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Lo Stato, Gomorra e il Divo

Post n°447 pubblicato il 15 Luglio 2008 da rainine

In questi giorni sono in fase di proiezione nelle sale cinematografiche italiane due film che stanno ottenendo un significativo successo di critica e di pubblico, dopo i clamorosi consensi e i premi raccolti al festival di Cannes. Mi riferisco a “Gomorra” e “Il Divo”.

Il mio articolo non pretende di essere una recensione cinematografica, ma solo una riflessione sugli aspetti più grotteschi e surreali insiti nella storia, nella natura e nella struttura del potere in Italia. Un’intenzione che, forse, potrebbe risultare velleitaria.

Provo a spiegarmi con una domanda apparentemente assurda e provocatoria. Qual è l’anello di congiunzione tra “Gomorra” e “Il Divo”? La risposta è facile: lo Stato.

Naturalmente...

non mi riferisco allo stato tout court, in generale, ma allo Stato italiano. Ma cosa è storicamente lo Stato italiano? Quali sono la sua origine e la natura reale?

Ebbene, se si pensa che l’opera della cosiddetta “unificazione nazionale” si è compiuta nel corso delle guerre “risorgimentali” che furono imprese di conquista coloniale; se si considera che tale processo storico si deve soprattutto a due tendenze occulte e cospirative quali la massoneria e la mafia, è facile dedurre sillogisticamente che  la creazione dello Stato italiano è avvenuta sotto l’egida di poteri occulti, eversivi e reazionari. Ancora oggi lo Stato italiano si regge fondamentalmente sull’intreccio e sul connubio tra vari gruppi di potere affaristico-criminale come la mafia e la massoneria.

Lo Stato italiano è lo Stato massonico-mafioso per antonomasia.

Lo Stato italiano, inteso come istituzione ufficiale, è l’involucro esterno sorto a protezione del peggiore capitalismo economico-affaristico di origine criminale, ossia di matrice massonico-mafiosa. Il capitalismo italiano è un sistema di accumulazione affaristico-finanziaria che fa capo alle forze più occulte, eversive e reazionarie appartenenti alla borghesia nazionale, in grado di condizionare e decidere la vita e il destino dell’intera società e della fragile e monca “democrazia” italica.

Non è un caso che l’intreccio (o il sodalizio, che dir si voglia) tra criminalità mafiosa e camorrista, da un lato, e criminalità massonico-piduista, dall’altro, costituisca un elemento costante e ricorrente nella storia italiana contemporanea.

Non è un caso che riscuotano uno straordinario successo artistico e commerciale due film quali "Gomorra" e "Il Divo", due opere cinematografiche che suggerisco di vedere.

 
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Spagna nucleare: un incidente dopo l'altro

Post n°446 pubblicato il 15 Luglio 2008 da rainine

Brutto momento per il nucleare iberico: quattro degli otto reattori nucleari spagnoli hanno registrato disfunzioni in meno di 72 ore, come scrive il quotidiano El Paìs. Per motivi differenti, e con conseguenze sulle quali nessuno si pronuncia in modo corretto, gli incidenti si sono prodotti tra sabato e martedì scorsi. Critiche le organizzazioni ambientaliste, secondo le quali è colpa della pessima cultura della sicurezza con la quale Iberdola e Endesa, proprietarie delle quattro centrali colpite, gestiscono gli impianti.

A questo si aggiunga che il parco nucleare spagnolo è molto vecchio, come mette in guardia Greenpeace, in un comunicato. Il "Consejo de Seguridad Nuclear" (Csn), organismo che controlla la sicurezza atomica, attribuisce gli incidenti ad una "sfortunata casualità". I proprietari delle centrali hanno sminuito l'accaduto, sottolineando che la sicurezza delle installazioni non è stata colpita. Tre degli incidenti registrati...

sono avvenuti in tre reattori situati a Tarragona, nel nord-est della Spagna, gestiti dalla Associazione Nucleare Asco-Vandellos (Anav), i cui proprietari sono Iberdola e Endesa. Ancora una volta, si fa la corsa a dichiarare che non ci sono stati pericoli per le persone e per l'ambiente, ancora una volta è partita, come avviene ovunque nel mondo, la corsa alla minimizzazione.

