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ECCO IL VERO IL FUTURO CHE ATTENDE L'ITALIA E NON QUELLO CHE CI VOGLIONO FAR CREDERE


La settimana scorsa Mario Sechi in un fondo sul quotidiano Il Tempo descriveva egregiamente l’attuale momento storico che sta vivendo il nostro Paese.“C’è un Paese disteso sul Mediterraneo che ha qualche problema a capire la realtà”, naturalmente riferendosi all’Italia che“è un luogo ricco che si sta impoverendo, pieno di uomini e donne intelligenti che si stanno disperdendo. Fu meta del Grand Tour, cantata dai poeti, colorata dai pittori, immortalata dai narratori. È un pezzo di memoria dell’Occidente, ma dimentica i suoi tesori”. Inoltre, l’Italia è un Paese guidato da una classe dirigente ignorante, con dei partiti politici veri rimasugli del secolo scorso che hanno e ancora divorano risorse: “Hanno incassato in vent’anni oltre due miliardi di soldi pubblici, ne hanno speso un terzo, il resto è servito a finanziare «la politica», parola nobile dietro cui si sono nascosti miseri traffici privati”. Continuando nell’analisi Sechi sostiene che ogni vent’anni l’Italia gattopardescamente, cambia tutto per non cambiare nulla. Ora ivent’anni sono arrivati, puntuali, e l’Italia strepita, mormora, promette la svolta, la rivoluzione. Ma è probabile che anche questa volta non se ne fa nulla, del resto Mario Giordano nel suo ultimo libro Spudorati, non fa altro che ripetere quello che aveva scritto qualche anno prima in Sanguisughe.Le riflessioni di Sechi le accosterei a quelle fatte da un’economista che non conoscevo, Eugenio Benetazzo, in un pamphlet pubblicato l’anno scorso per le edizioni Baldini &Castoldi, Era il mio Paese. Il futuro che attende l’Italia. Il testo scritto con straordinaria chiarezza e semplicità, un centinaio di pagine, dove l’autore riesce a fare una sintetica fotografia dei numerosi problemi che affliggono l’Italia. E’ una vera e propria inchiesta economica fuori dal coro che dà un contributo decisivo all’informazione indipendente.L’Italia per lui, non è più quel Paese che ti hanno sempre fatto credere, sia sul piano economico che sociale. Nell’introduzione presenta il suo lavoro, sostenendo una tesi inquietante: “L’Italia non è più il ‘Bel Paese’ di un tempo, anche per gli italiani inizia a manifestarsi un tipo di rischio che mai nessuno aveva preso seriamente in considerazione negli anni passati: il default”.Rischiamo il collasso perché c’è “un sistema di welfare sociale eccessivamente protezionistico, investimenti infrastrutturali inesistenti, una popolazione di anziani in costante ascesa, una classe politica incompetente e impreparata (tanto a destra quanto a sinistra), una perdita di competitività sul piano internazionale senza precedenti, il lento declino dell’attività manifatturiera, l’imposizione dall’alto di una moneta troppo forte per la nostra economia, un debito pubblico tra i più alti al mondo e sempre in aumento, il peso rilevante sull’economia nazionale della criminalità organizzata, intere generazioni di ragazzi con un futuro occupazionale precario- e conclude, quanto prima bisogna dare una risposta trovando soluzioni efficaci ed efficienti, con l’obiettivo di scongiurare il rischio di uno scenario argentino, purtroppo sempre più vicino”.Pertanto un Paese con 19 milioni di pensionati e 4 milioni di dipendenti pubblici è obbligato necessariamente a intraprendere una strada mai percorsa e mai proposta prima, quella del ridimensionamento coatto della spesa pubblica, della previdenza e dell’assistenza sociale”.Benetazzo prevede per l’Italia quanto abbiamo visto per la Grecia e così nei decenni futuri il Bel Paese rimarrà una dicitura riportata sui libri di storia.Il miracolo economico degli anni sessanta con circa 14 milioni di italiani assunti a tempo indeterminato dal settore pubblico e privato, ben retribuiti, col posto sicuro, è solo un ricordo. Ora con l’inizio del nuovo millennio anche il nostro Paese, a causa della cosiddetta globalizzazione, ha subito una serie di trasformazioni di natura sociale, demografica, economica e industriale. Benetazzo nel libro non parla mai di crisi economica, ma di trasformazione, lo racconta affrontando tutti i temi, con impareggiabile taglio inquisitorio e con un ritmo divulgativo incalzante, cominciando a lanciare il neologismo di “Cindonesia”: Cina, India e Indonesia sono infatti i tre Paesi destinati a occupare il ruolo primario precedentemente occupato da Stati Uniti, Europa e Giappone, destinati ormai a un lento e inesorabile declino di natura postindustriale a seguito dei famigerati processi di delocalizzazione.Pertanto, la Cina diventa la più grande fabbrica del mondo e di conseguenza il centro geoeconomicodel pianetasi sposta da “Londra/New York a Shanghai/Mumbai: una trasformazione di interessi, di equilibri, di risorse che avrebbe dovuto verificarsi in cinquant’anni è avvenuta in appena cinque anni con ripercussioni devastanti per le economie occidentali”. Benetazzo a questo proposito, ci invita a immaginare due grandi silos affiancati, uno completamente colmo, rappresenta l’Occidente, l’altro, per ora, vuoto e rappresenta le economie emergenti dell’Oriente. Secondo Benetazzo, nei prossimi anni assisteremo, in seguito a processi di trasformazione economica e produttiva, allo svuotamento del primo per il riempimento del secondo. L’invecchiamento della popolazione occidentale è il principale driver economico per capire questa trasformazione.L’economista ci mette in guardia: “Chi ancora oggi continua a parlare di crisi economica non ha davvero compreso che cosa sta effettivamente succedendo. Non si può parlare di crisi, ma piuttosto di una fase di emergenza senza precedenti, in quanto vengono minate le fondamenta su cui il Paese era cresciuto, si è rafforzato ed era credibile…”Benetazzo fa qualche esempio sui frutti della globalizzazione in Italia: i processi di delocalizzazione industriale hanno distrutto lentamente i grandi distretti industriali per cui l’Italia da sempre era ammirata, invidiata e copiata. L’Italia ha perso milioni di posti di lavoro per “regalarli direttamente ad altre aree geografiche, vedi Oriente, che hanno beneficiato di un arricchimento industriale, culturale ed economico in seguito a queste migrazioni economiche”. Tutto questo è evidente nell’attività manifatturiera, solamente in Italia, “i distretti calzaturieri, tessili, dell’arredamento, delle ceramiche o quelli della concia delle pelli, sono andati completamente persi in quanto la nostra classe politica non è stata in grado di leggere in profondità i rischi che la globalizzazione imponeva, e non è in grado ancora oggi di difendere le realtà imprenditoriali che davano prestigio e slancio produttivo all’intero Paese”. Si pensi al distretto tessile di Prato, migliaia di laboratori artigiani, rilevati da imprenditori cinesi, hanno licenziato le maestranze italiane e ora utilizzano esclusivamente operai clandestini cinesi, alla luce del sole.Domenico Bonvegna - domenicobonvegna[chiocciola]alice.it - miradouro.it -