo da terra ogni cosa al passaggio e portandolo in aria. Le foglie restavano sospese in un giro di danza per poi planare a terra,rimanendo immobili come lasciate da un fantasma giocherellone. I fogli prendevano a volare con le ali spiegate, come gabbiani, in un dolce ondulare, lasciandosi trasportare verso méte sconosciute. Tutto quel vento invadeva ogni angolo della città, correva, saltava, si girava e riprendeva la corsa. Di tanto in tanto un rumore sordo, violento, riecheggiava da un punto imprecisato. Una finestra o forse una porta, che nessuno aveva bloccato, sbatteva al vento.

Alessandro era fermo in macchina, aspettando che scattasse il verde, e si sentiva un astronauta dentro una navicella spaziale protetto da un'atmosfera ostile.

Non sentiva freddo, ma lo percepiva attraverso quello degli altri che vagavano fuori dalla sua navicella, mentre lottavano contro il vento, le spalle leggermente alzate, le mani a proteggersi il collo o nelle tasche o a cercare di trattenere lembi di stoffa che scappavano al controllo.

L'ultima volta che aveva dovuto lottare contro il vento, il vento era l'ultimo dei suoi pensieri.

Il volto di Anna gli tornò alla memoria, ridefinendosi nei contorni, via via che si concentrava su di esso. Quel viso a lui tanto caro, che aveva tante volte accarezzato e baciato. I suoi occhi neri, il naso dritto come una dea greca, le labbra carnose sempre appena socchiuse e quei capelli neri che seguivano il muoversi del vento, le coprivano il volto per poi scoprirlo di nuovo e che miracolosamente si adagiavano ubbidienti sulle sue spalle, per poi riprendere a volare.

Ricordò entrambi fermi sul ciglio di una roccia, ai piedi di un antico faro bianco, oramai in disuso. Il mare sbatteva rabbioso sul fondo della scogliera, quasi a volerli raggiungere. Ci provava forte,risaliva, si arrampicava e poi si lasciava andare pronto a riprendere la rincorsa. Lui cingeva Anna da dietro e lei era adagiata su di lui,serena, completamente priva di difese, entrambi osservando l'orizzonte, nella speranza di rendere infinito quel momento proprio come infinito appariva il mare.

Anna si voltò di scatto:

“Sai che non funzionerà!”

“Proviamo! Non abbiamo nulla da perdere. Ti prego – le disse con il tono più dolce possibile. Poi dopo una pausa – Ti amo” Fissando i suoi occhi. Non avrebbe mai più dimenticato quegli occhi.

“Ho paura di sperare ancora, Alessandro. Io.... sono...pronta”

Pronta... come si può essere pronti a morire? Pensò.

“Allora non sperare, ma proviamoci. Ti sto chiedendo di fare un tentativo, l'ultimo. Poi, comunque andrà, partiremo per gli Stati Uniti, come hai sempre desiderato, senza aspettare il risultato. Solo noi due, in un viaggio coast tu coast, per tutto il tempo che vorrai...”

“...che potrò” lo interruppe lei.

Lui fece uno sforzo disumano e le sorrise “...va bene, che potrai”

Non partirono mai per gli Stati Uniti. Il cancro al cervello fu più veloce di quanto si aspettassero ed Anna morì due settimane dopo, mentre lui le teneva le mani, pochi minuti dopo averle chiesto di sposarlo, pochi minuti dopo che lei gli aveva risposto di sì.

Un'orchestra di clacson lo riportò nella sua navicella spaziale. Il semaforo doveva essere diventato verde nel frattempo, ma le lacrime non gli permettevano di distinguerne i contorni. Decise di fidarsi dei clacson e partì, asciugandosi rapidamente gli occhi.

Anna era rimasta indelebile nel suo cuore. Si era sentito dire negli ultimi due anni centinaia di volte che la vita doveva continuare, che Anna avrebbe voluto vederlo felice e che non era giusto che un uomo giovane, affascinante e con una carriera davanti rinunciasse ad avere un amore, una vita. Aveva incontrato altre donne, certo, alcune persino imposte dagli amici, ma nessuna era Anna.

Se l'avessero conosciuta come aveva fatto lui, se avessero capito quanto fosse speciale ed unica, si sarebbero risparmiati tante parole inutili.

Anna che rideva, Anna che lo baciava, Anna che lo prendeva in giro, Anna che lo amava, Anna che preparava i suoi pranzi improbabili... tutto, ogni cosa, di Anna era speciale.