La Spagna si era già trovata nella bufera (nucleare) qualche mese fa: la centrale nucleare Asco I ha avuto una perdita radioattiva verso la fine di marzo, ma il Consiglio di Sicurezza Nucleare è stato avvisato solo il 4 aprile. Le polemiche sono nate dal fatto che quello stesso giorno, durante la fuga radioattiva, era presente nell'impianto una scolaresca in visita. Secondo Greenpeace una parte della perdita è fuoriuscita dalla stazione. Il ministero della sanità spagnolo è entrato in azione immediatamente: a causa dei rischi di contaminazione ora dovranno essere sottoposte a screening oltre 2600 persone. Per questo l'azienda esponsabile, l'Endesa, verrà multata. Ora il reattore è fermo per permettere di ripulire il sito. Il reattore gemello Asco II era stato fermato nel 2007 per un guasto ad una valvola.

Il 9 giugno, sempre ad Asco I, i tecnici del Consiglio di Sicurezza Nazionale hanno rinvenuto la settimana scorsa degli elementi radioattivi sulla linea ferroviaria situata vicino alla centrale. E ancora, sempre ai primi di giugno, è stato registrato un guasto in alcuni monitor che misurano la radioattività all'interno della centrale. "Il 5 giugno è stata localizzata una particella radioattiva in prossimità delle ferrovie e il giorno dopo ne sono state rinvenute altre due nella stessa zona", ha spiegato Eugeni Vives, portavoce della “Asociacin Nuclear Asco-Vandellos II” (Anav). "Un fatto, questo, legato alla fuga che si è prodotta nel novembre scorso a Asco ma che non ha incidenza nè sulla salute delle persone nè sull'ambiente. Si tratta di particelle metalliche".

In questi giorni, arrivano quattro incidenti quasi contemporanei in quattro centrali diverse. Anche questa volta, si è assistito al solito pellegrinaggio di esponenti istituzionali, come oramai avviene in tutto il mondo, pronti a fare a gara per minimizzare l'accaduto e non generare allarmi. Ancora oggi, nel mondo, e la Spagna non fa eccezione, molti incidenti non vengono resi noti. Quando qualcuno se ne accorge, vengono comunque omessi dati importanti. In pratica, dopo la psicosi collettiva generata dall'incidente del 1986 a Chernobyl, chi gestisce le centrali si è mediaticamente blindato ed ogni volta che c'è una fuga radioattiva o una perdita di materiale, si stende immediatamente un velo di silenzio.

Per questo motivo, gli incidenti successivi a quello di Chernobyl sono spesso accompagnati da dati parziali, senza che si sappia tutto fino in fondo, e vedono la scrittura di rapporti e relazioni che terminano sempre con un "nessun pericolo per le persone e per l'ambiente".

Intanto, mentre in Italia si parla di ritorno al nucleare senza molta cognizione di causa, la Spagna continua il suo percorso per abbandonarlo. In un'intervista rilasciata alla stampa nazionale, il Premier, Josè Luis Rodriguez Zapatero, ha confermato gli impegni presi in campagna elettorale per il settore nucleare. Zapatero ha detto che il governo spagnolo non ha intenzione di costruire nuove centrali nucleari, inoltre sarà rispettata la durata di vita normale delle centrali nucleari esistenti.

L'impegno dei socialisti spagnoli è quello di eliminare progressivamente il nucleare, vista anche l'impopolarità di cui gode in Spagna, e sostituirlo con fonti energetiche rinnovabili quale l'eolico e il fotovoltaico. Le licenze delle centrali nucleari attualmente attive in Spagna scadranno tra il 2009 e il 2011, prima della fine del mandato dell'attuale legislatura socialista che sarà nel 2012. Se i piani dell'attuale governo verranno rispettati, e sempre se non si presenta una crisi energetica di notevoli dimensioni nei prossimi anni, tale da obbligare la Spagna a rinnovare le licenze, probabilmente il Paese abbandonerà il nucleare entro la fine del mandato di Zapatero.

"I paesi leader a livello internazionale stanno scommettendo sulle energie rinnovabili e non su quella nucleare. Se facessimo sforzi per il nucleare toglieremmo risorse all'energia del futuro, eolica, solare o di altro tipo", così ha dichiarato Zapatero il 30 giugno scorso, in visita in Danimarca proprio per osservare da vicino la politica energetica danese. Secondo il premier spagnolo i paesi che sono "in testa sulle energie rinnovabili", tra un paio di anni "avranno non solo contribuito a frenare il cambio climatico, ma disporranno di un valore aggiunto dal punto di vista politico, economico e sociale". La Spagna ha investito molto sulle energie pulite negli ultimi anni, arrivando ad essere il terzo produttore mondiale di energia eolica, e ha in progetto di aprire 30 nuove centrali, mentre sta seguendo una politica di smantellamento degli impianti nucleari.

