We Will Rock You

Dei tempi verbali e di altri inganni


A volte tornare ha più a che vedere con il senso delle cose, l'origine da cui trae spunto ogni gesto compiuto, il sottile filo che lega certe vite ad un unico, meraviglioso, progetto.L'ambientazione di scena è la solita: quattro scalini di legno. Malmessi.E poi oltre, questa piccola casa dipinta di viola che si staglia contro il cielo della sera.Così eccomi davanti ad un portone di legno e metallo mentre provo a far girare una chiave di ottone lucido dentro una serratura incrosta dalla ruggine e dalla distanza, e ritraggo la mia mano destra inzaccherata del verde ossidato delle cose che brillano fino a che le frequenti, e che poi si lasciano ricoprire di un opaco risentimento simil-polveredismeraldo.Posta accumulata, bollette da pagare e volantini del supermercato, prendi 3 e paghi a rate, ma solo dal 2012, tanto chissà se ce la farai a superare la fine del calendario maya.Soppeso con lo sguardo il quadro d'insieme, la location è in disuso, ma in ordine, come se intorno aleggiasse il fantasma vigile di questa specie di passato che ho abbandonato.Fluttua senza rumore, aspettandomi. Per divenire.Passato prossimo e futuro anteriore. Imperfetto indicativo.Trappole per parole.Vai a Soho. A quella sera in quel pub senza sedie con i miei due amici dell'isola.Vai alla sorpresa che ti leggono nello sguardo.Vai a quando a migliaia di chilometri da qui, dopo che hai cambiato vita, lingua e moneta, all'improvviso ti capita di ascoltare da un lettore mp3 preso in prestito, l'eco di tutte le voci che conoscevi un tempo. Come in un déjà vu.Vai a una volta, una sera tardi, davanti ad un computer grigio piombo, con in testa pensieri pesanti come tonnellate di ricordi tossici da smaltire e responsabilità da agguantare al volo, per crescere.Vai al momento in cui decidi di scrivere delle loro vite. Fregandotene della tua che intanto cade in pezzi.Trapassato remoto.E' qui che tutto ha avuto inizio. Ed è qui che deve finire.