Guidava e le lacrime non smettevano di scendere. Ogni volta che rimaneva solo e si lasciava andare ai ricordi, una lama tornava a contorcersi nell'anima e il dolore riaffiorava. Faceva sforzi disumani per non far capire nulla a chi gli stava accanto, ma da solo... da solo era impossibile dimenticare.

Fece un lungo giro per arrivare al lavoro per avere il tempo di riprendersi.

Parcheggiò al suo solito posto e spense il motore rimanendo a fissare gli effetti del vento.

“Promettimelo” la voce di Anna, appena un sussurro, gli tornò alla mente.

“Promettimelo o giuro ti nasconderò le chiavi o ti farò tutti i dispetti possibili” accennando un sorriso.

Gli aveva sempre detto, mentre pensavano alla sua morte, che come fantasma sarebbe stata ancor più impossibile che da viva. Ed ora che insieme aspettavano il momento, lei volle da lui una promessa.

“Promettimi che sarai felice anche senza di me”

Aveva sempre evitato di ricordare quelle parole. Gli procuravano più sofferenza del fatto di averla persa. Eppure lui aveva promesso, ma mantenere quella promessa era la cosa più difficile che avesse mai provato a fare nella sua vita.

Allungò la mano per tirare fuori la chiave dal cruscotto, ma la chiave non c'era. Si frugò nelle tasche, guardò sul sedile, a terra, ma la chiave non c'era. Scese dall'auto e si chinò per cercarla sotto il sedile, ma niente, la chiave sembrava essersi volatizzata. Aprì lo sportello posteriore e cominciò a cercare dietro pensando fosse scivolata, ma niente. Si frugò di nuovo in tasca e ancora niente. Si spostò dal lato passeggero cercando a terra sul tappetino e di nuovo sotto al sedile, ma niente.

Eppure non era mai sceso dall'auto, non sapeva più dove cercare. Intanto il vento si era impossessato dell'auto aperta, scivolando al suo interno e creando un sibilo ad ogni passaggio. Rimase in piedi frugandosi ancora. All'improvviso sentì un tintinnio provenire dall'interno della sua auto. Si concentrò per capire da dove provenisse, sedendosi nuovamente al posto di guida. Il tintinnio allora gli sembrò più vicino. Abbassò lo sguardo e vide il Cupido d'argento che gli aveva regalato Anna come portachiave, sbattere scosso dal vento contro il cruscotto, dondolando dalla chiave della macchina, lì dove avrebbe dovuto trovarsi fin dall'inizio.

Si lasciò andare sul sedile, fece un lungo sospiro, passandosi le mani tra i capelli e, sorridendo, sussurrò “Anna.... "

 
 
 

Il mio posto nel mondo

Post n°12 pubblicato il 13 Novembre 2013 da RachelDavidson
 
Foto di RachelDavidson

Nei momenti in cui Elena ricordava la sua gioventù, le sembrava di sentire l'odore del mare, il rumore delle onde che si infrangono sul bagnasciuga, le voci attutite dei bagnanti. Eppure non aveva mai amato particolarmente il mare. Ora più che mai ricordare quei giorni la sosteneva in quel mondo dal cielo grigio e cupo, con l'umidità che si sentiva nelle ossa e ovunque: sulle automobili, sulle strade, addosso. Un mondo che non le apparteneva, che non l'aveva accolta e avvolta, proteggendo e guidando lei, che aveva lasciato il suo passato.

Pensava continuamente al suo status di “immigrata”. Chi decide di lasciare la propria terra di origine lo fa quasi sempre per cercare una vita migliore. Migliore rispetto a cosa? Non si era mai posta questa domanda prima di quel giorno. Forse perchè la nebbia le sembrava più fitta ed il freddo più tagliente del solito. Si era sempre sentita tagliata in due: una parte piena di curiosità ed entusiasmo per questa nuova terra ed una parte con le radici ben piantate lontano da lei, il cui unico legame erano, appunto, i ricordi. Elena faticava a tenere vivi i ricordi dopo tanti anni. Rivedeva le foto, conservava oggetti e qualunque cosa potesse tenerla legata al passato, alla sua terra, alla sua infanzia. In una sorta di schizofrenia, pur rimanendo legata a quei luoghi, sapeva che mai vi sarebbe tornata per viverci, perchè, dopotutto, il motivo per cui era andata via era ancora inattaccabile.