 
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Nucleare, fuga di uranio in Francia

Post n°445 pubblicato il 15 Luglio 2008 da rainine

L’incidente nucleare verificatosi ieri a Tricastin (Vaucluse, Francia) ha scatenato polemiche oltralpe: pare che la reazione all’emergenza da parte delle aziende coinvolte (Areva e la controllata Socatri) sia stata lenta e negligente e che l’incidente non sia un caso isolato. I rilievi fatti sulle acque dei pozzi della zona mostrano tassi di radioattività in discesa, ma rimane timore per la penetrazione dell’uranio nella falda freatica.

Visto che gli organi di informazione italiani hanno deciso di non dare informazioni al riguardo, eccovi un aggiornamento sulla situazione ripreso dalla stampa francese.

All’inizio si era detto che...

la fuga di uranio era pari a 360 kg, poi Socatri ha rettificato dicendo che si trattava di 75 kg. L’Autorità nazionale per la sicurezza nucleare (ASN) ha dichiarato che la Socatri ci ha messo ben 12 ore a quantificare le perdite di liquido. L’ASN condurrà quindi un’ispezione e comminerà “sanzioni se ne necessario”.

La CRIIRAD - una commissione indipendente da governo e aziende che effettua studi ed analisi sulle radiazioni nucleari - ha confermato che la gravita’ dell’incidente e’ bassa (1 sulla scala Ines che valuta gli incidenti nucleari e che va da 0 a 7), ma che il problema non va sottovalutato perché si inserisce in una catena di malfunzionamenti costanti e sempre più gravi. In pratica, secondo la CRIIRAD il problema e’ strutturale: risiede nel modo di gestione della centrale e non riguarda semplicemente la fuga di uranio dei giorni scorsi.

Per questo CRIIRAD ha dichiarato che denuncerà Areva e la controllata Socatri sia per la recente dispersione di uranio nell’ambiente, (”la goccia che ha fatto traboccare il vaso”, secondo CRIIRAD), sia per le oltre 700 tonnellate di uranio che l’impianto ha disperso nel suolo durante i suoi 30 anni di attività. Da parte sua, Socatri sostiene di aver agito per tempo, contestando le affermazioni sia dell’ASN che di CRIIRAD. Secondo una portavoce dell’azienda, la certezza della “dispersione delle soluzioni a livello di suolo” si e’ avuta solo verso le 4 della mattina di martedì e a quel punto tutte le autorità sono state avvertite.

Intanto - al contrario del governo italiano, che o non sa nulla o non vuole sapere o ha altro da fare - il governo tedesco ha annunciato di aver chiesto un’analisi dell’incidente di Tricastin alla società tedesca che si occupa di protezione dalle radiazioni. Il sottosegretario all’ambiente Michael Muller, esponente di un partito contrario al nucleare, ha dichiarato che l’incidente non può essere preso alla leggera e che l’accaduto mostra che l’energia nucleare e’ una “tecnologia a rischio elevato”.

» Centrale de Tricastin : la polémique enfle su Le Figaro
» Tricastin/fuite : Socatri dit avoir agi su Le Figaro
» La Criirad dénonce “une série de dysfonctionnements” sur le site nucléaire du Tricastin su Le Monde
» Tricastin : “incident sérieux” (Berlin) su Le Figaro
» Tricastin : 770 T de déchets enfouis su Le Figaro

 
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Eredità nucleare

Post n°444 pubblicato il 15 Luglio 2008 da rainine

Che fine hanno fatto le centrali nucleari italiane inattive dal 1987 equiparabili a vere e proprie scorie radioattive sotto forma di infrastrutture? E quale sarà il destino delle scorie nucleari prodotte nel nostro paese prima che il referendum sancisse l’abolizione del ricorso all’atomo?


