«Non so come ho fatto a sopravvivere. Posso solo dire che ci ha salvato la Provvidenza». La voce di padre Thomas esce pacata e profonda. Ricordare ancora una volta quel giorno di agosto dell’anno scorso che gli ha cambiato la vita e che ha sconvolto quelle di migliaia di cristiani dello stato indiano dell’Orissa, non gli provoca ormai nessuna pena. La catarsi è compiuta, la memoria della dura prova ha generato una più profonda coscienza cristiana: «La storia della Chiesa – ha detto a Oreno di Vimercate (Milano), dove qualche giorno fa la fondazione Fides et Ratio e il mensile Il Timone gli hanno tributato il premio “Defensor Fidei” – ci insegna a sperimentare la gioia attraverso la sofferenza, una fede che è messa alla prova attraverso le tribolazioni».Thomas Chellan, sacerdote della diocesi di Bhubaneswar, è il direttore del centro pastorale di Kandhamal, una delle prime strutture cristiane assalite e distrutte da una folla di indù infuriati per la morte violenta del leader di un gruppuscolo ultranazionalista, il guru Laxamananda Saraswati. Fuggito nella giungla insieme a una suora, il sacerdote è stato catturato contemporaneamente alla religiosa dagli inseguitori il giorno dopo all’interno della proprietà di una famiglia cristiana che aveva offerto loro rifugio. Sono seguite ore di puro terrore. «Erano armati di asce, bastoni, sbarre di ferro, falci e zappe», ricorda il prete. «Per prima cosa mi hanno strappato i vestiti di dosso e hanno cominciato a colpirmi coi pugni e coi bastoni. Poi hanno cercato di spogliare anche la suora, che avevano già catturato prima di trovare me. Ho protestato per quello che le facevano, e allora uno di loro mi ha percosso con una spranga, ferendomi alla spalla. Erano infuriati, ma allo stesso tempo cercavano di farci un interrogatorio. Chiedevano: “Perché avete ucciso Saraswati? Quanti soldi avete dato ai killer? Di cosa parlate in tutte quelle riunioni che fate al centro pastorale?”. A un certo punto si sono avvicinati con una tanica piena di kerosene e me l’hanno versata addosso, poi uno ha tirato fuori una scatola di fiammiferi, e io ho pensato che di lì a poco sarei morto bruciato. Ho cominciato a pregare fra me e me: “Signore, perdonami e perdona quelli che stanno per uccidermi”. Però si sono messi a discutere fra loro, perché non erano d’accordo sul luogo dove avrebbero dovuto ucciderci. Prima ci hanno portato in mezzo alla strada e fatti inginocchiare, poi ci hanno fatto camminare fino alla località di Nuagaon perché volevano bruciarci davanti a una folla. Per tutto il percorso mi hanno picchiato e insultato. Quando siamo arrivati lì, c’erano poliziotti che guardavano dal bordo della strada senza dire nulla. Ho chiesto loro di aiutarci, ma non si sono mossi, mentre uno degli scalmanati mi ha preso a pugni perché avevo chiesto soccorso. La suora è riuscita a scivolare fra i poliziotti, ma l’hanno presa e riportata vicino a me senza che quelli alzassero un dito. Ci hanno fatto sedere sul bordo della strada, e lì mi sono preso un calcio in faccia. Un negoziante che conoscevo è andato a cercare dei pneumatici che dovevano servire per bruciarci; quando è tornato hanno ricominciato a discutere, e ci hanno portati nella sede dell’ente per lo sviluppo del distretto. I funzionari lì dentro hanno convinto i leader della sommossa a lasciarci nelle loro mani, e più tardi ci hanno accompagnato al posto di polizia. Lì ci hanno caricato su di un autobus e trasferiti a Bhubaneswar. Da allora non sono mai più tornato a Kandhamal».Tutto per difendere il privilegioPadre Thomas e suor Meena Barwa sono stati, a modo loro, fortunati. Il primo è stato ferito e umiliato, la seconda ha subìto una violenza carnale che ha coraggiosamente denunciato e per la quale oggi sta affrontando un difficile processo. Ma quel 25 agosto e nei giorni immediatamente successivi le squadracce dei simpatizzanti del Vishva Hindu Parishad, del Bajrang Dal, dell’Rss hanno ucciso 75 cristiani (facendo scomparire i cadaveri di molti per garantirsi l’impunità), assalito 300 villaggi, distrutto 56 chiese, gravemente danneggiato 5 mila case, ferito 18 mila cristiani, trasformato in profughi senzatetto 50 mila persone. E tutto questo, a stare a sentire gli assalitori, per rispondere all’uccisione di un leader estremista in realtà rivendicata dai guerriglieri maoisti, ma i cui sostenitori si dicono certi essere stata ispirata dai cristiani, che Saraswati