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HAITI, TUTTI IN FILA SOGNANDO DI FUGGIRE


Ovunque in città gente in coda per il cibo e un passaporto: «Qui il futuro non esiste»Una lunga fila di gente di ogni età e ceto si raduna tutte le matti­ne, molto presto, e resta per o­re sotto un sole cattivo davanti all’edi­ficio degli Uffici emigrazione e immi­grazione, in rue Lalue. Il luogo non è distante dalla centralissima Champs de Mars, dove giacciono i resti del Palaz­zo nazionale e sorge la grande tendo­poli che ha fagocitato monumenti e giardini pubblici. Molte di quelle per­sone in fila vengono da sotto quei fra­gili tetti improvvisati, per alcuni anche solo un lenzuolo annodato da un albe­ro a un lampione. Tra grida e richiami, decine di braccia allungate al cielo, sopra teste che si schiacciano fin contro la cancellata e agitano convulse grandi buste com­merciali con dentro le pratiche per la domanda di un passaporto. «C’è mol­ta confusione. Non è ancora stato de­finito niente di concreto. Nessuna idea chiara sugli interventi, perché nessu­no sa che cosa fare e che cosa sarà de­ciso di fare, né che soluzioni prenderà il governo dato che le sue istituzioni e i suoi uffici sono stati azzerati dal ter­remoto – ci dice Jéròme Orbert, im­piegato statale, anche lui in fila –. Mol­ti della città, coloro che hanno potuto, se ne sono tornati ai paesi d’origine, nei villaggi, in campagna. Io voglio rag­giungere i miei parenti in Francia. Non voglio che la mia vita diventi prigio­niera della provvisorietà di una strada. Devo solo rinnovare il passaporto sca­duto. Sì, siamo in tanti, come potete vedere, e non so quando riuscirò ad a­vere il documento. Ma poi parto e non torno indietro più. Il futuro a Haiti non esiste». Sono file che si allungano ogni giorno che il calendario si allontana da quel 12 gennaio che ha portato un sisma di 7,3 gradi Richter; si gonfiano intanto che nuovi giorni si aggiungono come a evidenziare quella che appare una im­pietosa sentenza di impotenza orga­nizzativa di fronte all’immensità del di­sastro accumulato. Numerosi, intanto, si fanno gli assem­bramenti umani che si formano da­vanti alle ambasciate straniere. Come per quella del Canada, in Delmas 75, dove sono militari con la foglia di ace­ro rossa sulla spallina della mimetica, armati di fucili d’assalto, a badare al­l’ordine sulla strada.Altrettante sono le file davanti agli spor­telli bancari di Unibank o Sogebank. Le guardie haitiane di sicurezza privata, armate di fucili a pompa, mantengono le persone alla debita distanza del «si entra uno alla volta». Si va per preleva­re il contante che servirà a due cose fon­damentali: affrontare la giornata con i prezzi dei generi di consumo che lievi­tano, oppure per organizzare il proprio viaggio che si concluderà in un altro Paese, a cominciare dagli Stati Uniti, dove vive una folta comunità haitiana. E poi ci sono le file della fame, quelle che sembrano comporsi d’improvviso, là dove si diffonde la voce che ci sarà la distribuzione di generi alimentari. Ma nei quartieri più disperati, le baracche di lamiera arrugginita sul mare di La saline, Cité Soleil, Cité Militaire, dove è sempre stato difficile sopravvivere, e nulla è mai stato portato, se non per qualche emergenza, quasi nulla è cam­biato. Niente c’era e niente c’è ancora. Sembra di assistere a un impulso spon­taneo. Le file di persone a Port- au­Prince appaiono come qualcosa che deriva da un moto di ritorno da un trau­ma, quello del terremoto, evidente­mente. Qualcosa che avviene quando chi è sopravvissuto a u­na tragedia o a un incu­bo, giunge a stabilire che gesti e parole sono inutili. Solo una deci­sione alla quale, a quanto sembra, non si può che obbedire. E ad Haiti, in questa fase di incertezza sul suo futu­ro, la decisione che sta passando si chiama: andare via. Non solo perché c’è stato il terremoto che ha portato la sua catastrofe uma­na e materiale. Le sconquassate ca­mionette bianche con i caschi blu del­la missione di stabilizzazione delle Na­zioni Unite, che armate salgono e scen­dono le strada costeggiate di edifici crollati e ancora qualche cadavere e­stratto dalle macerie in condizioni a dir poco pietose, sono lì a ricordare un passato mai spento, fatto di bande, a metà strada tra la delinquenza, il traffico di droga e la vio­lenza politica, armate di pistole e bastoni, che per anni hanno spa­droneggiato in quartie­ri dove ancora è diffici­le entrare, senza una sicurezza armata. «Port-au-Prince era la zona più ricca di tutto il Paese. L’università, un minimo di servizi, e il lavoro. Dopo il terremo­to nemmeno uno dei diciotto edifici ministeriali è rimasto integro. Il gover­no non sembra ancora essersi ripreso dallo choc – racconta un diplomatico occidentale –. Solo se consideriamo che gli haitiani sono un popolo che ha sem­pre vissuto il digiuno come abitudine sociale, perché è un popolo che ha sem­pre mangiato una sola volta al giorno, quello che ancora regge nella gente, e che gioca un ruolo fondamentale di fronte alla consapevolezza di avere per­so tutto, è solo la fede. Questo, però, non basta a frenare l’emorragia, l’eso­do che si sta preparando. Ci vorrà qual­cosa di più di un idea di tipo ' Piano Marshall' per risollevare Haiti. Certo – aggiunge il diplomatico – si dovrà pun­tare su un robusto coordinamento tra i grandi attori internazionali, i Paesi a­mici dei Caraibi, e l’America del sud. Ma i responsabili delle istituzioni loca­li devono sapere da subito che è anche venuto il momento di fare le cose giu­ste e il bene per tutti, altrimenti ci fa­remo tutti attori responsabili della fu­ga degli haitiani dalla loro isola».«Il governo non si è ripreso dallo choc. Quello che ancora sorregge il popolo è la fede Ma per fermare l’esodo non basta» -Claudio Monici - Isegnideitempi -