Sarebbe logico attendersi che la consorteria dei fautori di un ritorno al nucleare, all’interno della quale si colloca larga parte della classe dirigente del Paese, partendo dai membri del governo Berlusconi, passando per i componenti dell’esecutivo “ombra” del PD per arrivare agli ambientalisti pentiti folgorati sulla via di Damasco come Chicco Testa, fosse in grado di dare al riguardo delle risposte tanto esaurienti quanto in grado di fugare qualsiasi perplessità.
Ma la logica è “un’arte” assai difficile da mettere in pratica e... 
purtroppo occorre constatare come tutti coloro che in questi mesi si stanno rendendo artefici di un profluvio di parole aventi come oggetto la necessità di un ritorno all’atomo, più sicuro e più bello perché di terza o quarta generazione, evitino accuratamente di spendere anche una sola sillaba per rendere conto del destino di tutto quello che in Italia di radioattivo c’è già, ed avendo peso specifico ben superiore a quello delle parole tale sarà destinato a rimanere per qualche centinaio di migliaia di anni.

Ad oggi è stato realizzato solamente l’8% del totale delle attività di smantellamento delle centrali nucleari esistenti in Italia e nelle ottimistiche previsioni si pianifica di raggiungere il 40% entro la data del 2011. Il tutto naturalmente senza avere la minima idea di dove allocare in via definitiva le scorie derivanti dallo smantellamento stesso, il 90% per cento delle quali ( a bassa attività) hanno un tempo di decadimento di qualche centinaio di anni e il 10% (ad alta attività) manterranno la propria radioattività per un lasso temporale elevatissimo fino a 300.000 anni.
Le scorie nucleari prodotte durante il periodo di attività delle centrali sono attualmente all’estero dove verranno sottoposte a riprocessamento e torneranno dalla Gran Bretagna nel 2017 e dalla Francia nel 2025, senza che attualmente sia stato deciso dove collocarle.

Dopo avere carezzato nel 2003 il balzano proposito di costruire un deposito definitivo per 60.000 metri cubi di scorie nucleari ad alta, media e bassa attività in Basilicata nei pressi di Scanzano Jonico, proposito decaduto dopo appena 2 settimane di fronte alla contrarietà non solo delle popolazioni interessate ma anche di larga parte del mondo scientifico italiano ed internazionale, la società Sogin deputata a risolvere la questione non è infatti stata in grado di fornire alcuna risposta.

E non potrebbe essere diversamente dal momento che in tutto il mondo i depositi definitivi per le scorie nucleari, consistenti in silos di cemento armato o depositi geologici profondi, ospitano solamente scorie a bassa e media attività, mentre per quelle ad alta attività nessuno ha saputo offrire una qualche soluzione praticabile. Neppure il progetto Yucca Mountain del costo previsto di 60 miliardi di dollari, messo a punto negli Stati Uniti e tuttora oggetto di grandi discussioni in merito alla sua validità, ha l’ambizione di manifestarsi in qualche modo risolutivo dal momento che nella migliore delle ipotesi metterebbe “in sicurezza” per 10.000 anni scorie destinate a mantenere la propria radioattività per 300.000 anni.

Se i TG, le grandi testate giornalistiche e le trasmissioni culturali e scientifiche che propongono dibattiti con gli esperti nei salottini buoni della TV, ogni qualvolta affrontano il tema del nucleare proponendolo come un’opportunità imprescindibile per il nostro futuro, ci documentassero riguardo al destino delle scorie ereditate dal nucleare passato, senza dubbio l’informazione risulterebbe di ben altra qualità e l’opinione pubblica fruirebbe di elementi assai interessanti intorno ai quali riflettere.

 
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Peggiore dell'apartheid

Post n°443 pubblicato il 15 Luglio 2008 da rainine

 I media di regime sono pieni di resoconti sul vertice di Parigi per la nascita dell’Unione per il Mediterraneo e delle dichiarazioni ottimistiche di Olmert, Sarzozy, Berlusconi e compagnia varia, i quali tutti all’unisono affermano di non aver mai visto la pace tra Palestinesi e Israeliani così vicina.

Nessuno spazio, nemmeno un minimo accenno, alla recente visita di una delegazione di attivisti per i diritti umani proveniente dal Sud Africa, che solo un paio di giorni prima aveva trovato la situazione dei Territori palestinesi occupati disastrosa e scioccante, tanto da definire l’occupazione militare israeliana come un regime peggiore dell’apartheid.

Questo (a seguire) è il titolo dell’articolo che, il 12 luglio scorso, Gideon Levy di Ha’aretz ha dedicato a questa visita, articolo qui proposto nella traduzione...
del sito web degli “Ebrei contro l’occupazione”.

