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CHE COSA CI INSEGNANO GLI OPERAI DELLA INNSE


A via Rubattino, Milano, ci sono cinque operai su carri ponte sospesi a una decina di metri d’altezza. Sono reclusi lassù perché non vogliono che la loro fabbrica, la Innse Presse, sia smantellata. Questo nonostante Silvano Genta, proprietario dell’azienda, abbia deciso di licenziare tutti e vendere i macchinari. Peraltro Genta ha dichiarato di avere la coscienza a posto e ha rifiutato un incontro con gli operai per “motivi di sicurezza”. Ha anche detto a Repubblica che la vicenda sarebbe stata strumentalizzata: “La protesta è stata cavalcata dai centri sociali e dalla sinistra antagonista, che non riescono a vedere la realtà”, ha detto. Può darsi. Ma tutti gli operai fuori dalla fabbrica non possono essere tutti della sinistra antagonista, potrebbe semplicemente essere gente che ha perso il lavoro e vorrebbe riprendere a fare quello che ha fatto sino a qualche tempo fa, non trovate? Gli operai saliti sui carri ponte rappresentano un esercito di persone cui è stato tolto il lavoro ma non la dignità. Hanno mostrato – se ce ne fosse ancora ulteriormente bisogno – a una nazione distratta in cui i morti sul lavoro si contano a migliaia perché tanto un clandestino di rimpiazzo si trova sempre, che gli operai non sono macchine. Sono lavoratori, ma prima di tutto persone. E come tali devono essere rispettate. Gli uomini Innse non chiedono altro che il diritto di lavorare ogni giorno. Chiedono di essere considerati e rispettati insieme alle loro famiglie. Questo mentre gli imprenditori italiani smobilitano o scappano verso lidi falsamente accoglienti come la Cina, dove poi copiano il made in Italy in maniera spudorata (bel guadagno), ma convenienti perché non ci sono tutte quelle rotture di scatole conosciute come regole sindacali, Statuto dei lavoratori e compagnia cantando. Perché la Innse non è stata venduta agli stessi operai, trasformandoli in imprenditori di se stessi, anziché mandarli per strada? Perché non esiste in Italia una cultura di imprenditoria sociale che pensi alla produzione come mezzo non fine a se stesso, ma utile per tutti?Ed eccoci al capitalismo italiano di oggi. In cui un gigante come Adriano Olivetti, figlio di Camillo e per anni a capo della Olivetti, verrebbe considerato come minimo un pazzo da manicomio. Uno che si mette a progettare e costruire, a Ivrea, edifici industriali, uffici, case per dipendenti, mense, asili. Uno che si mette a fare l’editore e fonda un istituto per combattere la disoccupazione nell’area del canavese. E poi, come scrive la Fondazione Adriano Olivetti, “Nel 1956 l'Olivetti riduce l'orario di lavoro da 48 a 45 ore settimanali, a parità di salario, in anticipo sui contratti nazionali di lavoro. Si costruiscono quartieri per i dipendenti, nuove sedi per i servizi sociali, la biblioteca, la mensa”. Un altro pazzo da manicomio era Enrico Mattei, che per i suoi dipendenti fece costruire le case a Metanopoli, in cui c’era anche la chiesa e – come diceva lui con orgoglio – “Qui siamo tutti uguali e quando il lavoro è finito ci mettiamo la camicia bianca”.Gli operai della Innse non hanno la camicia bianca addosso, anche se il loro lavoro è finito. Non hanno quartieri costruiti per loro né un futuro sicuro davanti. Però sono persone e la loro dignità di lavoratori dovrebbe far capire – a tanti imprenditori – che il capitalismo italiano ha perso l’anima. Genta dice che agli operai sono stati pagati stipendi e liquidazione “e oggi ci sono serie aziende italiane che aspettano di potere entrare in possesso dei macchinari che hanno acquistato, rischiando altrimenti di non sopravvivere sul mercato”. Davvero queste aziende non potevano/possono rilevare anche gli operai, oltre ai macchinari? - Antonino D’Anna - Pontifex -