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BRUCIA LA MORTE DELL'ULTIMA FIGLIA DEGLI ULTIMI


La storia di Denisa è corta, da raccontare: la sua vita è durata una settimana soltanto. Dun­que, una notte di fine novembre una giovane ro­mena si presenta all’ospedale di Canicattì, in Si­cilia. Ha le doglie, ma la porta del reparto di o­stetricia è chiusa, e nessuno risponde. Il marito, bracciante agricolo, dirà d’avere suonato per mezz’ora: invano. Intanto, seduta su una sedia, la donna partorisce. Il sangue sulle piastrelle del corridoio, nessuno che dia una mano, nel silen­zio della notte. La bambina è già nata quando ar­riva un’ostetrica a tagliare il cordone ombelica­le. Tutto, però, sembra andato bene. Tutto bene an­che alla visita di controllo. Ma il giorno dopo De­nisa ritorna. L’addome è gonfio, la febbre sale. È grave: tanto da trasferirla ad Agrigento, e poi a Palermo – un’ambulanza che corre attraverso la Sicilia, la sirena che urla chiedendo, per carità, la strada. Una setticemia, dicono i medici a Paler­mo, partita dalla cicatrice del cordone ombeli­cale. E niente più da fare. Denisa lotta per un gior­no, poi muore. E ora l’inchiesta, l’autopsia su quel corpo di bam­bola nel freddo dell’obitorio: per capire come si possa, oggi in Italia, nascere sani, e morire in set­te giorni. Di una infezione di cui si muore nelle favelas, e nei villaggi dimenticati dell’Africa, ma non più, da tempo, in Occidente. Quei due ro­meni, entrambi poco più che ventenni, non si capa­citano che possa essere ac­caduto qui, in Italia, nel Paese sognato e faticosa­mente conquistato, nella parte 'giusta' del mondo. Perché, si chiedono, nes­suno li ha aiutati, perché partorire un figlio in un corridoio, e quanto sterile era la medicazione al cor­done tagliato di fretta da u­na ostetrica affannata? So­spetteranno che sia anda­ta in questo modo perché sono stranieri, poveri cristi, braccianti – come a dire nessuno. Ma forse non è così. Quella porta era chiusa per altre ragioni, altre inefficienze o calcificate carenze cui il Sud è abituato, o maga­ri per semplice sciatteria. Troppo lavoro, poco personale, o il sonno, nella notte fonda, di chi do­veva vegliare? E quei controlli, poi, quanto sono stati accurati, per non vedere ciò che in 24 ore sarebbe stato mortale? Sarà difficile probabilmente stabilire cosa dav­vero è stato, e chi è stato. Perizie, processi, ma­gari un risarcimento, poi il caso di Denise verrà archiviato: carte ingiallite in un armadio di tri­bunale. Ce n’è tanta di malasanità, ogni giorno; è una storia forse questa, in fondo, come molte altre, di vite perse per un banale sbaglio. Eppure brucia di più, la morte, se a morire è una appena nata, forte abbastanza da venire al mon­do senza nessuno accanto, su una sedia in un corridoio deserto. Brucia di più, se la distrazione o la routine hanno distolto lo sguardo dei medi­ci da quella piccolissima figlia di stranieri, di brac­cianti, ultima figlia di ultimi. Due ragazzi che quella notte si son trovati con un bambino in ar­rivo, e nessuno ad accoglierli. Soli: lui inerme, lei barcollante nelle doglie. E viene in mente che si studiava una volta, a scuo­la, in questi giorni di Avvento, una poesia che rac­contava di una coppia di stranieri in una notte fredda, lei già ansante dei primi dolori. E anche in quella poesia nessuno apriva la porta, non l’o­ste, non la locandiera, finché a mezzanotte il bambino nasceva in una stalla. Ecco, addolora di più, di questa 'usuale' storia italiana, quella por­ta chiusa davanti a due poveri, e a quello che sta per vedere la luce. Come una metafora, oggi e in un grande Paese, di una antica, radicale indiffe­renza degli uomini a chi è indifeso, impotente, piccolo. Al più piccolo di tutti, il figlio che nasce. - Marina Corradi -  Avvenire - ilMascellaro -