Si continua a far finta di non vedere la realtà dell’occupazione israeliana, del regime dei check point, delle barriere e delle strade a uso esclusivo dei coloni, si continua a ignorare l’espansione degli insediamenti colonici, si dimentica che persino la Banca Mondiale ha avvertito che investire nei Territori palestinesi equivale a buttare soldi in un pozzo senza fondo se non verrà eliminato il regime delle chiusure, dei check point, degli ostacoli alla circolazione.

E giornali e televisioni, ossequiosi fino alla nausea, semplicemente “dimenticano” ogni notizia che possa gettare cattiva luce su Israele, in questo come in mille altri casi.

Ad esempio, evitando di riportare la notizia che Israele ha negato l’ingresso a una delegazione del Comitato Speciale dell’Onu che investiga sulle violazioni dei diritti umani praticate da Israele a danno dei Palestinesi dei Territori occupati, senza alcuna spiegazione né alcun motivo.

Il Presidente del Comitato, Prasad Kariyaawasam, dopo aver protestato ufficialmente, ha ritenuto di dover denunciare “il deterioramento dei diritti umani e della situazione umanitaria nei Territori palestinesi occupati, la grave situazione nella Striscia di Gaza, l’impatto del muro di separazione sui diritti umani del popolo palestinese, e la continuazione della politica degli insediamenti colonici.

Ma l’Onu, è ormai risaputo, è solo un’accolita di ottusi burocrati o, peggio, di biechi antisemiti, che non si accorgono di quanto ormai sia vicina la pace…


--
"Peggiore dell'apartheid"
Gideon Levy, Haaretz, 10 luglio 2008

Pensavo che si sentissero a casa propria nei vicoli del campo profughi di Balata, nella Casbah e al posto di blocco di Hawara. Ma hanno detto che non c'era paragone: per loro il regime dell'occupazione israeliana è peggiore di qualunque avessero conosciuto sotto l'apartheid. Questa settimana, 21 attivisti per i diritti umani, provenienti dal Sud Africa, hanno visitato Israele. Fra loro, vi erano appartenenti all'African National Congress di Nelson Mandela; almeno uno aveva preso parte alla lotta armata, e almeno due erano stati in carcere. Vi erano due giudici della Corte Suprema del Sud Africa, un ex vice-ministro, parlamentari, avvocati, scrittori e giornalisti; neri e bianchi, almeno la metà ebrei, oggi in conflitto con l'atteggiamento conservatore della comunità ebraica nel loro Paese. Alcuni erano stati qui in precedenza, per altri era la prima visita.

Per cinque giorni sono stati a visitare Israele in modo anticonformistico – senza Sderot, l'esercito e il Ministero degli Affari Esteri (ma con Yad Vashem, il monumento allo sterminio, e un incontro con la Presidente della Corte Suprema, la Giudice Dorit Beinisch). Hanno passato la maggior parte del tempo nelle aree occupate, dove quasi nessun ospite ufficiale va – nei luoghi evitati pure dalla maggior parte degli israeliani.

Il lunedì hanno visitato Nablus, la città più imprigionata della Cisgiordania; da Hawara alla Casbah, dalla Tomba di Giuseppe al monastero del Pozzo di Giacobbe. Si sono spostati da Gerusalemme a Nablus con l'Autostrada 60, osservando i villaggi imprigionati che non hanno accesso alla strada principale, e vedendo le “strade per gli indigeni”, che vi passano sotto. Hanno visto e non hanno detto alcunché. Non c'erano strade separate, sotto l'apartheid. Sono passati, muti, attraverso il posto di blocco di Hawara: non avevano mai avuto barriere di quel tipo.

Jody Kollapen, che dirigeva gli Avvocati per i Diritti Umani nel regime dell'apartheid, osserva in silenzio. Vede la “giostra” in cui si schiacciano masse di persone che vanno al lavoro, a vedere la famiglia o all'ospedale. Neta Golan, che è vissuta per diversi anni nella città assediata, spiega che solo lo 1% degli abitanti ha il permesso di lasciare la città in auto; si sospetta che siano dei collaborazionisti con Israele. Nozizwe Madlala-Routledge, ex vice-ministro della difesa e della sanità, attualmente parlamentare, figura riverita nel suo Paese, è colpita dal vedere un ammalato portato in barella. “Privare la gente di cure mediche umane? Sapete, si muore, per quello”, dice sottovoce.

