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LETTERA DALLA TERRA SANTA/" IL CORAGGIO DI SAIWA DAVANTI AL GIUDICE"


Cari amici del Sussidiario, un saluto e un ringraziamento per il vostro sostegno a Lazarus Home, a Saiwa e alle sue figlie. Vi scrivo appena tornata da Ramallah (capoluogo dei territori palestinesi autonomi in Cisgiordania, ndr) dove oggi si è tenuta una nuova udienza del processo contro Saiwa. Da cinque lunghi anni Saiwa è detenuta senza motivo. E' stata gettata nell'angolo di una prigione e lasciata lì: senza garanzie, senza prospettive o esiti. Il suo avvocato non ha fatto assolutamente nulla per lei. In Palestina, se un uomo uccide una donna, riacquista la libertà il mese stesso. Ma Saiwa (che ha ucciso suo marito dopo una vita di abusi, ndr) è una donna e solo per questo motivo la sua vicenda giudiziaria sta consumandosi in un tempo che sembra non aver fine. Oggi Saiwa - per la prima volta - non ha pianto, non aveva gli occhi rossi. Ha parlato a voce alta e il giudice l'ha rimbeccata, dicendole di starsene calma. Ma lei non s'è persa d'animo e ha alzato ancora la voce. Ha protestato: «Questo processo va avanti da cinque anni e non approda a nulla. E io ho bisogno di tornare dalle mie figlie che mi stanno aspettando. Stanno diventando grandi senza di me e io soffro per questo». Ho chiesto come sempre di poter parlare a Saiwa. Ci siamo date un grande abbraccio e le ho detto degli amici italiani che ci sono vicini e che ci sostengono. E questo ci sta dando vera speranza. In Cristo, SamarLA STORIA DI SAIWALa storia che vorrei raccontare iniziò quando cinque bambine furono lasciate sulla porta dell’orfanotrofio, esattamente cinque anni fa. Diana era la più piccola e aveva due anni, Tabet ne aveva tre, poi Naziha, Lulu e Imtiaz, la maggiore, che aveva sei anni. Non potete immaginare i pianti e le lacrime sui gradini dell’orfanotrofio di queste bambine che avevano perso entrambi i genitori. La loro madre aveva ucciso il loro padre e nessuno sapeva dove era finita. Le prime parole di Imtiaz furono: «Questo posto è un rifugio? È questo l’orfanotrofio?». Le altre bambine le abbracciavano piangendo, perché anche loro si erano trovate in condizioni simili. La prima cosa che feci dopo aver accolto le bambine fu un giro di telefonate per cercare di sapere dove era la loro madre e alla fine la trovai in una prigione. Decisi quindi di andare a visitarla. La situazione nella prigione era difficile da immaginare, ma tutti i poliziotti erano commossi perché era la prima volta che qualcuno portava dei bambini a visitare la propria madre in quella prigione. Da quel momento e ascoltando la storia di quella donna, della sua vita piena di maltrattamenti e abusi, ho deciso che doveva diventare un membro della mia famiglia della Casa di Lazzaro. Ho detto di lei a tutti i miei amici e con gli amici italiani di Valmontone (che aiutano la nostra casa) siamo andati due volte nell’ufficio del Presidente dell’Autorità Palestinese, Abu Mazen, per chiedere pietà per lei. La donna non è mai stata visitata da nessuno in prigione, neppure dai suoi genitori: gli unici visitatori siamo noi della Casa di Lazzaro. Una volta ho chiamato l’avvocato nominato per la sua difesa e gli ho chiesto se vi sarebbe stata pietà per Saiwa: la risposta è stata che non vi sarebbe stata nessuna pietà per una donna simile. Gli dissi: «Pietà almeno per le figlie» e la risposta fu «Neppure le sue figlie devono conoscerla». Il direttore della prigione è stato sempre molto accogliente durante le nostre visite alla prigione, ma anche lui ha parlato allo stesso modo: «Meglio non creare speranze in una situazione dove non c’è nessuna speranza». Mi ha detto anche che mi consigliava di non continuare a portare le bambine con me durante le visite alla madre, ma di tenerle lontano. Su Saiwa incombe la vendetta della famiglia e di tutta la tribù del marito, così tutti sono convinti che lei morirà comunque. Il prossimo 10 gennaio andremo ancora in tribunale per assistere all’udienza di Saiwa. È normale che ci siano molte aggressioni e in tribunale ci saranno tutti i parenti del marito, mentre lei sarà sola. Quando vede me e Padre Roberto - un prete che viene con me e altri amici alla prigione - lei sorride. Noi veniamo normalmente presentati come la famiglia di Saiwa. Questo le dà la speranza che c’è qualcuno che le vuol bene per quello che lei è; lei ha capito completamente la sua miseria e difende i propri diritti nella speranza di tornare libera e di riunirsi alle proprie figlie, che stanno vivendo e aspettando perché lei torni da loro. (da una lettera di Samar Sahhar) - ilsussidiario -