In questo suo recupero certosino del tempo passato, aveva notato però di cominciare a perdere pezzi. Luoghi, nomi, avvenimenti, tornavano alla memoria ora con difficoltà come se il fatto di essere lontani da persone o situazioni che potessero rinnovarne i particolari, diluisse i ricordi. Non ricordava più i nomi dei suoi compagni di scuola del liceo, ad esempio, o come si chiamasse quel certo ristorante dove era stata con il suo primo vero fidanzato o come si chiamasse la vicina di casa, una deliziosa vecchina che le aveva fatto spesso da baby sitter. E poi cominciava ad essere insofferente alla nebbia. Si immaginava su una spiaggia, d'inverno, che anche neimomenti più cupi le sarebbe stata di conforto. Forse era la possibilità di protrarre lo sguardo verso l'infinito che dava un senso di potenza, quella sensazione di abbracciare lo spazio, toccando la terra a contatto del mare che sembrava estendersi senza limiti. Ora la nebbia le bloccava la visuale a cinque metri da lei con una sensazione di impotenza che non lasciava spazio ad illusioni .Braccata nel tempo e nello spazio. Perchè la nebbia non lascia intravedere neanche il sole, perchè il suo movimento potesse inconsapevolmente dare la percezione dello scorrere del tempo.

Come risvegliata da uno stato di trans, all'improvviso i suoni ed i rumori della città divennero prepotenti. Si sentiva sola, ma non quella solitudine malinconica che conduce alla prostrazione o a pretendere pietà, piuttosto con la piena consapevolezza e fierezza di esserlo. Era una donna autonoma, con un lavoro soddisfacente e la stima dei suoi colleghi. Gli unici legami appartenevano al suo passato, ben distinti dal presente. Eppure quel dannatissimo giorno sembrava voler mettere in discussione gli ultimi anni della sua vita, le sue scelte, persino le sue priorità. Ad ogni passo rivedeva il mare, tornava a percepire i suoni e gli odori della sua terra e quella sensazione non le piacque affatto, perchè le persone felici di essere dove sono si svegliano entusiaste al mattino, sono proiettate al futuro, sono frizzanti e indistruttibili, ma Elena non si sentiva così quel giorno.

“Mi scusi”

La voce di un uomo attirò la sua attenzione ed in una frazione di secondo vide la sua borsa a terra ed il bus che aveva atteso per tutto il tempo, passare davanti ai suoi occhi.

Si chinò a raccogliere la borsa, ma una mano incrociò la sua.

“Mi scusi”

Di nuovo quella voce, ma questa volta la voce aveva anche un volto che sorrideva.

“Oggi non ne faccio una buona!” e le passò la borsa che nel frattempo, almeno lui, era riuscito a prendere.

Elena prese la borsa e si voltò oramai decisa ad andare a piedi.

“Mi lascia così?”

Si girò e lo vide in piedi con le braccia a mezz'aria el'espressione di chi se la divertiva tanto.

“Prego?” Gli disse Elena

“Mi spiace se l'ho urtata, sono stato scortese, ma merito almeno un saluto, o no?”

“Mi perdoni, vado di fretta, ho appena perso il bus”

“Posso darle passaggio?”

“No, grazie” rispose a malincuore Elena.

“Mi chiamo Roberto” si presentò lui e le porse la mano.“Elena, piacere” rispose lei “ora scusami Roberto, ma devo andare”

“Posso offrirti un caffè per farmi perdonare?”

Elena lo guardò attentamente per la prima volta. Osservò attentamente quest'uomo affascinante, in giacca e cravatta, gli occhi profondi ed il sorriso da star e si chiese per una frazione di secondo che male avrebbe fatto per una volta telefonare in ufficio per dire che sarebbe arrivata tardi e godersi una piacevole compagnia, ma altrettanto rapidamente le venne in mente un'idea assurda.

“Roberto tu ami il mare?” lui la guardò perplesso

“Sono curiosa di saperlo”

“Certo, io amo il mare... ma perchè mi fai questa domanda?”

“E perchè vivi qui se ami il mare?”

Doppiamente perplesso Roberto però rispose “Perchè qui sono nato e cresciuto, ho la mia famiglia... ma scusa non capisco... “

Ed io allora perchè vivo qui? Si chiese Elena. Finalmente capì.

Si avvicinò a Roberto e lo baciò sulla guancia. Si sentì improvvisamente vitale come un leone!

“Grazie Roberto! Ti auguro ogni bene”

Gli fece un sorriso e si voltò procedendo rapida verso casa. Rideva, saltava ed il cuore batteva come impazzito perchè avevacapito.