Le guide del tour – attivisti palestinesi – spiegano che Nablus è isolata da sei posti di blocco; fino al 2005, uno era aperto. “Si suppone che vi siano motivi di sicurezza per i posti di blocco, ma chiunque voglia perpetrare un attacco può pagare 10 shekel per un taxi e percorrere circonvallazioni, o camminare sulle colline.

Il vero scopo è rendere la vita difficile agli abitanti. La popolazione civile soffre”, dice Said Abu Hijla, lettore all'Università Al-Najah, nella città.

Nell'autobus, faccio conoscenza con i mie due vicini: Andrew Feinstein, figlio di sopravvissuti allo sterminio, che ha sposato una musulmana proveniente dal Bangladesh, ed è stato parlamentare per sei anni per l'ANC; e Nathan Gefen, che ha come partner un uomo musulmano, e che da giovane apparteneva al movimento di destra Betar. Nel suo Paese, devastato dalla malattia, Gefen è attivo nel Comitato contro l'AIDS.

“Guardate a sinistra e a destra”, spiega la guida, con l'altoparlante, “sulla cima di ogni collina, sul Gerizim e sull'Ebal, c'è un avamposto dell'esercito israeliano che ci osserva”. Qui ci sono fori di proiettili nel muro di una scuola e c'è la Tomba di Giuseppe, sorvegliata da un gruppo di poliziotti palestinesi armati. Qui c'era un posto di blocco, e qui è dove è stata uccisa una passante a cui avevano sparato, due anni fa. L'edificio governativo che c'era qui è stato bombardato e distrutto da aerei da guerra F-16. Mille abitanti di Nablus sono stati uccisi nella seconda intifada: 90 nell'Operazione Scudo Difensivo, più che a Jenin. Due settimane fa, il giorno che è entrata in vigore la tregua nella Striscia di Gaza, Israele ha compiuto quelli che, ad oggi, sono i suoi due ultimi assassinii. La notte scorsa i soldati sono di nuovo entrati, arrestando gente.

È passato molto tempo, da quando qui ci sono stati turisti in visita. C'è qualcosa di nuovo: gli innumerevoli poster-memoriali, attaccati ai muri per commemorare i caduti, sono stati sostituiti, in ogni angolo della Casbah, da monumenti di marmo e da placche di metallo.

“Non gettate la carta nel gabinetto, perché manca l'acqua”, dicono agli ospiti negli uffici del Comitato Popolare della Casbah, posto in alto, in un edificio spettacolare, di pietra vecchia. L'ex vice-ministro si siede a capotavola. Dietro di lei ci sono ritratti di Yasser Arafat, Abu Jihad e Mrwan Barghouti, il leader dei Tanzim, in carcere. Rappresentanti dei residenti nella Casbah descrivono le difficili esperienze a cui fanno fronte. Nell'antico quartiere, il novanta per cento dei bambini soffrono di anemia e di malnutrizione, la situazione economica è terribile, continuano le incursioni notturne, e alcuni abitanti non sono autorizzati a lasciare la città per alcun motivo. Usciamo per un giro sulla traccia delle devastazioni compiute negli anni dall'esercito israeliano.

Edwin Cameron, giudice nella Corte Suprema d'Appello, dice ai suoi ospiti: “Siamo venuti qui con scarse conoscenze, e abbiamo sete di sapere. Siamo colpiti da quanto abbiamo visto finora, ci è molto chiaro che la situazione qui è intollerabile”. Un poster, attaccato a un muro esterno, ha la foto di un uomo che ha trascorso 34 anni in un carcere israeliano. Mandela è stato in prigione per sette anni di meno. Uno dei componenti ebrei della delegazione è pronto a dire, purché non si faccia il suo nome, che il paragone con l'apartheid è assai pertinente, e che gli israeliani sono persino più efficienti nell'implementare il regime di separazione razziale di quanto non fossero i Sud Africani. Se lo affermasse pubblicamente, sostiene, sarebbe attaccato dagli appartenenti alla comunità ebraica.

Sotto un albero di fichi, nel centro della Casbah, uno degli attivisti palestinesi spiega: “I soldati israeliani sono vigliacchi. È per questo che hanno creato vie per spostarsi con i bulldozer. Nel far ciò, hanno ucciso con i bulldozer tre generazioni di una famiglia, gli Shubi”. Qui c'è il monumento in pietra alla famiglia – nonno, due zie, mamma e due bambini. Sulla pietra sono incise le parole “Non dimenticheremo mai, non perdoneremo mai”.