accusava di conversioni forzate e proselitiste presso la popolazione più povera. Padre Thomas smentisce: «L’uccisione di Saraswati è stata solo un pretesto, già nel dicembre 2007 c’erano stati gravi incidenti provocati dai seguaci del guru: centinaia di cristiani erano stati feriti, le loro case e le loro chiese distrutte. La vera ragione dell’aggressione è il lavoro di promozione umana che la Chiesa ha fatto negli ultimi 20-25 anni: grazie alle nostre istituzioni scolastiche i dalit (cioè gli “intoccabili”, ndr) sono progrediti moltissimo, e oggi sono presenti in tutte le articolazioni della società, dagli insegnanti agli imprenditori agli uomini politici: anche il deputato uscente e riconfermato del distretto di Kandhamal era un dalit. Venti, trent’anni fa sarebbe stato impensabile. Questo non piace alle classi privilegiate, che coincidono con le caste più alte: i dalit, che prima erano sottomessi, oggi chiedono il loro giusto posto nella società; i privilegiati manipolano la popolazione tribale contro la Chiesa e contro gli intoccabili per vendetta».«Le persone non le convertiamo noi»Chellan respinge anche l’argomento delle conversioni “comprate”. D’altra parte nell’Orissa esiste da quarant’anni una legge che punisce tale genere di attività, ma non si ricordano processi per questo reato. «Non siamo noi che convertiamo le persone: è Dio che converte. Io sono direttore del centro pastorale di Kandhamal da sette anni e non ho mai battezzato adulti, solo qualche bambino figlio di famiglie cristiane. Gli indù sono la larga maggioranza anche in quel distretto dell’Orissa (circa il 75 per cento contro un 25 per cento di cristiani, 60 mila protestanti e 40 mila cattolici, ndr) e presso il centro pastorale c’era spazio per attività comunitarie e di promozione umana senza nessuna discriminazione religiosa: si svolgevano incontri di formazione per i catechisti, ma anche attività e riunioni per i giovani, le madri, i leader di villaggio e Ong di tutte le origini ed estrazioni». Padre Thomas è orgoglioso del lavoro fatto, ma dall’agosto 2008 non ha più rimesso piede a Kandhamal. «Non è vero che ho ricevuto minacce di morte, ma è vero che la pace e la sicurezza non sono ancora tornate: i due preti e le due suore che ora si trovano nel centro, parzialmente restaurato, sono sempre sotto la protezione della polizia. Io sarò presto chiamato per il processo contro i miei aggressori, e finché la causa non sarà conclusa il mio ritorno è sconsigliato. Ma io desidero tornare, voglio riprendere il mio lavoro. Ho sempre avuto ottimi rapporti con tutti, gli indù non sono ostili ai cristiani: solo gli estremisti sono pericolosi. La gente in generale è buona e pacifica, a parte quei gruppi che hanno interessi da difendere e manipolano i tribali contro i cristiani. Ma io non nutro sentimenti di vendetta nemmeno nei loro confronti».«Non cercavo il martirio»Padre Thomas è originario di Thekkemala, un villaggio del Kerala, la regione indiana che conta il maggior numero di cristiani. I suoi genitori hanno avuto undici figli e due di essi sono diventati sacerdoti, mentre una nipote si è fatta suora. Thomas ha sentito la vocazione a 16 anni e da subito ha nutrito il proposito di farsi “missionario”. «Leggevo le riviste sulle attività dei sacerdoti nelle regioni del nord, quelle dove ci sono pochi cristiani, e ne rimanevo affascinato. Quando ho comunicato il mio desiderio al mio parroco, ho insistito che non sarei stato un prete nel Kerala, ma in qualche diocesi lontana. Anche i miei genitori hanno acconsentito. Così mi sono trasferito nell’Orissa e lì sono diventato sacerdote diocesano». Thomas cercava qualcosa che sfidasse la sua fede e la sua vocazione, ma non si aspettava quello che sarebbe accaduto. «Quello che è successo era totalmente inatteso, io non l’ho cercato. La mia vita era bella e piena, e ora tutto quello per cui ho lavorato è stato distrutto. Ma se lei oggi mi chiede se ho trovato gioia in tutta la sofferenza che è arrivata, io le rispondo di sì. Quello che è successo mi ha permesso di incontrare tantissime persone che mi hanno offerto la loro solidarietà e la loro amicizia. Lei è venuto a cercarmi e io sono qui di fronte a lei non per le mie capacità, ma per quello che mi è accaduto. Ho scoperto l’universalità della Chiesa come prima non avevo mai compreso. Di questo sono grato a Dio». - Rodolfo Casadei - Tempi -