Il suo posto non era lì, non lo era mai stato. Il suo posto era acasa, lì dove il mare si estende oltre l'orizzonte.

 
 
 

UN AMORE, UNA STORIA - Fine (?)

Post n°11 pubblicato il 25 Ottobre 2013 da RachelDavidson
 
Foto di RachelDavidson

Giulia cercò avidamente la lettera successiva. Quell'incontro doveva aver sconvolto gli equilibri di quell'amicizia forte ed al contempo ambigua tra due donne che vivevano entrambe una situazione ed un momento storico non facile, perché la prima lettera fu di Leda, inviata a Cecilia solo mesi dopo.

 

20 febbraio 1940

Cecilia, cara

ti prego, ti supplico, scrivimi. Dimmi parole terribili, maltrattami, feriscimi, se riesci più di quanto non abbia fatto a te, ma questo silenzio non mi fa respirare, non riesco a vivere. Tu sei per me il mio unico riferimento, la mia unica ragione di vita e non posso sopportare l'idea di perderti. Da quando ti ho conosciuta la mia esistenza ha assunto un nuovo significato e l'unica cosa che mi dà la forza di andare avanti è l'attesa di una tua lettera, di un cenno del tuo affetto.

Io ho sbagliato, mia cara, lo so. Ho ceduto ad un tuo momento di debolezza e ho lasciato che i sensi mi sopraffacessero, ma poterti abbracciare, accarezzare, stringerti a me in quel momento di totale tua vulnerabilità non è stato per prevaricarti, ma per proteggerti e consolarti.

Tu hai donato a me i tuoi segreti, ma io non sono stata altrettanto sincera. Ho sempre temuto che tu non potessi capire, che mi avresti giudicata e allontanata.

Ti ho amata dal primo momento che ti ho vista. Ti ho amata in segreto, in silenzio, celando la mia reale inclinazione così come faccio da anni, vergognandomi di ciò che sento di essere, ma che non potrò mai essere. Averti così vicina e bisognosa di affetto, ha liberato i miei timori e non ho desiderato altro che dare a te quell'amore che meriti attraverso il mio. Devi credermi, non volevo farti del male, non volevo sconvolgere la tua vita già così terribile al fianco di un uomo crudele. Non voglio perderti Cecilia, ma ti chiedo solo, prima di allontanarmi da te, prima di odiarmi per sempre, di scrivermi.

Perdonami se puoi

Leda

A seguire solo poche righe di risposta, gelide come il marmo.

7 marzo 1940

Leda,

mia dolcissima Leda, lasciami del tempo. Ho bisogno di riflettere. Ti chiedo di lasciarmi il tempo di capire. Mi farò viva io, non dubitarne. Non rimarrò nel silenzio e non lascerò te nell'oscurità.

Cecilia


poi ancora un semplicissimo telegramma

20 marzo 1940

Sarò a Milano solito posto il 22 marzo STOP Cecilia

Giulia si lasciò andare. Tutto ciò che avvenne o non avvenne durante il loro incontro si intuiva dalla prima lettera che aveva letto e che era anche l'ultima di quel periodo. Probabilmente si erano chiarite ed avevano dato libero sfogo al loro amore, ritrovandosi non solo nel corpo, ma anche nell'anima. Le uniche altre comunicazioni scritte tra la nonna e Leda furono il telegramma attraverso il quale Leda era stata avvisata della morte del nonno e qualche cartolina: Parigi, Istanbul, Praga inviate dopo la fine della guerra. Il telegramma conteneva in sé tutta la rabbia di una donna che finalmente era stata liberata da un incubo.

6 agosto 1941

Lupo cattivo morto STOP Cappuccetto Rosso finalmente libera STOP Felice STOP

Ma perchè nonna Cecilia aveva conservato tutte le loro lettere? Chi era Leda? Cosa avvenne dopo, per tutto il tempo della guerra? Non ricordava nulla a proposito di una donna con questo nome nella sua infanzia, per cui avevano smesso di frequentarsi o anche solo di avere contatti. Perchè? Forse sua madre ricordava poteva ricordare qualcosa di più su questo nome. Giulia sentiva che non poteva fermarsi alla semplice lettura di poche lettere nascoste in un vecchio baule. Doveva esserci di più perchè quella storia non rimanesse solo un momento di debolezza, ma una storia d'amore. E Giulia voleva e sentiva fortemente che lo fosse.