Non meno bello del famoso Pere-Lachaise, a Parigi, il cimitero centrale di Nablus riposa all'ombra di un bosco di pini. Fra le centinaia di pietre tombali, spiccano quelle delle vittime dell'intifada. Qui c'è la sepoltura fresca di un ragazzo ucciso alcune settimane fa al posto di blocco di Hawara. I Sud Africani camminano silenziosamente fra le tombe, fermandosi davanti a a quella di Abu Hijla, madre della nostra guida; era stata raggiunta da 15 proiettili. “Non ci arrenderemo, te lo promettiamo”, hanno scritto i bambini sulla sua lapide; era conosciuta come “madre dei poveri”.

Il pranzo è in un albergo della città, e parla Madlala-Routledge. “È difficile per me descrivere quel che sento. Quel che vedo qui è peggiore di quello che abbiamo sperimentato. Ma mi dà coraggio trovare che qui ci sono dei coraggiosi. Vogliamo sostenervi nella lotta, con ogni mezzo possibile. C'è un discreto numero di ebrei nella nostra delegazione, e siamo molto orgogliosi che siano stati loro a condurci qui; dimostrano il loro impegno a sostenervi. Nel nostro Paese siamo stati capaci di unire tutte le forze in una sola lotta, e fra di noi vi erano bianchi coraggiosi, ebrei compresi. Spero che vedremo più ebrei israeliani unirsi alla vostra battaglia”.È stata vice-ministro alla difesa dal 1999 al 2004; nel 1987 era stata in carcere. Più tardi, le ho chiesto in quali modi la situazione qui è peggiore dell'apartheid. “L'assoluto controllo sulla vita delle persone, la mancanza di libertà di movimento, la presenza dell'esercito dappertutto, la separazione totale e le ampie distruzioni che abbiamo visto”.
 
Madlala-Routledge pensa che la lotta contro l'occupazione non abbia successo qui a causa del sostegno USA per Israele: con l'apartheid, che le sanzioni internazionali hanno contribuito a distruggere, il caso era diverso. Qui, l'ideologia razzista è anche rinforzata dalla religione; in Sud Africa non era così. “Discorsi sulla 'terra promessa' e il 'popolo eletto' aggiungono una dimensione religiosa, che noi non avevamo, al razzismo”.

Egualmente aspre sono le osservazioni del caporedattore del Sunday Times del Sud Africa, Mondli Makanya, di 38 anni. “Quando osservi da lontano sai che qui va male, ma non sai quanto male. Nulla può prepararti a quanto abbiamo visto qui. In un certo senso, è peggiore, peggiore, peggiore, di tutto quel che abbiamo sopportato. Il livello di discriminazione, il razzismo e la brutalità sono peggiori di quelli del periodo più cupo dell'apartheid”.

“Il regime dell'apartheid considerava i neri inferiori; io penso che gli israeliani non considerino affatto i palestinesi esseri umani. Come può il cervello di un uomo architettare questa separazione totale, le strade separate, i posti di blocco? Quel che abbiamo passato era terribile, terribile, terribile – e tuttavia non c'è paragone. Qui è più terribile ancora. Noi sapevamo anche che un giorno sarebbe finito; qui non c'è una fine in vista. L'uscita dal tunnel è nerissima”.

“Sotto l'apartheid, vi erano posti in cui bianchi e neri si incontravano. Gli israeliani e i palestinesi non si incontrano più affatto; la separazione è totale. Mi sembra che agli israeliani piacerebbe che i palestinesi sparissero. Nel nostro caso, non c'è mai stato alcunché del genere: i bianchi non volevano che i neri si dileguassero. Ho visto i coloni a Silwan [a Gerusalemme Est] – persone che vogliono espellerne altre, dalle loro case”.

Dopo abbiamo camminato in silenzio per i vicoli di Balata, il più grande campo profughi in Cisgiordania, indicato 60 anni fa come rifugio temporaneo per 5.000 persone, che ora ne ospita 26.000. Nei vicoli scuri, ampî all'incirca quanto un individuo magro, vi era un silenzio opprimente. Ognuno era immerso nei suoi pensieri, e il silenzio era interrotto solo dalla voce del muezzin.

 
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