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BIRMANIA: IL PREMIO NOBEL PER LA PACE AUNG SAN SUU KYI CONDANNATA A 18 MESI DI ARRESTI DOMICILIARI


L’ennesima beffa di un regime che applica soggettivamente "la legge", orchestrando processi farsa. Birmania ore 7.11 in Italia, le autorità autorizzano i giornalisti a partecipare alla lettura del verdetto contro la leader dell’opposizione democratica, Aung San Suu Kyi. Il Premio Nobel per la Pace arrestata il 14 maggio per aver violato, secondo la legge locale, i termini degli arresti domiciliari, dopo che un cittadino americano si è introdotto nella sua abitazione; un processo che per gran parte delle udienze, invece, si è svolto a porte chiuse. Venti minuti dopo il tribunale, riunito nel carcere di Insein a nord di Yangon, sentenzia: Aung San Suu Kyi è colpevole, condannata a tre anni di carcere e ai lavori forzati per violazione delle norme sulla sicurezza. Ne rischiava fino a cinque. Subito dopo, però, si apprende dal ministero dell’Interno birmano che, il generale Than Shwe, capo della giunta militare al potere, ha deciso di ridurre la pena, commutandola in un anno e mezzo di arresti domiciliari: una nuova pena dunque che si assomma alla reclusione che la donna subisce da ormai da quattordici anni. Insomma un chiaro segnale politico, una macchia da gettare su l’unico baluardo di speranza democratica che esiste in Myanmar, così da mettere sotto scacco l’opposizione al regime in vista delle elezioni del 2010. Se, infatti, non verrà annunciata alcuna misura di clemenza entro il prossimo anno, la leader politica non potrà partecipare alle elezioni nazionali fissate dalla giunta militare. John William Yethaw è stato invece condannato a sette anni di lavori forzati. Nello specifico del verdetto, tre anni per violazione delle leggi sulla sicurezza, altrettanti per immigrazione illegale nel Paese asiatico, più uno per violazione delle norme municipali sull’attività natatoria. Il cittadino americano, mormone, il 3 maggio scorso si era introdotto a nuoto nell’edificio di Suu Kyi dopo essersi fabbricato delle pinne artigianali con le quali aveva superato lo specchio d’acqua del lago Inya, che isola l’abitazione nella quale da anni vive agli arresti domiciliari il premio Nobel per la Pace, pare nell’intento di donarle una Bibbia. Nonostante gli inviti della donna ad andarsene, stremato dalla fatica, ha chiesto di potere riposare qualche ora prima di abbandonare la casa. Yettaw è affetto da diabete, in questi ultimi mesi più volte ricoverato, l'ultima la settimana scorsa, a causa di un attacco di convulsioni epilettiche. Ieri è stato dimesso stato dimesso e condotto nuovamente in carcere. Altro elemento, che scagiona da qualsiasi reato Aung San Suu Kyi, è che i domiciliari prevedono per la signora – come viene chiamata in Birmania la leader della Lega nazionale per la democrazia (Nld) – nessun contatto con ambasciate, partiti politici e persone legate ai partiti, né telefonate, lettere all’estero o lasciare la propria abitazione, mentre - come ha più volte sottolineato Nyan Win, portavoce dello stesso partito d’opposizione - non c'è nessun riferimento al dare ospitalità a una persona che chiede aiuto: quindi come è possibile infrangere la legge se non vi sono restrizioni al riguardo. La condanna di Aung San Suu Kyi arriva a una settimana dall’ultimo appello per la liberazione di tutti i prigionieri politici in Birmani da parte del segretario generale dell’Onu, Ban Ki-Moo, durante un vertice del "Group of friends of Burma", i Paesi amici della Birmania, composto dalle nazioni asiatiche confinanti e quelle europee interessate, più i cinque membri permanenti nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia e Cina).Fin dall’inizio il caso è sembrato una montatura creata ad arte dalla giunta militare per poter condannare nuovamente la leader dell’opposizione. La giunta militare, al potere in Myanmar dal 1962, ha incriminato la "Signora" per impedirle di partecipare alle elezioni politiche in programma nel 2010. I 18 mesi di arresti domiciliari sono infatti il margine di tempo necessario e sufficiente alla dittatura per escludere la principale candidata dell’opposizione – che ha vinto le elezioni del 1990 e mai riconosciute dai militari – dal panorama politico nazionale.