 
 
 

UN AMORE, UNA STORIA - parte 3

Post n°10 pubblicato il 19 Ottobre 2013 da RachelDavidson
 
Foto di RachelDavidson

2 dicembre 1939

Leda amica mia,

ho bisogno di te e del tuo conforto. Sono stanca di tutto quanto mi accade da anni oramai. E' ora che ti confessi la mia tortura, la mia sofferenza. Questa notte, Leda, come tantissime notti nella mia vita, ho vissuto il mio incubo peggiore. Sono la schiava di un uomo violento, insensibile, perverso e purtroppo non posso fare altro che subire. Prego ogni giorno che l'uomo che ho sposato possa uscire un giorno e non tornare mai più, che il Signore ponga fine al mio dolore. Perchè lui mi fa tanto male, Leda, ma non oso ribellarmi altrimenti sarebbe la mia rovina e quella dei miei figli. Nessuno mi crederebbe, ma tu sì mi crederai, ne sono certa. Non so come dirti di questo, quali parole usare, ma io voglio che tu capisca, che tu sappia, che non ci siano più segreti tra noi. Per cui perdonami se ti potrò sembrare a tratti troppo volgare, ma non ho altro modo per dirtelo.

Lui è il demonio. Non sono mai stata amata, ma posseduta. Mi prende ogni volta con forza ed il suo piacere aumenta con l'aumentare del mio dolore. Questa notte è stata terribile. Mi ha picchiata selvaggiamente e quando mi ha vista riversa sul pavimento, piangente e sanguinante, mi ha strappato la camicia da notte, mi ha girata sul pavimento a pancia in giù, mi ha denudata e mi ha presa per le terga. Non lo aveva mai fatto prima d'ora, per me è stato un dolore atroce. Per non far udire le mie urla mi ha stretta la camicia da notte sulla bocca e a stento riuscivo a respirare. Non sufficientemente pago, nel mentre perpetuava la sua tortura, continuava a picchiarmi, mi dava pizzichi, mi teneva le braccia girate e bloccate con forza per non farmi muovere.

Leda, è appena accaduto. Ho atteso che si addormentasse e sono corsa a scriverti. Dovevo dirtelo!! Sento che solo il tuo affetto può aiutarmi.

Ci sono volte in cui accende quei suoi maledetti sigari e si diverte a bruciarmi i capezzoli, devi sentire le sue risate, il suo godere e vedere il suo volto pieno di soddisfazione. Altre volte mi lega e mi penetra con la forza ordinando di ribellarmi. Non ce la faccio più. Respiro solo quando va via giorni per lavoro ed allora torno serena. Ha concepito i nostri figli in una di queste notti aberranti e per tutto il tempo della gravidanza ha preteso mi concedessi anche se avevo dolore. Non so come sia riuscita ad avere i miei due figli, perchè altre tre volte li ho persi, per la sua perversione. Mi penetra con degli oggetti ed il dolore è tale che più volte mi è capitato di svenire. Al medico dice che cado malamente o altre volte mi vieta di chiamarlo, quando sarebbe troppo imbarazzante spiegare le mie ferite, come quella volta in cui sono rimasta a letto per giorni con un'emorragia devastante. Non capisco dove io trovi tanta forza per sopravvivere a tutto questo. Non sai quante volte ho desiderato di morire, ma poi penso che i miei figli rimarrebbero soli nelle sue mani ed allora tengo duro.

Leda, mio unica luce in questo buio, vorrei tu fossi qui. Mi lascerei andare tra il conforto delle tue braccia, dimenticando tutto questo orrore. Quando potremo vederci di nuovo Leda? Ti prego, vieni da me.

Ti voglio bene, Cecilia

Il nonno! Giulia piangeva bagnando la lettera ingiallita e portatrice di quel segreto atroce. Il nonno, morto ad un anno dall'inizio della guerra, un mito per sua madre, l'uomo importante della politica fascista che aveva dato onore e ricchezza alla famiglia. Quanto dolore doveva aver patito sua nonna tacendo e regalando ai propri figli una visione di quell'uomo che nulla aveva a che fare con la realtà? Ora capiva perchè non vi erano foto in quella casa del nonno, non c'erano mai state. Nonna Cecilia aveva sempre raccontato che non amava farsi riprendere, fuggendo dalle già poche occasioni di essere fotografato.

La risposta di Leda, fu un telegramma.


15 dicembre 1939

Arrivo 18 dicembre STOP Alloggerò Hotel Victoria STOP Leda

 

 
 
 
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