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Io sono


Anagraficamente, Gianluca. Io ero Cuckez, dal nome degli asini (mostri debolissimi) da cui (unico nella storia) ero stato ucciso selvaggiamente in non ricordo che libro game della saga di Lupo Solitario. Io ero il Castoro. Avevo gli incisivi in avanti, da piccolo. Due zappe all’infuori. Poi, la decisione. Dopo aver rifiutato la tortura in una età per cui non avrei dovuto scomodare le decine alla sua eventuale richiesta,  ho deciso di indossare quel maledetto e benedetto “baffo”: apparecchio dentale composto dalla forma di una balestra da infilarsi in bocca almeno 18 ore al giorno, per un anno. Il tiraggio è assicurato da una fascia elastica da allacciare a suddetta balestra ad ogni indossata; la continuità del tiraggio assicurata da una sorta di cuffia da agganciare a sua volta all’elastico che lo teneva in posizione. Un casco stilizzato, praticamente. 18 ore. Diciotto ore. Cazzo, avrei dovuto portarlo alcune ore anche a scuola. Zimbello di tutti. Per distanziarmi un giorno dal soprannome di Castoro, sarei stato per qualche tempo il Castoro Pilota. Fanculo. Portarlo duo ore o per tutta la durata della scuola era lo stesso, le diciotto ore al giorno divennero ventitre ma i dodici mesi divennero sette. Io ero il Rino, soprannome figlio del cognome, che quando in classe si è in quattro con nomi composti e non contenenti “Luca” diventa difficile distinguersi. E poi, studiando filosofia si apprende che Dio è Uno et Rino, una bella notizia per l’Ego. Ed un amorevole rimprovero per quella blasfema di mia cugina, che ha chiamato Uno il proprio cane. Io ero il Dingo, dal nome di un personaggio di Magic. O dal cane selvaggio della prateria, nella fattispecie il bunker, aula studio di ingegneria. In cui cambiavo spesso posto, spostandomi da tavoli in cui si giocava a Magic a quelli in cui era praticato il Cìapa No, il Briscolone o il Biridicio. Prima di apprendere la nobile arte della Cicera Bìgia o Bigiàss, per gli amici adepti “il Ciccione”. Ero “il Fulminato” o “il Fulmine”, e non andiamo oltre nella spiegazione che tanto viene da sé. Io ero “il guru del fumo alternativo”, perché mi rullavo le sigarette e perché da frequentatore della sala studio dell’ISU, nel periodo estivo avevo istituito la “pausa narghilè” in sostituzione della “pausa sigaretta”. Ma ho sbagliato ad usare il passato. Oggi, tutti questi personaggi sono fusi nel magma incandescente di quello che sono, mescolati insieme anche all’effigie del rispettabile ing. che nel frattempo sono anche diventato, contro ogni pronostico e probabilmente andando contro la mia natura ma assecondando una delle mie passioni. A seconda dei momenti e non dei luoghi, affiora predominante una immagine, a volte nitida, a volte un ibrido, comunque non un qualcosa di statico. Perché si è tutti un po’ così, Protei i maschietti e Teti le femminucce, ed in mostrarsi si svela l’essere che invece si cela nella stasi dell’apparire. Non è un indossare maschere, è un mettersi di tre quarti in una foto, mostrare un’altra angolazione. Uno (no, sono già Rino, Uno deve essere..
), Nessuno (a volte), Centomila. Cosi è, se vi pare. Tanto, chi nasce tondo, non muore quadro. Lo dice anche Gattuso, che ha intitolato così il suo secondo libro. Il primo si chiamava “In Rino veritas”, ed allora (altra pompatine all’Ego..) non può che essere così.
Le maschere e gli abiti che non fanno il monaco danno libertà rinchiudendoti in un'altra soffocante prigionia. Questa no, è libertà allo stato puro. E me la godo. Almeno, credo.