CRIMINI CONTRO I CRISTIANI CHE NON FANNO NOTIZIA: ORISSA VOLEVANO UCCIDERCI SULLA PUBBLICA PIAZZA
«Non so come ho fatto a sopravvivere. Posso solo dire che ci ha salvato la Provvidenza». La voce di padre Thomas esce pacata e profonda. Ricordare ancora una volta quel giorno di agosto dell’anno scorso che gli ha cambiato la vita e che ha sconvolto quelle di migliaia di cristiani dello stato indiano dell’Orissa, non gli provoca ormai nessuna pena. La catarsi è compiuta, la memoria della dura prova ha generato una più profonda coscienza cristiana: «La storia della Chiesa – ha detto a Oreno di Vimercate (Milano), dove qualche giorno fa la fondazione Fides et Ratio e il mensile Il Timone gli hanno tributato il premio “Defensor Fidei” – ci insegna a sperimentare la gioia attraverso la sofferenza, una fede che è messa alla prova attraverso le tribolazioni».Thomas Chellan, sacerdote della diocesi di Bhubaneswar, è il direttore del centro pastorale di Kandhamal, una delle prime strutture cristiane assalite e distrutte da una folla di indù infuriati per la morte violenta del leader di un gruppuscolo ultranazionalista, il guru Laxamananda Saraswati. Fuggito nella giungla insieme a una suora, il sacerdote è stato catturato contemporaneamente alla religiosa dagli inseguitori il giorno dopo all’interno della proprietà di una famiglia cristiana che aveva offerto loro rifugio. Sono seguite ore di puro terrore. «Erano armati di asce, bastoni, sbarre di ferro, falci e zappe», ricorda il prete. «Per prima cosa mi hanno strappato i vestiti di dosso e hanno cominciato a colpirmi coi pugni e coi bastoni. Poi hanno cercato di spogliare anche la suora, che avevano già catturato prima di trovare me. Ho protestato per quello che le facevano, e allora uno di loro mi ha percosso con una spranga, ferendomi alla spalla. Erano infuriati, ma allo stesso tempo cercavano di farci un interrogatorio. Chiedevano: “Perché avete ucciso Saraswati? Quanti soldi avete dato ai killer? Di cosa parlate in tutte quelle riunioni che fate al centro pastorale?”. A un certo punto si sono avvicinati con una tanica piena di kerosene e me l’hanno versata addosso, poi uno ha tirato fuori una scatola di fiammiferi, e io ho pensato che di lì a poco sarei morto bruciato. Ho cominciato a pregare fra me e me: “Signore, perdonami e perdona quelli che stanno per uccidermi”. Però si sono messi a discutere fra loro, perché non erano d’accordo sul luogo dove avrebbero dovuto ucciderci. Prima ci hanno portato in mezzo alla strada e fatti inginocchiare, poi ci hanno fatto camminare fino alla località di Nuagaon perché volevano bruciarci davanti a una folla. Per tutto il percorso mi hanno picchiato e insultato. Quando siamo arrivati lì, c’erano poliziotti che guardavano dal bordo della strada senza dire nulla. Ho chiesto loro di aiutarci, ma non si sono mossi, mentre uno degli scalmanati mi ha preso a pugni perché avevo chiesto soccorso. La suora è riuscita a scivolare fra i poliziotti, ma l’hanno presa e riportata vicino a me senza che quelli alzassero un dito. Ci hanno fatto sedere sul bordo della strada, e lì mi sono preso un calcio in faccia. Un negoziante che conoscevo è andato a cercare dei pneumatici che dovevano servire per bruciarci; quando è tornato hanno ricominciato a discutere, e ci hanno portati nella sede dell’ente per lo sviluppo del distretto. I funzionari lì dentro hanno convinto i leader della sommossa a lasciarci nelle loro mani, e più tardi ci hanno accompagnato al posto di polizia. Lì ci hanno caricato su di un autobus e trasferiti a Bhubaneswar. Da allora non sono mai più tornato a Kandhamal».Tutto per difendere il privilegioPadre Thomas e suor Meena Barwa sono stati, a modo loro, fortunati. Il primo è stato ferito e umiliato, la seconda ha subìto una violenza carnale che ha coraggiosamente denunciato e per la quale oggi sta affrontando un difficile processo. Ma quel 25 agosto e nei giorni immediatamente successivi le squadracce dei simpatizzanti del Vishva Hindu Parishad, del Bajrang Dal, dell’Rss hanno ucciso 75 cristiani (facendo scomparire i cadaveri di molti per garantirsi l’impunità), assalito 300 villaggi, distrutto 56 chiese, gravemente danneggiato 5 mila case, ferito 18 mila cristiani, trasformato in profughi senzatetto 50 mila persone. E tutto questo, a stare a sentire gli assalitori, per rispondere all’uccisione di un leader estremista in realtà rivendicata dai guerriglieri maoisti, ma i cui sostenitori si dicono certi essere stata ispirata dai cristiani, che Saraswati accusava di conversioni forzate e proselitiste presso la popolazione più povera. Padre Thomas smentisce: «L’uccisione di Saraswati è stata solo un pretesto, già nel dicembre 2007 c’erano stati gravi incidenti provocati dai seguaci del guru: centinaia di cristiani erano stati feriti, le loro case e le loro chiese distrutte. La vera ragione dell’aggressione è il lavoro di promozione umana che la Chiesa ha fatto negli ultimi 20-25 anni: grazie alle nostre istituzioni scolastiche i dalit (cioè gli “intoccabili”, ndr) sono progrediti moltissimo, e oggi sono presenti in tutte le articolazioni della società, dagli insegnanti agli imprenditori agli uomini politici: anche il deputato uscente e riconfermato del distretto di Kandhamal era un dalit. Venti, trent’anni fa sarebbe stato impensabile. Questo non piace alle classi privilegiate, che coincidono con le caste più alte: i dalit, che prima erano sottomessi, oggi chiedono il loro giusto posto nella società; i privilegiati manipolano la popolazione tribale contro la Chiesa e contro gli intoccabili per vendetta».«Le persone non le convertiamo noi»Chellan respinge anche l’argomento delle conversioni “comprate”. D’altra parte nell’Orissa esiste da quarant’anni una legge che punisce tale genere di attività, ma non si ricordano processi per questo reato. «Non siamo noi che convertiamo le persone: è Dio che converte. Io sono direttore del centro pastorale di Kandhamal da sette anni e non ho mai battezzato adulti, solo qualche bambino figlio di famiglie cristiane. Gli indù sono la larga maggioranza anche in quel distretto dell’Orissa (circa il 75 per cento contro un 25 per cento di cristiani, 60 mila protestanti e 40 mila cattolici, ndr) e presso il centro pastorale c’era spazio per attività comunitarie e di promozione umana senza nessuna discriminazione religiosa: si svolgevano incontri di formazione per i catechisti, ma anche attività e riunioni per i giovani, le madri, i leader di villaggio e Ong di tutte le origini ed estrazioni». Padre Thomas è orgoglioso del lavoro fatto, ma dall’agosto 2008 non ha più rimesso piede a Kandhamal. «Non è vero che ho ricevuto minacce di morte, ma è vero che la pace e la sicurezza non sono ancora tornate: i due preti e le due suore che ora si trovano nel centro, parzialmente restaurato, sono sempre sotto la protezione della polizia. Io sarò presto chiamato per il processo contro i miei aggressori, e finché la causa non sarà conclusa il mio ritorno è sconsigliato. Ma io desidero tornare, voglio riprendere il mio lavoro. Ho sempre avuto ottimi rapporti con tutti, gli indù non sono ostili ai cristiani: solo gli estremisti sono pericolosi. La gente in generale è buona e pacifica, a parte quei gruppi che hanno interessi da difendere e manipolano i tribali contro i cristiani. Ma io non nutro sentimenti di vendetta nemmeno nei loro confronti».«Non cercavo il martirio»Padre Thomas è originario di Thekkemala, un villaggio del Kerala, la regione indiana che conta il maggior numero di cristiani. I suoi genitori hanno avuto undici figli e due di essi sono diventati sacerdoti, mentre una nipote si è fatta suora. Thomas ha sentito la vocazione a 16 anni e da subito ha nutrito il proposito di farsi “missionario”. «Leggevo le riviste sulle attività dei sacerdoti nelle regioni del nord, quelle dove ci sono pochi cristiani, e ne rimanevo affascinato. Quando ho comunicato il mio desiderio al mio parroco, ho insistito che non sarei stato un prete nel Kerala, ma in qualche diocesi lontana. Anche i miei genitori hanno acconsentito. Così mi sono trasferito nell’Orissa e lì sono diventato sacerdote diocesano». Thomas cercava qualcosa che sfidasse la sua fede e la sua vocazione, ma non si aspettava quello che sarebbe accaduto. «Quello che è successo era totalmente inatteso, io non l’ho cercato. La mia vita era bella e piena, e ora tutto quello per cui ho lavorato è stato distrutto. Ma se lei oggi mi chiede se ho trovato gioia in tutta la sofferenza che è arrivata, io le rispondo di sì. Quello che è successo mi ha permesso di incontrare tantissime persone che mi hanno offerto la loro solidarietà e la loro amicizia. Lei è venuto a cercarmi e io sono qui di fronte a lei non per le mie capacità, ma per quello che mi è accaduto. Ho scoperto l’universalità della Chiesa come prima non avevo mai compreso. Di questo sono grato a Dio». - Rodolfo Casadei - Tempi -